da abbaino a zerbino.
Iscrivendoti alla newsletter potrai scaricare la versione in pdf.
Buona lettura!
Sovrastruttura applicata ai tetti a falde inclinate con finestra di chiusura, per dare luce a stanze o soffitte e permettere l’accesso al tetto.
- Il nome deriva da abatino, perché le lastre di ardesia che ricoprivano gli abbaini erano dello stesso colore delle vesti degli abati. La presenza di un abbaino coinvolge due articoli del Codice: l’Art. 1117 e l’Art. 1102 cod. civ.. Se esso è inserito nella struttura e nel profilo del tetto, ne costituisce parte integrante, e quindi è regolato dall’Art. 1117 cod. civ.. Se, invece, l’abbaino viene costruito in un secondo tempo per dare aria, luce e maggiore altezza ai locali sottostanti, la sua struttura segue la proprietà dei locali stessi.
- Quando i locali sono di proprietà comune - quali, ad esempio, lavanderia o lo stenditoio - anche l’abbaino ed i suoi componenti sono di tutti i condomini.
- Se i locali sottostanti sono di proprietà individuale e l’abbaino viene costruito in tempi successivi, tutta la struttura ed isuoi componenti sono egualmente di proprietà singola.
Il proprietario di quei locali, se intende creare un’apertura nel tetto per dare ad essi aria e luce, potrà creare un lucernaio - di cui vedremo in appresso - e farà ricorso al disposto dell’Art. 1102 cod. civ.. A condizione che la superficie del lucernaio non sia eccessiva, e non impedisca un uso simile agli altri condomini, non dovrebbe incontrare ostacoli di sorta. Volendo, invece, aumentare - almeno in parte - l’altezza dei locali, dovrà appellarsi all’Art. 1102 cod. civ., ma potrà incontrare il non gradimento dell’assemblea. Esistono in merito varie sentenze, favorevoli e contrarie. Il Tribunale di Milano (28 febbraio 1991) afferma che il proprietario del sottotetto può aprire abbaini nel tetto purché l’abbaino stesso sia costruito a regola d’arte, non pregiudichi la funzione di copertura del tetto ne’ leda altrimenti il diritto degli altri condomini. Il Consiglio di Stato (14 giugno 1996, n. 689) afferma, invece, che l’apertura di un abbaino nel tetto ne altera uno degli elementi esterni, specie se è di rilevanti dimensioni ed in quanto determina la trasformazione delle strutture preesistenti, per cui non può essere legittimamente intesa come opera di risanamento o di adeguamento igienico, essendo piuttosto rivolta a rendere abitabili spazi prima non utilizzati per dirette esigenze abitative. Identica motivazione in opposizione viene espressa dal T.A.R. del Veneto (7 marzo 2003, n. 1692), con identico ragionamento e parole. La Corte di Cassazione (7 febbraio 2008, n. 2865) - parlando di sopraelevazione di cui all’Art. 1127 cod. civ. - ritiene parimenti non legittima la costruzione dell’abbaino poiché esso può configurarsi come sottrazione di un bene comune - il tetto - alla sua destinazione in favore degli altri condomini, attraendolo nell’uso esclusivo del singolo condomino. Il T.A.R. della Campania (9 giugno 2010, n. 13309) afferma che l’abbaino non può essere consentito in quanto incide significativamente sulle sagome dell’edificio. Ultimamente la Suprema Corte (10 aprile 2013, n. 8775) precisa che se il Comune ha rilasciato la licenza per la realizzazione dell’opera, il parere del condomino vicino, che giudica orrendo il nuovo abbaino, non merita considerazione. È però una sentenza opinabile in chiara controtendenza con gli altri pareri.
Modo di acquisto della proprietà per cui il proprietario del suolo acquista la cosa altrui che in essa si incorpora naturalmente. In un fabbricato in condominio esistono delle parti comuni che possono interessare i proprietari di aree esclusive ad essa vicine o aderenti. Pensiamo al suolo e sottosuolo o ai pianerottoli delle scale nonché ai sottotetti. Sia il suolo che il sottosuolo sono di proprietà condominiale ed indicati nella prima parte dell’Art. 1117 cod. civ., quella cioè che elenca tutte le parti indispensabili all’uso comune. Il proprietario dei locali posti al piano terra o al piano interrato non può sfondare il pavimento per maggiorare l’altezza dei locali o fare opere analoghe a servizio solo della sua unità immobiliare. Infatti, senza l’autorizzazione di tutti i condomini, ogni lavoro che non sia di consolidamento, sistemazione o riparazione, è vietato (Cass. 11 novembre 1986, n. 6587). In quanto ciò non costituisce un maggior uso di una proprietà esclusiva – prevista ed autorizzata dall’Art. 1102 cod. civ. – ma è proprio vietata dal citato articolo, in quanto è impedito agli altri condomini di farne uguale uso. Di quello spazio, di proprietà comune, viene alterata la destinazione ed impedito un uso uguale da parte degli altri condomini, i quali non ne hanno accesso (Cass. 9 marzo 2006, n. 5085). È importante ricordare che rientrano tra le nozioni di bene comune non solo quelli espressamente elencati nell’Art. 1117 cod. civ., ma anche tutti quei beni assimilabili a quelli indicati, in relazione alle loro destinazioni (Cass. 16 gennaio 2013, n. 946). Nella ipotesi del perimento di un edificio, esso viene meno e permane solo la comunione sul suolo, ed una eventuale nuova opera – se difforme da quello preesistente – il condominio non rinasce e la nuova opera sarà soggetta alla disciplina dell’accessione (Cass. 16 marzo 2011, n. 6198) e quindi da attribuire secondo le quote originarie del suolo, salvo diverso esplicito accordo, peraltro prevedibile. La suddetta sentenza conferma quella precedente (Cass. 20 maggio 2008, n. 12775) la quale stabiliva che la nuova costruzione era soggetta esclusivamente alla disciplina dell’accessione e la sua proprietà spettava ai comproprietari dell’area in proporzione alle rispettive quote. Nel caso dei sottotetti si hanno disposizioni ed interpretazioni simili. L’autonomia di un sottotetto non è sufficiente a determinarne la natura condominiale. Conseguentemente, se non sarà dimostrato l’intervenuto acquisto per usucapione o l’esistenza di un diritto di superficie in favore di un soggetto diverso, la naturale espansività connessa al principio dell’accessione comporta necessariamente l’appartenenza ad un unico proprietario della costruzione edificata sulla relativa verticale (Cass. 20 luglio 2007, n. 16085). Un’altra sentenza della Suprema Corte sancisce che la costruzione di un opera, da parte di un condomino su beni comuni, non è disciplinata dalle norme sull’accessione, bensì da quelle sulla comunione, per cui costituisce innovazione della cosa comune una modificazione della forma o della sostanza del bene. Pertanto, la costruzione da parte di un condomino di una ulteriore rampa su una scala comune, collegata con il bene di proprietà esclusiva, costituisce modifica strutturale della scala e può determinare l’appropriazione da parte di un condomino del vano occupato dalla nuova rampa (Cass. 19 novembre 2004, n. 21901). Spesso si cerca di inglobare in una proprietà privata una parte di pianerottolo che accede solo alla suddetta proprietà. È una accessione non consentita se non con il voto favorevole di tutti i condomini, compresi coloro che – eventualmente – non avessero accesso alla scala (Cass. 10 ottobre 2007, n. 21246). La Suprema Corte qualche mese prima (Cass. 10 luglio 2007, n. 15444) aveva sancito che anche i condomini proprietari dei negozi con accesso dalla strada possono votare, essendo anch’essi interessati ad usufruire delle scale, e quindi dei pianerottoli, perché interessati alla conservazione e manutenzione del tetto del fabbricato, del quale anche loro godono. Ulteriore sentenza nega l’accessione in toto o in parte di un pianerottolo anche se esso è a servizio di una sola unità immobiliare e ribadisce che l’intera struttura delle scale è di proprietà comune e che l’eventuale modifica, seppur minima, deve essere approvata da tutti i condomini (Cass. 9 agosto 2010, n. 18488). Appare evidente che la presunzione di comunione di cui all’Art. 1118 cod. civ. non può essere vinta, nel caso di un condominio, dalla presunzione di acquisto per accessione ex Art. 934 cod. civ..
Liquido indispensabile per la vita dell’uomo, degli animali e delle piante. L’impianto di adduzione dell’acqua potabile all’interno del condominio è elencato al punto tre dell’Art. 1117 cod. civ.. Il suddetto impianto può attingere l’acqua in due modi: dal pozzo artesiano o dall’acquedotto pubblico. Nel caso di impianto idrico collegato alle condutture pubbliche, la proprietà comune condominiale ha inizio dal punto di innesto della conduttura dell’ente erogatore dell’acqua potabile sino alle singole diramazioni di ogni unità immobiliare di proprietà esclusiva. Nel caso di impianto idrico collegato al pozzo artesiano, l’impianto condominiale ha inizio dal pozzo stesso, composto da antipozzo, pompe, tubazione, cisterna di raccolta e di scorta e impianto elettrico. Tutto l’impianto, in entrambi i casi, è condominiale, compresa l’acqua – e questo fino al punto di diramazione privata – e quindi la normativa, riferita al D.L. 2 febbraio 2001, n. 31, modificato dal D.L. 2 febbraio 2002, n. 27, attribuisce all’amministratore la responsabilità di effettuare regolarmente i controlli affinché l’acqua sia sempre salubre. Per la salubrità dell’acqua potabile si hanno tre potenziali responsabili: l’ente erogatore fino alla diramazione verso il fabbricato; il condominio – e per lui l’amministratore – fino al punto di diramazione all’impianto privato, e quindi il condomino da quel punto sino ai rubinetti. Nel caso del pozzo artesiano, i responsabili della salubrità dell’acqua sono solo due: il condominio – e per esso l’amministratore – dal pozzo alla diramazione privata e quindi il condomino. Ciò è importante alla luce delle responsabilità, anche penali, nel caso si verifichino problemi sulla potabilità o salubrità delle acque utilizzate nel condominio, e sulle possibili cause inquinanti. Poiché ogni condomino ha diritto di ricevere una adeguata fornitura di acqua potabile, se nei locali privati c’è una carenza di portata o di pressione, egli ha diritto di richiedere i provvedimenti necessari a risolvere questa situazione, sempre che il problema sia condominiale. In questa ipotesi, potrà essere opportuna o necessaria la installazione di una autoclave. Detto impianto sarà di competenza, uso e manutenzione condominiale se utilizzato di tutti i partecipanti. Sarà invece privato o solo di alcuni se interesserà solo uno o pochi altri utenti. Erroneamente, a volte, si ritiene che la proprietà della tubazione privata inizi in corrispondenza del contatore, ma questo strumento serve solo per misurare la quantità di acqua erogata, ed a volte può non esistere. In certi casi la consegna e la quantificazione dell’acqua da parte dell’ente erogatore avviene per utenza raggruppata, e la ripartizione ai singoli dei consumi si realizza tramite la installazione di contatori per ogni unità immobiliare. Nella ipotesi che l’ente erogatore fornisca l’acqua e che la stessa venga contabilizzata da un unico contatore principale, i consumi dei singoli si potranno conteggiare nei modi preferiti dai partecipanti (Cass. 13 marzo 2003, n. 3712).
È colui che acquista, a titolo oneroso, da un terzo, la proprietà di un immobile. Come per il venditore, anche per l’acquirente opera lo stesso articolo - Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. – ed essi, fino a quando non sarà risolto il rapporto condominiale, sono legati a doppio filo. Presentata la copia autentica del rogito e saldato ogni onere relativo al condominio, il venditore uscirà dalla scena e resterà a pieno titolo l’acquirente, nuovo condomino. Alle assemblee verrà convocato il condomino subentrato ed a lui faranno capo tutte le spese ordinarie e straordinarie e tutti i diritti ed i doveri che gli derivano dal possesso. È stato detto che – in caso di eventuali contestazioni sulle spese condominiali emerse dopo il rogito – l’alienante non potrà intervenire in assemblea od interloquire direttamente con l’amministratore, se non facendosi rappresentare dal nuovo proprietario (Cass. 10 gennaio 1990, n. 9). È la conferma che – fosse mai necessario – è l’unità immobiliare ad avere diritti e doveri nel condominio e, per essa, si fa ovviamente riferimento a colui il quale è proprietario nel momento in cui sorgono tali diritti e doveri. Se sorge una contestazione o emerge una spesa dopo che è intervenuto il passaggio di proprietà, riferentesi però ad un periodo antecedente il rogito, l’alienante ha certamente diritto di fare valere le proprie ragioni, ma deve necessariamente avanzarle tramite il nuovo acquirente, che è l’unico a rappresentare l’unità immobiliare e ad intervenire in assemblea. Si verifica spesso il caso di deliberazioni assembleari relative a lavori straordinari ed assunte con l’intervento attivo o passivo di colui che intende alienare l’unità immobiliare, il quale – prima dell’inizio delle opere o durante il corso dei lavori – cede in effetti la proprietà, dimenticando di avvertire l’acquirente della situazione. L’acquirente, posto dall’amministratore di fronte alla spesa inaspettata, ricusa o contesta il pagamento, eccependo la sua estraneità alla deliberazione. Nei tempi passati venne disposto che l’obbligo per il condomino di pagare la quota per le spese di manutenzione straordinaria derivasse dalla concreta attuazione della manutenzione e non dalla preventiva approvazione della spesa e della conseguente ripartizione, e sorgesse per effetto di un atto concretamente compiuto e non per effetto dell’autorizzazione deliberata (Cass. 7 luglio 1988, n. 4467). Non pareva una sentenza, a conferma di altre, così sbagliata, considerando che una unità in condominio viene alienata ed acquistata nello stato di fatto e di diritto in cui si trova al momento della trattativa, con la conseguenza implicita che anche il prezzo di vendita terrà conto della situazione oggettiva. Invece, in tempi più recenti, la Suprema Corte ha cambiato parere e con motivazioni opposte: sul tema della ripartizione delle spese straordinarie, da eseguire o in esecuzione, in caso di alienazione, l’onere del pagamento spetta al vecchio proprietario. Infatti, in caso di alienazione di una unità immobiliare nel cui condominio siano stati deliberati lavori di manutenzione straordinaria, ristrutturazione o innovazione sulle parti comuni, qualora fra alienante ed acquirente non siano intervenuti accordi particolari, al pagamento degli stessi è tenuto l’alienante che era proprietario al momento della deliberazione assembleare in cui vennero approvati detti interventi, avendo tale deliberazione valore costitutivo della relativa obbligazione. Di conseguenza, se le spese sono state deliberate antecedentemente alla stipula del contratto di vendita, ne risponde l’alienante, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l’acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del medesimo, di quanto pagato al condominio per tali lavori, in forza del principio di solidarietà passiva di cui all’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. (Cass. 29 aprile 2010, n. 10405 – Cass. 3 dicembre 2010, n. 24654).
È considerata tale ogni pianta con fusto eretto e legnoso che nella parte superiore si ramifica.
Il problema degli alberi – più che del verde e dei fiori – parte da due presupposti: alberi su area condominiale ed alberi su area privata in ambito condominiale.
Gli alberi messi a dimora su due proprietà contigue, e quindi su aree di condominii diversi, debbono rispettare le distanze dai confini previste dalla legge o dai regolamenti comunali o dagli usi locali.
L’Art. 892 cod. civ. fissa alcune distanze dal confine:
− tre metri per gli alberi di alto fusto,
− un metro e mezzo per gli alberi di non alto fusto,
− mezzo metro per viti, arbusti, siepi ed alberi da frutto alti non oltre m. 2,5.
Le distanze anzidette non si devono osservare se sul confine esiste un muro divisorio proprio o comune, purché le piante siano tenute ad altezza che non ecceda la sommità del muro.
Nel caso gli alberi o le siepi siano piantate, o nascano, a distanza minore di quelle indicate, il condominio o proprietario confinante ne può richiedere l’estirpazione.
Nel caso esistano alberi o siepi a distanze inferiori ed antecedenti l’acquisto, se la pianta stessa muore, o viene recisa o abbattuta non può essere sostituita se non a distanza legale.
Gli alberi messi a dimora su un’area condominiale che protendessero i rami oltre la proprietà confinante, potranno essere tagliati dal confinante stesso, o potrà farne giustificata richiesta nei confronti del condominio.
Lo stesso dicasi per eventuali radici che si addentrano oltre confine.
In merito si hanno svariate sentenze, ad esempio sulla altezza delle siepi, purché periodicamente recise e curate (Cass. 8 gennaio 1981, n. 164).
Altra sentenza precisa che alberi considerati di alto fusto, pur se piantati in modo da formare una siepe, debbono rispettare la distanza imposta per gli alberi e non quella delle siepi (Cass. 3 luglio 1980, n. 4255).
I cipressi piantati in funzione di frangivento, anche se chiaramente classificabili come alberi di alto fusto, non possono essere considerati tali (Cass. 21 ottobre 1976, n. 3708).
Eventuali alberi da frutto piantati in prossimità del confine con altra proprietà, non debbono superare l’altezza massima prevista dalla legge (Cass. 28 novembre 1981, n. 6348).
La potatura degli alberi, lo sfalcio dell’erba nelle aree a giardino, la cura delle piante nonché ogni e qualsiasi trattamento imposto dalla tecnica agraria sarà a carico di tutti i residenti del condominio – e cioè proprietari e conduttori – di ogni unità immobiliare, comprese quelle che non hanno accesso diretto all’area verde, poiché la presenza del verde valorizza tutto l’immobile.
Esistono poi unità immobiliari site in condominio e proprietarie di aree esclusive piantumate.
La cura dei suddetti giardini spetta ai singoli proprietari delle aree stesse, i quali devono provvedervi per il decoro di tutto il fabbricato condominiale.
In casi particolari, però, con piante private ad alto fusto inserite entro balconi opportunamente sagomati, la spesa di potature od altre cure spettano a tutto il condominio (Cass. 18 aprile 1994, n. 3666).
È colui che trasferisce ad altri, a titolo oneroso, un diritto speciale di proprietà su qualsiasi cosa. Nel caso di un immobile si tratta del venditore/costruttore o iniziale proprietario, che vende ad un terzo una determinata proprietà immobiliare. L’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. – che è inderogabile – fotografa egregiamente la situazione, affermando che l’alienante resta obbligato solidalmente con l’avente causa per le spese condominiali maturate fino a quel momento in cui è trasmessa all’amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto. Fino all’entrata in vigore della legge 220/2012, l’alienante era tenuto al pagamento delle sue quote sino alla data del rogito. Non è stato mai sufficientemente chiarito chi – fra alienante ed acquirente – fosse tenuto a dare comunicazione dell’avvenuto passaggio di proprietà, talché il fatto spesso veniva alla luce dopo svariato tempo, con i disguidi conseguenti. Ora, con la nuova legge – ed è una delle poche novità positive – chi cede la proprietà di un immobile in condominio è tenuto al pagamento degli oneri condominiali fino a quando l’amministratore non riceverà copia autentica del rogito di vendita. Che questa, poi, gli venga fornita dal vecchio o dal nuovo proprietario poco importa, indispensabile è che il condominio – e per esso l’amministratore – venga ufficialmente informato dell’avvenuto passaggio di proprietà. Ma cosa succede se l’alienante non paga le quote pregresse? Non mi stancherò mai di rilevare che, spesso, in occasione del possibile acquisto di un’auto o di una moto usata – e quindi per non molte migliaia di Euro – ci facciamo assistere da un meccanico o da qualcuno del settore. Dovendo acquistare un immobile, del valore di centinaia di migliaia di Euro, raramente approfondiamo la situazione condominiale pregressa. Sarebbe sufficiente, per l’acquirente, chiedere all’alienante / venditore di poter verificare la situazione di cassa, ed in caso di somme in sofferenza, trattenere un pari importo dal saldo di rogito. Diversamente l’acquirente dovrà richiedere, anche giudizialmente, la somma pagata seppur non dovuta, con logiche conseguenti di spese ulteriori e stati d’animo negativi. Eventuali rapporti condominiali in sospeso – oltre a quelli già esaminati – sono trattati nel capitolo riguardante l’acquirente, nella sua veste di nuovo proprietario.
Professionista incaricato della gestione di un fabbricato in condominio su mandato dell’assemblea. L’assemblea è il principale organo deliberante del condominio e le sue deliberazioni – prese nel rispetto della legge – sono obbligatorie per tutti i condomini, in quanto – nell’ambito di quel condominio – essa è sovrana. L’amministratore è il mandatario dell’assemblea e delle sue deliberazioni ed è quindi in subordine ad essa. L’Art. 1129 cod. civ., inderogabile, dispone che – quando i condomini sono più di otto – la nomina dell’amministratore è obbligatoria. La nomina stessa può essere deliberata dall’assemblea o dall’autorità giudiziaria su richiesta di almeno un condomino o dall’amministratore dimissionario. In passato il succitato articolo prevedeva che la nomina fosse obbligatoria quando i condomini erano più di quattro, ora – dopo la Riforma – il numero è raddoppiato. Probabilmente il legislatore indicando la parola condomini intendeva unità immobiliari e non dei monoproprietari. Nulla, poi, impedisce che anche nei fabbricati con meno di otto unità sia possibile l’esistenza di un amministratore. Con più di otto condomini, la nomina dell’amministratore è obbligatoria, con meno di otto è facoltativa, ma spetta alla sovranità dell’assemblea prendere le decisioni più opportune in funzione, anche, delle caratteristiche del fabbricato. In sede assembleare la nomina dell’amministratore richiede il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio, a norma dell’Art. 1136 cod. civ., secondo e quarto comma. Contrariamente a quanto molti ritengono, anche per la conferma o la revoca necessitano le stesse maggioranze (Cass. 4 maggio 1994, n. 4269; Cass. 3797/1978). Ove l’assemblea, per mancanza del quorum deliberativo o per disaccordi, non pervenga alla eventuale conferma, l’amministratore resta in prorogatio, con gli stessi poteri e doveri che il mandato comporta (Cass. 30 marzo 2001, n. 4721). Nel caso l’assemblea non provveda alla nomina dell’amministratore, per incapacità deliberante o inerzia, la nomina può essere richiesta all’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini (Cass. 20 aprile 2001, n. 5889). La nomina fatta dall’autorità giudiziaria, così come la revoca, anche quando si inserisce in una situazione di conflitto tra condomini – ed altro non potrebbe essere – rappresenterà un intervento solo amministrativo, in quanto sarà finalizzato soltanto alla tutela dell’interesse generale del condominio e ad una sua corretta amministrazione (Cass. 26 settembre 2005, n. 18730). L’amministratore così nominato ha gli stessi compiti, obblighi e prerogative di un amministratore liberamente votato dall’assemblea dei condomini; alla scadenza del mandato potrà essere rieletto o anche revocato prima della sua naturale scadenza, a condizione che alla revoca consegua automaticamente la nomina di un altro amministratore, liberamente eletto. In questo caso, increscioso ma non raro, l’assemblea procede alla nomina del nuovo amministratore, ai sensi dell’Art. 1724 cod. civ. (revoca tacita) e quindi lo comunica all’amministratore sostituito (Cass. 9 giugno 1994, n. 5608). Ciò, ovviamente, è possibile non solo in caso di nomina giudiziale, ma tutte le volte in cui la maggioranza dell’assemblea ritenga opportuno revocare il mandato ad una persona ed affidarlo ad altra. L’assemblea, nell’ambito dei suoi poteri sovrani, può nominare un amministratore al posto di un altro ed in seguito riconfermare il primo. Una nuova nomina non è invece possibile per un amministratore precedentemente revocato dall’autorità giudiziaria per lo stesso condominio – punto otto dell’Art. 1129 cod. civ. –. Il suddetto articolo elenca tutte le incombenze che spettano al mandatario ed anche le possibili sanzioni o richieste di revoche in cui può incorrere un amministratore infedele o incapace. L’Art. 71bis disp. att. e trans. cod. civ. elenca i requisiti che deve possedere un amministratore per poter assumere l’incarico. Oltre a godere dei diritti civili egli deve avere altre qualità morali e conoscenze professionali, nonché avere frequentato corsi di formazione iniziale e periodica. Fra gli altri requisiti e capacità operative e professionali, lo stesso articolo dispone la possibilità di assumere il mandato anche per le società. Esistevano sentenze che contestavano questa possibilità, eccependo che il rapporto di mandato è essenzialmente caratterizzato dalla fiducia e perché le norme del codice civile sull’amministrazione dei fabbricati in condominio presuppongono che l’amministratore sia una persona fisica (Cass. 9 giugno 1994, n. 5608), ora è consentito senza problemi di sorta. È stato spesso dibattuto se l’amministratore di un condominio debba necessariamente partecipare alle assemblee condominiali del fabbricato che amministra. Non è ben comprensibile come possa svolgersi un’assemblea senza il suo mandatario, e gestita da un Presidente ed un Segretario che – normalmente – non possono conoscere a fondo le varie problematiche condominiali, ma la risposta giurisprudenziale non sempre è stata univoca. Una sentenza recente da’ una risposta positiva, confermando anche – e non poteva esserci dubbio, almeno per l’assemblea ordinaria – che la partecipazione all’assemblea non giustifica un compenso ulteriore, ma deve ritenersi compensata dal corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico (Cass. 12 marzo 2003, n. 3596). Il nuovo Art. 1129 cod. civ., primo comma, prevede anche che l’amministratore dimissionario possa richiedere all’autorità giudiziaria di procedere alla nomina di un suo sostituto. Fino a giugno 2013 la nomina poteva essere richiesta solo da comproprietari del fabbricato in condominio. A persone estranee – come in effetti è l’amministratore esterno dimissionario – era ed è consentita la nomina di un curatore speciale, ma solo in caso sia pendente una lite contro il condominio (Art. 65 disp. att. e trans. cod. civ.). Ora questa facoltà è concessa anche all’amministratore dimissionario, benché le due cose – curatore speciale ed amministratore giudiziario - non siano uguali. L’amministratore dimissionario, in attesa della nomina assembleare o dell’autorità giudiziaria, resta in prorogatio, ed in tale veste ha gli stessi identici obblighi che aveva prima della decadenza o delle dimissioni (Cass. 12 novembre 2002, n. 15858). Dalla Riforma emerge anche che l’amministratore non riconfermato – quindi non revocato e non dimissionario – ed in attesa della nomina del nuovo amministratore, debba svolgere tutte le attività che il mandato comporta, ma senza pretendere, per tal periodo – che può protrarsi anche per mesi – alcun compenso (Art. 1129 cod. civ., ottavo comma). È assurdo e ridicolo: l’amministratore, completato il suo mandato, incolpevolmente non sostituito perché l’assemblea è inerte o in disaccordo, dovrebbe operare gratuitamente a caricarsi di obblighi, responsabilità civili e penali, magari per svolgere attività a favore di condomini che non stima e che non lo stimano?!? Per ovviare a tale assurdità non c’è che un modo. Al momento della nomina è necessario che l’amministratore entrante chiarisca bene che il suo compenso decorre dalla data della nomina stessa e cesserà nel momento del passaggio delle consegne al nuovo amministratore. A questo proposito, considerando che l’amministratore è un semplice mandatario del condominio, alla cessazione del suo incarico deve restituire ai condomini – e, per essi, al nuovo amministratore – tutti i documenti concernenti la o le sue gestioni. In tal senso si è sempre espressa la Giurisprudenza (Cass. 3 dicembre 1999, n. 1354; Cass. 16 agosto 2000, n. 10815). Ora lo dispone chiaramente anche la nuova Riforma, e prevede inoltre l’obbligo di conservare i documenti condominiali per dieci anni (Art. 1130bis cod. civ., secondo comma). Non vale, qui, la pena di elencare gli obblighi ed i compiti dell’amministratore – dettagliatamente esposti negli Artt. 1129 – 1130 – 1130bis cod. civ.-. Vale invece la pena di esaminare altre situazioni conflittuali. L’amministratore ha l’obbligo di redigere, entro centottanta giorni dalla chiusura dell’anno gestionale, il rendiconto della gestione, sul quale si deve esprimere l’assemblea. Il condominio è un ente di gestione e quindi sfornito di personalità giuridica, conseguentemente ogni atto che viene compiuto nell’ambito dell’amministrazione condominiale non deve rispettare forme particolari. In proposito la magistratura ha sempre sostenuto che il rendiconto del condominio debba essere il più chiaro e comprensibile possibile (Cass. 7 luglio 2000, n. 9099). Si è discusso per decenni sulla necessità che il rendiconto debba essere di cassa – che riporta tutte le spese effettivamente sostenute durante la gestione – oppure di competenza – che elenca tutte le spese riferentesi alla gestione , anche se non ancora pagate. L’orientamento preferito è quello del rendiconto per cassa ritenuto più intelleggibile. Si sperava che la Riforma del Codice esprimesse una decisione, ma ciò non è stato. In parte, ha posto parziale riparo a questa situazione, l’Art. 1130bis cod. civ., che dispone come il rendiconto debba essere accompagnato anche da una nota sintetica esplicativa della gestione, con l’indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti. Nella compilazione dei rendiconti consuntivi e preventivi, l’amministratore deve attenersi alle tabelle millesimali approvate, senza entrare nel merito, e non può essere tenuto ad esaminare di sua iniziativa eventuali valori difformi e modificarli di conseguenza, e modificando la posizione di tutti gli altri condomini (Cass. 18 agosto 2005, n. 16982). Anche se nei rendiconti inviati è chiaramente indicata la disponibilità dei documenti contabili nei giorni precedenti l’assemblea, i documenti stessi dovranno essere disponibili anche al momento dell’approvazione dei rendiconti, e l’assenza di tale documentazione può comportare la conseguente invalidità della delibera di approvazione (Cass. 8 agosto 2003, n. 11940). Un’ultima considerazione sull’applicazione dell’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. relativamente al decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. Salvo che l’assemblea non lo abbia esplicitamente sollevato da questa incombenza – Art. 1129 cod. civ., settimo comma – l’amministratore deve attivarsi entro centottanta giorni dal momento che i “contributi” sono divenuti esigibili, cioè i pagamenti sono scaduti. Nel dubbio non fosse chiaro a quali “contributi” facesse riferimento la norma, si è dovuta attivare la Suprema Corte, la quale ha affermato che i suddetti contributi sono le quote condominiali gravanti sui singoli condomini e contemplate nell’Art. 1123 cod. civ. (Cass. 25 giugno 2001, n. 8676).
Persona incaricata dalla autorità giudiziaria di amministrare un condominio, non avendovi provveduto gli aventi diritto. Quando i condomini sono più di otto, il condominio è obbligato a nominare un suo legale rappresentante. Probabilmente il legislatore, sbagliando, quando parlava di condomini intendeva forse indicare il numero di unità immobiliari ubicate in quel fabbricato. In ogni caso l’amministratore deve godere della fiducia della maggioranza dei condomini, a norma dell’Art. 1136 cod. civ., e viene nominato dall’assemblea. Se l’assemblea non riesce ad esprimere una scelta maggioritaria, o non riesce a riunirsi legalmente per mancanza del numero, si possono tenere due diversi tipi di comportamento. Se l’amministratore è decaduto, propone il rinnovo del mandato e non si perviene ad un risultato per mancanza del numero per deliberare, l’amministratore resta in prorogatio ed è opportuno che ripeta la convocazione per la nomina. Se anche la seconda assemblea non ha i numeri per deliberare, e nessuno chiede una nuova assemblea, l’amministratore uscente resta in prorogatio. Questa situazione non impedisce ad uno o più condomini di richiedere la nomina di un amministratore giudiziario. Se invece l’amministratore non è mai stato nominato, uno o più condomini possono richiedere la convocazione di una assemblea per procedere alla dovuta nomina. Non pervenendo al risultato auspicato, per mancanza di accordo o per assemblea andata deserta, il o i condomini possono riproporre la convocazione di un’altra assemblea. Nel caso anche questa non pervenga al risultato auspicato, o nel caso anche che i proponenti non ritengano di ripetere la detta convocazione, chiunque lo desideri potrà richiedere la nomina giudiziaria. Già lo prevede l’Art. 1129 cod. civ., al primo comma, ed anche la Suprema Corte lo conferma (Cass. 13 novembre 1996, n. 9942). L’amministratore giudiziario viene nominato dal Tribunale competente per territorio, nella cui circoscrizione si trova il condominio interessato alla nomina. L’amministratore giudiziario, una volta nominato, dovrà svolgere i suoi compiti come se fosse stato nominato dall’assemblea, con tutti i diritti e doveri che gli competono a norma degli Artt. 1129, 1130, 1130bis, 1131 cod. civ.. Esso, però, indicato e nominato dal Tribunale, potrebbe non incontrare il gradimento dei condomini e questa situazione potrebbe fare accordare le opposte tesi e fare nominare un nuovo amministratore, con la logica conseguenza che quello giudiziario verrebbe revocato. Dobbiamo, infatti, considerare che la nomina del suo amministratore condominiale spetta all’assemblea e che l’autorità giudiziaria può eccezionalmente sostituirsi ad essa quando rileva che i condomini sono in disaccordo sulla nomina.
Registro in cui sono elencati gli effettivi proprietari delle unità immobiliari site in condominio ed i relativi dati catastali. La riforma del Codice del Condominio, all’Art. 1130 cod. civ., punto sei, impone all’amministratore di curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale, contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, nonché i dati catastali di ciascuna unità immobiliare. È una novità importante che elimina una lacuna che esisteva da tempo. Una volta completata la raccolta dei dati, l’amministratore – e quindi il condominio – saranno in possesso dei dati anagrafici del o dei proprietari di ogni unità immobiliare sita in condominio, degli eventuali nudi proprietari, degli usufruttuari e di chiunque abbia titolo per essere considerato nel condominio. In questo caso e per questi motivi, l’anagrafe condominiale riveste particolare importanza, in quanto si avrà la certezza di convocare alle assemblee tutti gli effettivi aventi diritto e non persone che così si qualificano, e conseguentemente, si eviteranno assemblee nulle od annullabili – per non avere convocato tutti gli effettivi condomini – e rendiconti gestionali imperfetti. L’obbligo per i condomini di fornire i dati esatti e di comunicare entro sessanta giorni ogni eventuale variazione di intestazione ed indirizzo, è chiaramente indicata nell’articolo di legge. Si eviteranno quindi errori di qualsiasi genere e scomparirà definitivamente il così detto “condomino apparente”, che in passato non tanto remoto ha creato numerosi problemi. Infatti, negli anni la giurisprudenza è stata altalenante, fino a quando le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (2 aprile 2002, n. 5035) posero fine a questa incertezza. La Corte ha definitivamente affermato che una eventuale azione per il recupero di crediti condominiali dovrà essere indirizzata al vero proprietario e non a chi – per qualsiasi motivo – si sia sempre qualificato come tale. L’esistenza dell’anagrafe condominiale e l’obbligo per chi subentra nei diritti di un condomino di fornire all’amministratore copia autentica del rogito, è importante anche per l’applicazione del disposto di cui all’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. che impone al subentrante il pagamento di eventuali contributi condominiali in sofferenza per l’anno in corso e quello precedente. Relativamente all’obbligo per il condomino venditore di fornire all’amministratore del condominio copia autentica del rogito, c’è da rilevare che il Garante della privacy, in data 23 aprile 2014, è stato di parere contrario. Infatti, il Garante dispone che l’amministratore non debba richiedere copia dell’atto di compravendita, in cui possono essere riportati dati sensibili. Si considererà sufficiente una dichiarazione firmata in originale. Resta inalterato il periodo di corresponsabilità. Deve essere chiaro che la dizione non si riferisce all’anno solare, ma a quello gestionale, poiché è a questo lasso di tempo che l’attività gestionale è riferita. La solidarietà per il pagamento delle spese condominiali esiste anche fra i comproprietari di una stessa unità immobiliare, e pertanto l’amministratore potrà esigere da ciascuno di essi l’intero ammontare del debito. Tramite l’anagrafe condominiale, l’amministratore potrà essere reso edotto sulla esistenza di unità immobiliari gravate di usufrutto e di individuare quindi il nominativo del soggetto legittimato a partecipare all’assemblea ed esprimere il proprio voto sulle materie all’ordine del giorno. L’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. indica chiaramente su quali argomenti possono deliberare il nudo proprietario e l’usufruttuario e su quali spese sono tenuti al conseguente pagamento. L’ultimo comma del citato articolo – che è inderogabile – impone la responsabilità solidale per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale.
È lo stretto e breve corridoio che immette nel fabbricato. In caso di locale ampio si è in presenza dell’androne – come vedremo – o dell’ingresso al condominio. L’Art. 1117 cod. civ. lo elenca fra le parti comuni necessarie, e tale è, considerando che spesso il suddetto piccolo corridoio immette dal portone alle scale. Raramente la Suprema Corte ha dovuto esprimersi in merito all’andito, chiarendo – ad esempio – che l’apertura di una porta nel muro comune non alterava l’entità materiale del bene e neppure ne modificava la destinazione, ma integrava una consentita modificazione della cosa comune di cui all’Art. 1102 cod. civ.. Dobbiamo ricordare che non qualsiasi modificazione della cosa comune costituisce innovazione ex Art. 1120 cod. civ., ma solo quella che ne alteri l’entità materiale causandone la trasformazione in forza della quale presenti una diversa consistenza materiale (Cass. 11 gennaio 1997, n. 240). Questo anche nel caso che un gruppo di condomini occupi una parte dell’andito per l’installazione di un ascensore: anche detto impianto limiterà l’uso dell’andito agli altri condomini. Ciò, in quanto il concetto di inservibilità espresso nell’Art. 1120 cod. civ. va interpretato come sensibile riduzione dell’utilità di cui i condomini godevano secondo l’originaria costituzione della comunione, con la conseguenza che sono consentite quelle innovazioni che – recando utilità ad una parte di condomini tranne alcuni - comportino per costoro un pregiudizio limitato, non superiore ai limiti della tollerabilità (Cass. 8 ottobre 2010, n 20902). In tal senso già si era espressa la Suprema Corte per un fatto analogo, con l’impianto di ascensore installato da alcuni condomini e conseguente minor godimento della cosa comune per gli altri, non essendo necessariamente previsto che dall’innovazione debba derivare per i dissenzienti un vantaggio compensativo (Cass. 4 luglio 2001, n. 9033).
È il locale che, al piano terreno degli edifici, immette dalla porta di ingresso principale alla scala o al cortile interno.
A norma dell’Art. 1117 cod. civ., l’androne è di proprietà di tutti i condomini, compresi quelli che hanno accesso direttamente dalla strada, quali negozi, magazzini o autorimesse, in quanto costituisce elemento necessario per la configurabilità stessa di un fabbricato diviso in proprietà individuali e rappresenta il tramite indispensabile per il godimento e la conservazione delle parti comuni dal quale si accede (Cass. 5 febbraio 1979, n. 761).
Spesso la Cassazione si è espressa sull’androne, relativamente alla proprietà, all’uso, all’occupazione, al diritto di passaggio e della sosta.
Per quanto riguarda la proprietà, la Suprema Corte ha sempre sentenziato che l’androne, in quanto tale, è di proprietà comune a tutti gli aventi diritto.
Relativamente all’uso, e quindi alle spese conseguenti, quali pulizia ed illuminazione, ha sancito che si deve sempre considerare l’utilizzo, a norma dell’Art. 1123 cod. civ. (Tribunale di Roma 6 agosto 2009, n. 17158).
In merito all’occupazione con fioriere o altri oggetti, nel caso costituiscano impedimento o molestia, le suddette cose o materiali debbono essere rimossi (Cass. 28 giugno 2012, n. 10879).
Questo anche nel caso l’occupazione sia assolutamente temporanea – velocipedi e motocicli – poiché ledono l’estetica ed il libero transito (Cass. 12 novembre 2012, n. 19615).
In altra occasione la Suprema Corte si era pronunciata in modo diverso, ma facendo riferimento ad un androne in collegamento con il cortile condominiale, affermando che se l’androne stesso è comunemente utilizzato per l’accesso veicolare alle singole unità private (ad esempio autorimesse), è funzionalmente destinato anche alla sosta temporanea di veicoli, trattandosi di uso accessorio al passaggio (Cass. 7 maggio 2008, n. 11204).
È prassi normale che nell’androne principale siano posizionate le cassette postali dei residenti e spesso – a lato delle stesse – anche una bacheca in uso al portiere e all’amministratore, per fornire informazioni utili.
Fermo il diritto per ciascun condomino di conoscere gli adempimenti altrui nei confronti della comunità condominiale, la Suprema Corte ha però sancito l’assoluto divieto di affiggere in detta bacheca – posta nell’androne aperto all’accesso di terzi estranei al condominio – delle informazioni relative alle posizioni di debito dei singoli, costituendo una vietata diffusione e contraria alla privacy (Cass. 4 gennaio 2011, n. 186).
Sono esseri viventi ordinati secondo classi, ordini e specie.
Parlando di animali in condominio si intendono gli animali domestici quali – fra i più noti – cani, gatti e uccellini.
Il nuovo Art. 1138 cod. civ. ultimo comma della legge 220/2012 stabilisce che le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.
Questa disposizione – da stampa e televisione – è stata presentata quasi come una panacea di tutti i mali condominiali, quasi ignorando – volutamente? e perché? – che anche in passato non si poteva limitare tale diritto sulle parti di esclusiva proprietà, salvo che tale divieto o limitazione non fosse esplicitamente accettato dai singoli condomini relativamente anche alle loro singole unità immobiliari, e non solo alle parti comuni.
Ora il novello articolo afferma che il regolamento non può contenere una simile clausola.
Quid juris? Se il singolo condomino si rifiuta di affittare la sua unità immobiliare a chi possiede o detiene animali e lo inserisce esplicitamente fra le clausole del contratto di locazione?
Questa disposizione è un po’ come l’invenzione dell’acqua calda, nel senso che – nella quasi totalità dei casi in cui era in passato vietata la detenzione – non avveniva per avversione nei confronti di animali domestici, ma per gli odori, i rumori, le soste inopportune in aree comuni o lo sgradevole e sospetto stillicidio dai balconi, ed ogni altra immissione non gradita.
In questo senso si era già espressa la Cassazione (15 marzo 1993, n. 3090) precisando che lo sporco arrecato dagli animali, gli odori spesso nauseanti che provengono da certi appartamenti, l’abbaiare od il miagolare che interrompe malamente la quiete, non potevano essere tollerati.
Che dire, poi, di certi residenti che si allontanano per mezza giornata o nelle ore notturne lasciando gli animali soli in casa, ad abbaiare o miagolare in modo irrefrenabile?
L’articolo parla di animali domestici, ma non ne fissa o limita il numero: è lecito anche l’allevamento o a che punto la detenzione diventa allevamento?
Il regolamento non lo potrà vietare, ma le conseguenze non gradite, che esisteranno sicuramente – poiché non tutti i possessori di animali avranno rispetto per il prossimo e per le loro stesse bestiole – si dovranno risolvere in assemblee fiume o promuovendo cause di cui proprio non si sente la necessità.
Spiace anche pensare che certi parlamentari siano stati eletti proprio perché difensori degli animali e non si siano preoccupati di imporre anche clausole limitative alla detenzione, o regole di buona detenzione.
Non secondario è, infatti, in funzione della presenza di animali, anche il conseguente problema delle immissioni.
La relativa disciplina, dettata dall’art. 844 cod. civ., ed il limite della tutela inibitoria alle immissioni che superano la normale tollerabilità, trovano applicazione anche nei rapporti di condominio tra parti di proprietà esclusiva e parti di proprietà comune.
Il problema si sposta sulle persone, poiché il bene della salute ha carattere primario ed assoluto, e deve essere protetto contro qualsiasi attività e situazione che possa comprometterlo o menomarlo.
È quindi opportuna una valutazione che tenga in considerazione le esigenze della collettività, il tipo di fabbricato e l’utilità per il singolo – possessore di animali – in relazione allo svantaggio degli altri residenti (Cass. 15 marzo 1993, n. 3090).
Essa ha affermato che la disposizione dell’Art. 844 cod. civ. è applicabile anche negli edifici in condominio, nell’ipotesi in cui un condomino nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini.
È ovvio che le immissioni da animali hanno amplificato le liti condominiali, indipendentemente da quanto disposto dall’ultimo comma dell’Art. 1138 cod. civ. e da eventuali clausole di regolamento.
È chiaro che le immissioni devono ritenersi illecite quando, per la loro intensità e frequenza, siano tali da causare insofferenze e provocare disturbi alla quiete o malessere anche a coinquilini di normale sopportazione, costituendo ciò uso anormale del diritto di proprietà e comportando una illecita immissione che deve essere eliminata.
Infatti, in tale ipotesi, si deve considerare – oltre alle condizioni del tempo e del luogo nelle quali si svolgono le immissioni – anche della loro intensità nonché della loro pratica idoneità ad influire sfavorevolmente sul fisico o sulla psiche dei soggetti obbligati a riceverli.
È un dispositivo atto ad irradiare o captare onde elettromagnetiche.
La televisione in Italia compie sessant’anni in questi giorni – 3 gennaio 1954 – ed è da allora che sui tetti dei fabbricati fecero la comparsa le prime antenne televisive.
Per anni fu uno status symbol e crebbe sui tetti di grandi fabbricati e di piccole case, con i fili delle calate che scendevano disordinatamente dai tetti e dai cornicioni deturpando le pareti di case e palazzi.
Poco si poteva fare o dire, se non cercare di disciplinare con maggiore oculatezza l’installazione selvaggia, poiché il diritto all’informazione è costituzionalmente garantito ad ogni cittadino.
Finalmente, ma non è da molto, vennero inventate – e, quindi, installate – le antenne centralizzate, dotate di un’unica antenna sporgente sul tetto, la centralina all’ultimo piano e le calate incassate nei muri o in apposite canalizzazioni.
L’installazione di antenne radiotelevisive è regolamentata dagli Articoli 90-91-92 del D.L. 1 agosto 2003, n. 5 che definiscono i diritti del singolo utente di un’unità immobiliare nonché le limitazioni alla sovranità delle deliberazioni condominiali.
Le norme citate dispongono che i proprietari di fabbricati, e quindi i condomini, non possono opporsi all’installazione di antenne radiotelevisive appartenenti ai residenti.
Come si vede, l’unica limitazione posta è che colui che gode del diritto deve essere residente, senza distinguere fra chi vanta diritti reali – il condomino – o chi vanta solo diritti personali di godimento – il conduttore –.
Già la vecchia legge n. 554 del 6 maggio 1940, limitata per ovvi motivi alla sola radiofonia, affermava il diritto sia del condomino sia dell’inquilino di installare aerei esterni per la ricezione dei programmi radiofonici.
L’installazione di antenne centralizzate ha notevolmente ridotto il passaggio di fili e cavi all’esterno del fabbricato, in ogni caso consentita, a condizione che non vi siano finestre e balconi.
Comunque le calate di fili e cavi, di antenne personali o condominiali, non possono impedire agli altri condomini analoga facoltà sulle parti comuni, a norma dell’Art. 1102 cod. civ. (Cass. 24 marzo 1994, n. 2862).
L’antenna centralizzata o le antenne singole possono essere installate sul tetto del condominio o sul lastrico solare comune.
Autorizzando queste installazioni, la legge non impone una servitù, ma si limita all’attribuzione di un diritto a favore dei residenti, diritto che non ha contenuto reale, ma personale, che il titolare può esercitare per il solo fatto di risiedere nel fabbricato (Cass. 3 agosto 1990, n. 7825).
L’antenna singola, di proprietà quindi di un solo residente, non potrà essere installata in luogo voluttuariamente scelto, ma va coordinata con l’esistenza di una effettiva esigenza di soddisfare le richieste di utenza del residente stesso, e quindi con il dovere della proprietà servente di sottostare alla sua pretesa, solo se questi non possa provvedere autonomamente (Cass. 21 aprile 2009, n. 9427).
L’utente di una eventuale antenna singola, che per il trasferimento od altro, non intenda più utilizzare l’impianto, deve provvedere a sue spese alla rimozione delle apparecchiature ed alla rimessione in pristino.
Recentemente molti utenti hanno iniziato ad utilizzare piccole antenne paraboliche per la ricezione dei programmi televisivi satellitari.
Esse compaiono sempre con maggiore frequenza sui balconi, a lato delle finestre o addirittura sulle facciate principali e, se da un lato soddisfano un sacrosanto diritto all’informazione, dall’altro invadono l’estetica del condominio e quindi i diritti degli altri comproprietari.
Alcune amministrazioni comunali hanno disposto che almeno nei centri storici sia vietata l’apposizione di parabole in qualsiasi punto delle facciate principali.
In assenza di disposizioni comunali, il regolamento contrattuale o una delibera assembleare assunta dalla totalità degli aventi diritto potrà disciplinare l’apposizione dei suddetti aerei, fermo restando l’impossibilità di vietarne l’installazione e l’uso.
In merito alla installazione di apparecchiature satellitari, su tetti o lastrici comuni od in altre posizioni che non ledano l’estetica del condominio, il legislatore ha concesso all’assemblea di deliberarla con la sola maggioranza di un terzo dei partecipanti al condominio, rappresentanti almeno un terzo dei valori millesimali.
Ne consegue che il legislatore ha indicato maggioranze così limitate in quanto l’installazione non costituisce né una innovazione gravosa né una innovazione voluttuaria, non richiamando in alcun modo l’Art. 1121 cod. civ..
Si può ritenere che il legislatore abbia inteso ridurre in tal modo le maggioranze assembleari deliberanti anche per evitare che – fermo restando il diritto all’informazione – eventuali difficoltà ad ottenere maggioranze diverse induca i singoli ad installare un numero esagerato di antenne e cavi individuali.
È il caso di precisare anche il fatto che la spesa per la installazione del nuovo impianto andrà comunque a gravare su tutti i condomini, sia su chi ha espresso voto contrario ma anche su coloro i quali possiedono un impianto autonomo.
Ciò significa che, in presenza di un’antenna centralizzata, l’assemblea potrà vietare al singolo di installare una antenna individuale, ma solo se ciò pregiudicasse in modo rilevante le parti comuni interessate all’opera (Cass. 21 agosto 2003, n. 12295).
Lo stesso diritto di installare antenne televisive o radiofoniche deve essere riconosciuto anche al condomino od inquilino che, munito della prescritta autorizzazione amministrativa, installi un’antenna di radioamatore, e questo anche se in difetto di espressa regolamentazione condominiale (Cass. 16 dicembre 1983, n. 7418).
La Suprema Corte ha poi ritenuto che – ove l’installazione di una qualsiasi delle antenne elencate non arrechi un qualsiasi pregiudizio apprezzabile e rilevante ad una parte comune – una deliberazione assembleare che vieti l’installazione stessa deve essere considerata nulla, con la conseguenza che il condomino danneggiato potrà far accertare il proprio diritto anche oltre i termini previsti dall’Art. 1137 cod. civ. (Cass. 6 novembre 1985, n. 5399).
Il diritto di installare l’antenna televisiva, comprende anche la possibilità di compiere tutte le attività necessarie per la messa in opera, compreso il diritto di accedere temporaneamente attraverso l’unità immobiliare di altro condomino.
È confermato che il proprietario non può opporsi all’appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto nei locali di sua proprietà al fine di soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condomini.
I fili, i cavi ed ogni altra installazione debbono essere collocati in modo da non impedire il libero uso della cosa secondo la sua destinazione.
Può anche verificarsi la situazione in cui un fabbricato – posto in prossimità di un condominio, ma in condizioni di ricezione sfavorevole o impossibile – chieda di poter collocare sul condominio adiacente una antenna televisiva per suo esclusivo utilizzo.
Nessuna normativa prevede una tale possibilità, conseguentemente – salvo che il condominio servente non aderisca con la totalità dei voti alla richiesta – l’allacciamento non è consentito.
Così si è espressa la Corte di Appello di Lecce, in ossequio al principio che il diritto di installare un’antenna televisiva spetta esclusivamente al condomino o all’inquilino dello stabile ove essi sono residenti.
Contratto con cui si concede o si assume l’esecuzione di un’opera o di un servizio, contro un corrispettivo in denaro.
Nella esecuzione dei compiti imposti dalla legge all’amministratore, spesso egli è tenuto alla stipula di vari contratti, a norma dell’Art. 1130 cod. civ..
La gestione delle parti comuni o l’esecuzione di opere di manutenzione richiedono l’apporto di terzi che dovranno svolgere un’attività particolare, periodica oppure costante.
Si avranno, quindi, accordi e contratti per la normale manutenzione – Art. 1130 cod. civ. – e quelli per la manutenzione straordinaria – Art. 1135 cod. civ. -.
Per la ordinaria manutenzione, o per lo svolgimento del suo mandato, l’amministratore non avrà, di massima, necessità di ottenere una preventiva deliberazione assembleare.
Invece, per la manutenzione straordinaria, dovrà essere l’assemblea – ritualmente coinvolta – a decidere, a scegliere ed a concordare le modalità.
Per adempiere a questi obblighi, che gli derivano per l’espletamento del mandato, l’amministratore dovrà stipulare contratti d’appalto, o d’opera o di lavoro.
Nel primo caso si tratta di accordo in forza del quale una delle parti contraenti assume, con organizzazione di mezzi ed a proprio rischio, l’esecuzione di un lavoro o di un servizio dietro pagamento di un corrispettivo in denaro (Cass. 15 luglio 2003, n. 11064).
Nella seconda ipotesi si avrà una persona che assume l’obbligo di compiere un lavoro od un servizio, con attività propria e senza vincolo di subordinazione (Cass. 4 febbraio 2004, n. 2115).
Per quanto riguarda il contratto di lavoro si avrà un operaio subordinato che si obbliga, remunerato, a svolgere una attività sotto la direzione della controparte.
Generalmente il condominio, e per esso l’amministratore, è solito stipulare un contratto di appalto per l’esecuzione di opere per importi di una certa importanza.
Per la gestione dei servizi di manutenzione ordinaria di norma si ricorre al contratto d’opera o al contratto di lavoro, con riferimento alla pulizia dei luoghi comuni, per la vuotatura delle fosse biologiche, ecc..
Per l’esecuzione di lavori non usuali, ma straordinari, e con oneri economici non secondari, l’amministratore deve agire nel modo più diligente possibile.
Rilevata la necessità di lavori, l’amministratore deve convocare un’assemblea straordinaria per valutare con i condomini le problematiche e le soluzioni possibili.
L’Avvocato Eugenio Antonio Correale, uno dei “ragazzi” del compianto Avvocato Pirelli, ha scritto che, già duemila anni prima di Cristo, i Babilonesi – per evitare le incertezze di esecuzione e dispendi di mezzi – si rivolgevano a persone esperte che – dietro compenso – eseguivano i lavori richiesti.
Ai tempi nostri, l’Assemblea, informata delle necessità manutentive, le valuterà e, se del caso, provvederà alla nomina di un responsabile dei lavori, ove necessiti, esaminerà i preventivi, approverà i vari costi ed oneri e quindi autorizzerà l’amministratore a stipulare il conseguente contratto d’appalto.
Nel caso le opere straordinarie da appaltare presentino particolari complessità, necessitino di un responsabile della sicurezza, di calcoli strutturali od altro, è necessario che l’assemblea nomini un direttore dei lavori, che, in tale evenienza, opererà come coadiutore del committente – cioè dell’amministratore – ed essendo dotato di specifiche competenze tecniche necessarie per l’espletamento delle opere, lo rappresenterà nell’affrontare tutte le problematiche conseguenti (Cass. 28 maggio 2003, n. 8528).
Ad esso sarà affidata la compilazione di un capitolato lavori, di un computo metrico estimativo, la valutazione tecnico economica delle varie offerte, di controllare la regolare esecuzione dei lavori e di impartire disposizioni e direttive all’appaltatore per la corretta esecuzione dell’appalto (Cass. 20 marzo 2012, n. 4398).
Il contratto stesso può essere stipulato a misura o a corpo.
Esso è a misura se le parti convengono un prezzo per ogni tipologia di opere ed in base alle quantità.
Nell’appalto a corpo le parti convengono preventivamente il prezzo complessivo dei lavori da eseguire, indipendentemente dalle quantità di materiale e di tempi di esecuzione.
È pacifico, seppur non auspicabile, che il committente – condominio e amministratore – è il soggetto obbligato in via principale all’osservanza degli obblighi in materia di sicurezza.
Ed è per questo che l’eventuale effetto liberatorio nei confronti del committente si verifica solo in seguito alla nomina di un responsabile dei lavori e della sicurezza (Cass. Pen. Sez. IV, 26 marzo 2013, n. 20125).
Il committente ed il responsabile dei lavori devono verificare il rispetto da parte degli appaltatori e dei lavoratori autonomi di tutte le disposizioni loro impartite nel piano di sicurezza e coordinamento (Cass. Pen. Sez. IV, 7 dicembre 2011, n. 14407).
Tutto questo nel caso i lavori straordinari siano in un certo senso programmabili, in quanto, se l’amministratore si trovasse nella urgente necessità di porre rimedio a rotture impreviste, egli è obbligato – ex Art. 1135 cod. civ., penultimo comma – ad intervenire con la necessaria urgenza e tempestività, con il solo obbligo, successivamente, di “riferirne nella prima assemblea”.
Si badi bene, l’articolo dispone di “riferirne”, e non di convocare necessariamente una assemblea.
L’obbligo di riferirne gli compete solo in quanto l’amministratore deve dare puntuale resoconto del suo operato e dei denari spesi per l’espletamento del suo mandato.
Tutto questo per quanto riguarda i rapporti tra amministratore e condominio, ma non riguarda le problematiche connesse alla sicurezza e coordinamento.
Anche un lavoro di riparazione o manutenzione, seppure di modesta entità, non può esimersi dal rispettare le regole per i lavoratori impiegati, i residenti nel condominio o eventuali terzi.
Nel contratto d’appalto dovrà essere riportato, o allegato, il capitolato lavori e gli importi conseguenti, l’indicazione chiara che tutte le responsabilità, soprattutto per eventuali infortuni sul lavoro o danni a cose o persone nell’ambito del cantiere condominiale, sono a carico della ditta appaltatrice e che il condominio è conseguentemente sollevato da responsabilità civili, amministrative e penali.
Si dovranno, poi, elencare ed imporre il termine per la consegna dell’opera, l’eventuale penale per ritardata consegna, una copertura assicurativa contro i furti negli appartamenti nel caso di ponteggi esterni, la rimozione del cantiere a fine lavori, il divieto o il consenso al subappalto, una possibile clausola arbitrale ed infine le condizioni di pagamento.
Il subappalto può essere concesso quando l’appaltatore – che in questo caso diventa committente – incarica persone o ditte a svolgere parte dei lavori assunti.
A volte l’appalto prevede l’esecuzione di lavorazioni che richiedono l’operato di ditte specializzate, e che non potrebbero essere eseguite dal personale dell’originario appaltatore.
Il subappalto, come contratto derivato, è soggetto alla stessa disciplina del contratto principale.
In merito alla polizza assicurativa contro i furti negli appartamenti, è opportuno che l’amministratore rammenti ai condomini di non lasciare le finestre aperte ne’ abbandonare oggetti preziosi in luoghi visibili, pena il rifiuto al risarcimento da parte della compagnia assicuratrice (Cass. 18 ottobre 2005, n. 20133).
Per quanto riguarda le modalità di pagamento, è opportuno rammentare due precisi articoli del codice che si riferiscono specificatamente all’appalto di opere di manutenzione straordinaria.
L’Art. 1135 cod. civ., al punto quattro, impone all’assemblea – in caso di opere straordinarie – di costituire obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori.
Questo articolo, però, con Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 145, punto 9, è stato scioccamente modificato nel seguente modo:
“se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti”.
In buona sostanza, l‘Art. 1135 cod. civ. afferma che l’amministratore non può stipulare un contratto d’appalto se non ha già accantonato l’intera somma; il D.L. n. 145 dispone che se nel contratto sono previsti pagamenti in base agli stati di avanzamento, se hai già accantonato – appositamente – l’importo del primo acconto, puoi stipulare il contratto.
Cosa succederà se poi non si sarà in grado di far fronte agli altri stati di avanzamento?
Infatti il secondo articolo interessato al contratto di appalto, ma non solo, è l’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. che, al comma secondo, dispone testualmente: “ I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”.
Versato il primo acconto, l’amministratore si troverà nella stessa situazione – o quasi – che il disposto dell’Art. 1135 cod. civ. intende evitare: per il principio di parziarietà o di solidarietà sussidiaria qualche condomino diligente potrebbe essere sollecito a versare nuovamente quote condominiali non di sua spettanza, o la ditta appaltatrice ad avere somme in sofferenza pur avendo eseguito le opere in modo corretto.
Entrambe queste persone potrebbero considerare corresponsabile l’amministratore, considerando che l’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. è inderogabile e dispone che prima dell’inizio dei lavori – e, quindi, prima della firma del contratto – in cassa doveva essere giacente tutto il dovuto?
Nel caso, infine, che i lavori presentino vizi o difformità rispetto al contratto di appalto, il condominio - e per esso l’amministratore – deve denunciare la situazione entro sessanta giorni dalla scoperta, ex Art. 1667 cod. civ..
Per il risarcimento del danno causato da lavori mal eseguiti, può attivarsi anche un solo condomino (Cass. 17 gennaio 2003, n. 631).
È stato anche affermato che il condomino danneggiato può chiamare in causa anche il condominio se le opere non sono state sorvegliate nel modo dovuto (Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363).
È un impianto per il trasporto in senso verticale di persone o cose, da un piano all’altro degli edifici.
L’Art. 1117 cod. civ. lo elenca fra gli impianti di proprietà comune.
L’impianto installato dall’origine si presume condominiale se non risulta il contrario dal titolo.
In ben due articoli il novello Codice Civile menziona esplicitamente l’ascensore:
- al punto 3 dell’Art. 1117 cod. civ. fra gli impianti, come già detto;
- all’Art. 1124 cod. civ. in relazione alla manutenzione e sostituzione di scale e ascensori.
In quanto impianto comune, se negli atti di acquisto, o nel regolamento contrattuale, non è esplicitamente esclusa la proprietà dell’impianto, essa si configura di proprietà di tutti i partecipanti al condominio, compresi i proprietari dei negozi.
In questo caso, la Corte ha avuto riguardo all’uso potenziale dell’impianto e non a quello effettivo (Corte di Appello di Bologna, 1 aprile 1989).
L’ascensore è infatti un impianto destinato a servire i condomini in misura diversa, ma deve tuttavia rilevarsi che anche coloro i quali hanno proprietà al piano terreno possono trarre utilità dall’impianto stesso.
Questo perché l’ascensore permette il comodo raggiungimento delle parti comuni superiori, quali la lavanderia, lo stenditoio, il lastrico solare condominiale o il tetto.
Comunque la tabella di ripartizione delle spese di ascensore, se correttamente elaborata, terrà certamente in considerazione ogni aspetto e caratteristica del condominio, e quindi degli obblighi di ogni singola unità immobiliare.
Vale però la pena di ricordare che fino al 18 giugno 2013 – data di entrata in applicazione della nuova legge 220/2012 – la manutenzione straordinaria dell’impianto di ascensore veniva ripartita utilizzando la tabella millesimale delle spese di proprietà, e le spese di uso e gestione si ripartivano utilizzando la tabella per la ripartizione delle spese per le scale, eguale essendo la ratio.
Con l’entrata in vigore della nuova legge, è stato disposto dall’Art. 1124 cod. civ. che tutte le spese di uso, manutenzione ordinaria e straordinaria dovranno essere ripartite per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo.
Qualora l’ascensore venga installato in epoca successiva alla costruzione del fabbricato, per iniziativa di una parte sola dei condomini, non costituisce proprietà comune di tutti, bensì appartiene in proprietà a quei condomini che l’hanno installata a loro spese, salvo la facoltà prevista dall’Art. 1121 cod. civ., ultimo comma, di partecipare successivamente alla innovazione (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1529).
La legge 9 gennaio 1989, n. 13, modificata dalla legge 27 febbraio 1989 n. 62 integrata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, disciplina l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, disponendo tra l’altro quorum deliberativi condominiali agevolati.
La legge contiene disposizioni di regime ordinario per le nuove costruzioni e di regime transitorio per i fabbricati esistenti, sia in materia privatistica che condominiale.
In merito alle norme condominiali, l’Art. 2 primo comma, stabilisce l’abbassamento dei quorum deliberativi, disponendo che tutte le deliberazioni relative alla eliminazione delle barriere architettoniche, possono essere adottate con le maggioranze di cui all’Art. 1136 cod. civ., secondo e terzo comma, invece che con le maggioranze speciali per le innovazioni, di cui sempre all’Art. 1136 cod. civ., ma quinto comma.
Nel caso non raro in cui l’assemblea dei condomini rifiuti di deliberare, o non riesca a deliberare, entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto dal portatore di handicap, questi potrà installare a sue spese le apparecchiature che saranno necessarie.
Ove non ci si trovi in presenza di una richiesta avanzata da un portatore di handicap, l’installazione di un ascensore in un condominio costituisce, ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., primo comma, una innovazione, con la conseguenza che la relativa deliberazione deve essere presa con la maggioranza di cui al quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ. (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1529).
Interessante è anche una successiva sentenza della Cassazione e relativa alla limitazione, per alcuni condomini, della originaria possibilità di utilizzazione delle scale e dell’andito, occupati dal nuovo impianto di ascensore, installato a spese di altri condomini: esso non costituisce innovazione lesiva del divieto posto dall’Art. 1120 cod. civ., secondo comma, nel caso risulti che dallo stesso non derivi alcun pregiudizio, sotto il profilo del minor godimento della cosa comune, non essendo necessariamente previsto che dalla innovazione debba derivare per la parte dissenziente un vantaggio compensativo (Cass. 4 luglio 2011, n. 9033).
La legge 13/1989 ha portato ulteriore chiarezza sulle possibilità di installare un ascensore in un fabbricato in condominio, ma anche prima – a norma dell’Art. 1102 cod. civ. - esisteva il diritto e la possibilità anche per un solo condomino di installare tale impianto.
E questo per il miglior utilizzo della propria unità singola, a condizione che altri condomini ne potessero egualmente usufruire e non ne subissero danni (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1529), già citata.
In proposito è stato ritenuto che un modesto taglio delle scale possa essere legittimo, purché non riduca le dimensioni delle stesse sotto i limiti minimi imposti dal regolamento edilizio comunale (Cass. 1 giugno 2007, n. 12847).
Poiché l’ascensore, e con esso tutte le sue parti sia strutturali che impiantistiche, è soggetto a controlli ed adeguamenti per la sicurezza – tesi a proteggere e cautelare gli utenti ed i terzi – ogni spesa inerente e conseguente deve essere ripartita secondo il principio della proprietà (Cass. 25 marzo 2004, n. 5975).
In particolare la Cassazione ha rilevato che l’Art. 1104 cod. civ. distingue sostanzialmente due specie di spese, comprensive di tutte le altre: spese per la conservazione e spese per il godimento.
Le spese per la conservazione riguardano l’integrità del bene, ovvero la sua ricostruzione e ripristino ed il novello Art. 1124 cod. civ. è chiarissimo.
Le spese per il godimento riguardano l’uso delle cose, ovvero degli impianti o servizi comuni, e non è detto che le tabelle millesimali in essere, per la ripartizione delle spese di uso e manutenzione ordinaria dell’ascensore, siano state compilate nel rispetto delle nuove disposizioni di legge.
Ciò premesso, la Cassazione ha considerato che le spese per l’adeguamento alle normative CEE rientrassero nella ricostruzione del bene e non nella manutenzione ordinaria.
Con tranquillità si può affermare che gli ascensori, controllati ogni due anni da un organismo di certificazione e mensilmente da una ditta manutentrice, possono essere considerati molto sicuri.
Da ricordare che le disposizioni emanate dall’organismo di certificazione debbono essere eseguite senza necessità di preventiva delibera assembleare, salvo casi di rifacimenti particolarmente onerosi.
Adunanza di condomini a cui sono affidate funzioni deliberative.
L’amministratore è l’organo esecutivo del condominio e l’assemblea ne è l’organo deliberante.
Nell’ambito della legge, le deliberazioni dell’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini, assenzienti, dissenzienti, astenuti ed anche assenti, poiché essa è sovrana e nessuno può interferire nelle sue prerogative relativamente alla gestione delle parti comuni.
A condominio appena costituito, l’assemblea può essere convocata anche da un condomino, ed in quella sede si dovranno assumere le decisioni iniziali ma importanti: la nomina di un amministratore, la formazione di un fondo cassa, la discussione per la stesura delle tabelle millesimali e del regolamento.
La costituzione del condominio non rappresenterà certamente un problema: nel momento in cui l’iniziale proprietario del fabbricato, o il costruttore, iniziano le vendite delle singole unità immobiliari e dei conseguenti diritti sulle parti comuni, a quel punto il condominio è già in essere.
Spesso gli alienanti, in sede di stipula del rogito, allegano allo stesso le tabelle millesimali ed il regolamento, che diventa pertanto di tipo contrattuale.
Ma non è sempre così, ed altre volte saranno i condomini a decidere la loro legge interna – regolamento – ed a scegliere il tecnico che dovrà compilare le varie tabelle millesimali necessarie alla vita del condominio ed alla gestione delle parti comuni.
Per quanto riguarda le tabelle millesimali, non debbono rappresentare un problema, poiché esse esistono già al momento in cui il condominio viene realizzato.
La loro esistenza è indipendente dalla circostanza che esse non siano state ancora elaborate ed approvate.
Conseguentemente la validità dell’assemblea e delle deliberazioni assembleari non è condizionata dalla preventiva approvazione delle tabelle millesimali, in quanto anche a posteriori sarà possibile individuare la quota di partecipazione al condominio di ciascun condomino, e valutare i quorum richiesti per la validità costitutiva delle assemblee e deliberativa per i vari argomenti.
In un condominio appena costituito, si ripete, i primi argomenti da sottoporre alla votazione dell’assemblea sono la nomina dell’amministratore e la costituzione di un fondo cassa, o rendiconto preventivo.
Necessita in primis la nomina dell’amministratore poiché egli è il mandatario del condominio ed il rappresentante legale dei condomini, dovrà gestire il fondo cassa appena deliberato, sorvegliare gli impianti condominiali, stipulando i relativi contratti con i vari fornitori.
L’iniziativa per la prima assemblea, come detto, può essere assunta da uno o più condomini, o dal costruttore o dal venditore.
Successivamente le assemblee dovranno essere convocate dall’amministratore.
Egli deve convocare l’assemblea – considerata ordinaria – almeno una volta all’anno, entro centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario.
Deve anche convocarla quando lo ritenga opportuno e ne abbia avuto richiesta motivata a norma dell’Art. 1117quater cod. civ., Art. 1120 cod. civ., sesto comma, Art. 1122 cod. civ., Art. 1122bis cod. civ., Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. e particolarmente l’Art. 1117ter cod. civ..
Queste sono assemblee straordinarie e nulla hanno di diverso rispetto a quelle ordinarie se non i tempi di preavviso.
Art. 1117quater cod. civ..
In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni, l’amministratore, o anche un singolo condomino, può richiedere la convocazione di una assemblea straordinaria.
Preavviso normale e delibera in base al secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Art. 1120 cod. civ..
L’amministratore è tenuto a convocare l’assemblea entro trenta giorni dalla richiesta, anche di un solo condomino, in caso di possibilità di installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva et similia.
Anche in questo caso, preavviso assembleare normale e delibere con il quorum di cui al secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Art. 1122 cod. civ..
Se un condomino esegue opere nella sua proprietà esclusiva che rechino nocumento alle parti comuni, o pregiudichino stabilità, sicurezza e decoro, l’amministratore dovrà riferirlo all’assemblea.
È implicito che dovrà attivarsi prima che il danno si sia concretizzato.
Assemblea riunita con preavviso normale e delibera a norma del secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Art. 1122bis cod. civ.
Nel caso uno o più condomini intendano installare impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili ad uso privato e se, per questo, dovesse esser necessario apportare modificazioni alle parti comuni, l’amministratore dovrà convocare apposita assemblea, con preavviso normale e deliberazione a norma del quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Art. 66 disposizioni di attuazione e transizione codice civile.
In qualsiasi momento l’amministratore è legittimato a convocare una o più assemblee straordinarie, a suo giudizio o quando ne ha ricevuto richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio (Cass. 18 agosto 2005, n. 16980).
Se entro dieci giorni dalla richiesta egli non ottempera, i condomini interessati possono attivarsi e provvedere direttamente alla convocazione.
Per il preavviso di convocazione, dipenderà dall’oggetto all’ordine del giorno (vedi Art. 1117ter cod. civ. prossimo) ed anche per i quorum deliberativi conseguenti.
Art. 1117ter cod. civ..
Nell’ipotesi della possibilità o necessità di modificare la destinazione d’uso di parti comuni, necessita affiggere nei luoghi condominiali di maggior passaggio – almeno trenta giorni prima dell’assemblea – la dettagliata spiegazione di ciò che l’assemblea stessa dovrà deliberare.
Poi – con un preavviso di almeno venti giorni, al posto dei canonici cinque – l’amministratore dovrà inviare una raccomandata di convocazione con sempre un dettagliato ordine del giorno.
Se tutte queste formalità saranno state pedissequamente adempiute, l’assemblea, con il voto favorevole dei quattro quinti dei partecipanti e del valore millesimale, potrà modificare la destinazione di quella determinata parte comune.
Quelli elencati sono gli articoli di legge che prevedono la possibilità per l’amministratore di dover convocare assemblee straordinarie.
Mentre quella ordinaria è in linea di massima compresa nell’importo della parcella professionale annuale, quelle straordinarie – pur ipotizzabili – non possono essere prevedibili, conseguentemente è opportuno che l’amministratore lo consideri nella stipula dell’accordo, a norma dell’Art. 1129 cod. civ..
In previsione dell’assemblea ordinaria, l’amministratore dovrà predisporre il rendiconto consuntivo della gestione, e tenere a disposizione tutta la documentazione ad esso inerente.
Convocazione, ordine del giorno e rendiconto dovranno pervenire almeno cinque giorni antecedenti la data della prima convocazione.
La seconda convocazione dovrà essere riunita il giorno dopo ma comunque entro dieci giorni dalla prima.
Quando la Legge e la Giurisprudenza dispongono che fra l’assemblea di prima e quella di seconda convocazione deve intercorrere una giornata, non si riferiscono a ventiquattro ore, ma una data successiva a quella della prima convocazione.
Affinché l’assemblea possa dichiararsi deliberante, il Presidente ed il Segretario debbono verificare che la costituzione sia regolare: data, ordine del giorno, presenti e delegati.
Ne deriva che – nella stessa assemblea – i presenti possono essere adeguati per alcuni punti all’ordine del giorno, ma non per altri.
Verranno quindi discussi solo quelli possibili e rinviati ad altra data quelli per i quali non si potrà deliberare (Cass. 28 gennaio 1997, n. 850).
Altra norma importante da ricordare è che – affinché siano valide le maggioranze previste per l’assemblea in seconda convocazione – è necessario che emerga e venga verbalizzata la non validità della prima convocazione andata deserta.
Dopo la Riforma, l’Art. 1130 cod. civ., punto sette, prevede che nel registro dei verbali risultino chiaramente e sempre le eventuali assemblee andate deserte e – quindi – anche la prima, che generalmente non si svolge.
Già questo lo prevedeva anche la Giurisprudenza (Cass. 22 maggio 1999, n. 5014).
Tutte le deliberazioni, per essere legalmente valide, debbono raggiungere – per ogni singolo argomento – i quorum previsti dall’Art. 1136 cod. civ., che è assolutamente inderogabile.
È stato detto che un regolamento contrattuale possa imporre un quorum deliberativo in aumento rispetto a quello legale, anche se non se ne vedono le motivazioni.
È piuttosto da rilevare che l’assemblea riunita per l’ordinaria amministrazione, può validamente deliberare con la maggioranza di un terzo dei millesimi e la maggioranza degli intervenuti.
Tuttavia non è sufficiente che la maggioranza dei votanti abbia raggiunto i quorum indicati, ma è necessario che i contrari non siano portatori di un valore maggiore rispetto agli assenzienti, seppure numericamente inferiori (Cass. 5 aprile 2004, n. 6625).
Durante l’assemblea avverranno le doverose votazioni ed è indispensabile che, a verbale, venga chiaramente indicato il nome ed i millesimi di ogni assenziente e di ogni dissenziente (Cass. Sez. Un. 7 marzo 2005, n. 4806).
Dopo la Riforma, dovranno risultare anche gli astenuti, in quanto anche a loro è consentita l’impugnazione della delibera non completamente gradita, a norma dell’Art. 1137 cod. civ., secondo comma.
È stato anche affrontato il problema rappresentato da un condomino in conflitto di interesse per il condominio.
La magistratura prevalente ha affermato che il condomino aveva il diritto di partecipare all’assemblea, anche se senza possibilità di voto (Cass. 25 novembre 2004, n. 22234).
Le delibere assembleari si suddividono fra delibere valide, annullabili e nulle.
Precisato che può essere valida l’assemblea ma non esserlo una o più deliberazioni, si può dire che l’assemblea è valida e lo sono le delibere rispettose di leggi, disposizioni e regolamento.
Sono da considerare nulle quelle assemblee prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito, oppure quelle deliberazioni che non sono di competenza dell’assemblea o che toccano i diritti individuali sulle parti comuni o che riguardano la proprietà esclusiva.
Possono considerarsi annullabili quelle assemblee e quelle deliberazioni adottate con maggioranze inferiori a quelle prescritte, quelle con vizi formali, con convocazione errata, l’invito mai inviato ad un condomino.
Se del caso, dovranno però essere impugnate nei tempi e nei modi imposti dall’Art. 1137 cod. civ. (Cass. Sez. Un. 7 marzo 2005. n. 4806, citata).
A questo proposito, si deve precisare che in caso di impugnativa, il giudice deve considerare solo la motivazione che gli è presentata, e non può dichiarare d’ufficio la nullità dell’assemblea o di altra delibera basandosi su motivazioni diverse da quelle poste originariamente quale fondamento della impugnazione (Cass. 27 giugno 2005, n. 13732).
Ricordiamoci, infatti, che se quel particolare argomento discusso e la eventuale deliberazione impugnabile è stata accettata, o comunque non impugnata nei tempi e nei modi, essa diventa esecutiva a tutti gli effetti.
Nel caso una deliberazione assembleare abbia ottenuto la sospensione giudiziale, a seguito di impugnativa, nulla impedisce all’assemblea di adottare – sul medesimo punto e sanati eventuali vizi – una nuova deliberazione, esecutiva “ex lege” a condizione che il condomino interessato non si attivi per ottenerne a sua volta la sospensione (Cass. 5 aprile 2004, n. 6625).
Diverso sarà se la deliberazione fosse nulla.
Una volta costituita, l’assemblea dovrà esaminare – se non deliberare – tutti gli argomenti all’ordine del giorno.
Nel caso un argomento non possa essere trattato per mancanza del quorum deliberativo su di esso, o si ritenga di rinviarlo o, ancora, di soprassedere sine die, ciò deve chiaramente risultare a verbale, affinché gli assenti possano prendere conoscenza di tutto quello che è stato oggetto della riunione.
È importante che ciò risulti a verbale anche per l’amministratore, poiché, a distanza di tempo, egli potrà sempre dimostrare quanto è stato proposto, quanto è stato fatto e quanto, invece, non si è potuto fare ma non per sua colpa (Cass. 22 maggio 1999, n. 5014).
Ulteriore motivo che conferma la necessità del verbale scritto di quanto deliberato in assemblea ed anche il suo invio ai pur presenti alla stessa è dato dal fatto che chi intendesse impugnare l’assemblea od anche solo una deliberazione possa eventualmente contestare la rispondenza a verità di quanto riferito nel verbale (Cass. 13 ottobre 1999, n. 11526).
È colui che non è presente nel luogo in cui dovrebbe essere o in cui ci si aspetterebbe che fosse.
Anche la nuova riforma del Codice Civile ha mantenuto in essere la prima e la seconda convocazione per ogni tipo di assemblea condominiale – sia essa ordinaria o straordinaria – anche perché l’assente alle riunioni è un classico.
Nell’ipotesi che “vada tutto bene” raramente l’assemblea riesce a svolgersi in prima convocazione, e cioè con alte maggioranze costitutive e conseguentemente pochi assenti.
Nella stragrande maggioranza dei casi l’Assemblea si svolge in seconda convocazione, con maggioranze costitutive ridotte.
E questo quasi a dire che l’assenza o la non partecipazione è cronica ovunque e la convocazione con doppia data, in un certo senso, la ufficializza.
Il condomino può risultare assente per tantissimi motivi e non è tenuto a dare giustificazioni.
Era da tempo impegnato, era fuori sede, era indisposto, si è dimenticato, voleva dare delega ma non è riuscito…
Queste sono le giustificazioni magari più reali e più ovvie, in quanto difficilmente dirà: non mi interessava, non volevo incontrare certe persone, non volevo esprimere un voto a favore o contro qualcuno, non volevo prendere posizione.
Ancor meno diranno che – non volendo assumere decisioni assembleari frettolose su argomenti particolari – hanno preferito non partecipare per avere, così, una trentina di giorni per esaminare e valutare se impugnare una deliberazione non gradita o se lasciar perdere.
Infatti l’Art. 1137 cod. civ. consente agli assenti, ai dissenzienti ed agli astenuti di poter impugnare la deliberazione davanti all’autorità giudiziaria.
Il suddetto articolo – inderogabile – inizia la sua enunciazione affermando che “le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini”.
Tale obbligatorietà impegna tutti i condomini: quelli che hanno espresso il loro consenso, gli assenti, i dissenzienti e gli astenuti, ma anche coloro che al momento della votazione ancora non erano condomini, in quanto gli aventi causa degli originari comproprietari restano vincolati dalle delibere assembleari legittimamente prese in epoche precedenti (Cass. 11 agosto 1982, n. 4542).
Non tragga in inganno la dizione dell’Art. 1137 cod. civ. che parla di delibere contrarie alla legge, poiché tali delibere sono quelle assunte dall’assemblea senza il rispetto delle disposizioni prestabilite dall’Art. 1136 cod. civ., mentre le cause di nullità riguardano la sostanza degli atti (Cass. 2 ottobre 2000, n. 13013).
Le cause di nullità restano circoscritte e non sono indicate dall’Art. 1137 cod. civ., conseguentemente la possibilità di discutere e contestare la deliberazione resta affidata a coloro i quali non hanno votato a favore, o agli astenuti e, nel caso in esame, agli assenti.
Ne discende che, se nessuno degli aventi diritto o possibilità ritiene di impugnare la delibera, essa diventa operante a favore o contro tutti.
Il condomino assente, quindi, se si ritiene danneggiato da una deliberazione o la ritiene contraria agli interessi del condominio, ha trenta giorni di tempo dall’avvenuta comunicazione per impugnare la delibera stessa.
A questo proposito, è assolutamente indispensabile che l’amministratore invii il verbale dell’assemblea in tempi strettissimi e con data certa, poiché, se non potrà dimostrare almeno la data dell’invio, i trenta giorni per l’impugnativa si protrarranno, chissà per quanto.
Può essere superfluo precisare che l’azione di impugnativa riguarderà solo la deliberazione contestata, e non tutte le decisioni assunte nel corso dell’assemblea.
Questo però solo nel caso di delibere annullabili e non di delibere assolutamente nulle, per le quali – spesso – si tratta di nullità radicale e non solo parziale.
Ad esempio, sono state dichiarate nulle, radicalmente quelle assemblee in cui sono state assunte delibere dopo lo scioglimento dell’assemblea (Cass. 5 giugno 1991, n. 6366).
Oppure assemblee nelle quali sia stato impedito ad un condomino, e per motivi pretestuosi, di votare i vari argomenti (Cass. 23 febbraio 1999, n, 1510).
Ed anche assemblee in cui siano state adottate deliberazioni contrarie ai diritti soggettivi di un condomino (Cass. 9 aprile 1980, n. 2288).
Contratto con cui un assicuratore, dietro pagamento di un premio, si obbliga a tenere indenne l’assicurato dagli effetti dannosi di un evento futuro e incerto.
Non esiste obbligo, per il condominio, di essere assicurato ne’ per la responsabilità civile ne’ per incendio o scoppio e neanche contro gli eventi naturali, quali, ad esempio, il terremoto o frane e alluvioni.
L’obbligo esiste solo, ma è insito nel contratto stesso, in caso di stipula con mutuo, in quanto l’ente erogatore la pretende a garanzia della somma anticipata.
In mancanza di legge specifica, opera però la diligenza dei condomini, magari sollecitati dall’amministratore, che generalmente di buon grado, stipulano una polizza che, in gergo, si chiama “globale fabbricati”.
In essa, oltre alla responsabilità civile, sono coperti i danni arrecati dalla rottura di tubazioni di acqua condotta, da incendio nelle parti comuni, dalla caduta o crollo di strutture condominiali, quali masse fumarie, tegole, cornicioni e – in una parola – di qualsiasi parte comune che rompendosi o deteriorandosi, causi un danno a terzi.
Ed in questa evenienza i condomini sono terzi ed hanno diritto a rimborsi nel caso che delle parti comuni abbiano creato danni a persone o cose loro.
Generalmente è l’assemblea, magari su proposta dell’amministratore, a deliberare la stipula di una polizza di assicurazione, e ne fissa anche le condizioni, l’entità e quanto altro necessita.
Se l’assemblea non ha voluto deliberare la stipula, o non ha potuto per mancanza del quorum, l’amministratore non è legittimato alla stipula stessa.
L’Art. 1130 cod. civ. obbliga l’amministratore ad eseguire gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni, ma si riferisce esclusivamente ad atti materiali (manutenzioni e riparazioni) e necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, ma fra questi non rientra il contratto di assicurazione (Cass. 3 aprile 2007, n. 8233).
Se però l’assemblea non ha deliberato – o non aveva il quorum per deliberare - è configurabile la ratifica del contratto di assicurazione a favore del condominio stipulato dall’amministratore, qualora il premio sia stato periodicamente pagato ed annualmente inserito nel rendiconto di gestione, anche se non più posto all’ordine del giorno, poiché è stata ritenuta valida la tacita ratifica (Cass. 6 luglio 2010, n. 15872).
La stessa sentenza conferma che, affinché l’amministratore sia legittimato a stipulare il contratto, non è necessario il consenso di tutti i condomini.
Anche in caso di polizza pluriennale, essa può essere deliberata con una maggioranza qualificata, ma non con il quorum richiesto dal quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ.. – maggioranza degli intervenuti ed almeno due terzi del valore – poiché non si tratta di innovazione, bensì con quella prevista dal secondo comma sempre dell’Art. 1136 cod. civ. – maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore – sia in prima che in seconda convocazione.
Considerando poi che il contratto di assicurazione, stipulato dall’amministratore ed anche in presenza di un condominio, che è privo di personalità giuridica in quanto ente di gestione, non consente al singolo condomino di poter agire singolarmente nel proprio interesse, perché spetta all’amministratore stesso, in rappresentanza del condominio che ha contratto la polizza, rappresentare il condominio stesso nell’interesse di tutti i condomini (Cass. 20 febbraio 2009, n. 4245).
È importante rilevare che l’assicurazione della responsabilità civile, mentre non riguarda sinistri semplicemente accidentali – dovuti cioè a caso fortuito o a forza maggiore, dai quali non deriva responsabilità alcuna – è invece necessaria per i fatti colposi involontariamente cagionati a terzi per cause accidentali (Cass. 26 febbraio 2013, n. 4799).
È colui che rifiuta di partecipare ad una votazione per protesta o perché non interessato.
Fino al 18 giugno 2013 – entrata in vigore della legge 220/2012 – la figura dell’astenuto non era considerata fra quelle che – in un modo o nell’altro – avevano partecipato alla discussione ed alla votazione, ma neppure fra coloro i quali avevano diritto ad impugnare la deliberazione assembleare.
In assemblea si è discusso su un certo argomento?
Ci sarà chi vota a favore e chi contro. Ma ci sarà anche chi non vorrà prendere parte alla discussione ed alla votazione, estraniandosi, magari per non scontentare gli uni o gli altri.
Se la votazione avrà raggiunto i quorum deliberativi necessari per quell’argomento, ci saranno coloro i quali avranno votato contro e gli astenuti.
Per i contrari esamineremo le problematiche in altra parte, per gli astenuti si prospettano due possibilità: accettare la deliberazione e rispettare la maggioranza che l’ha espressa, oppure contestarla.
Fino alla recente modifica del Codice Civile la questione era dibattuta ed in merito la Giurisprudenza è stata altalenante.
Studiosi validissimi del Diritto Condominiale, con dotte ed opposte considerazioni – non sempre sufficientemente confortate da decise precisazioni della Suprema Corte – ritenevano, in sostanza, dubbia la posizione dell’astenuto.
In anni recenti la questione era stata definitivamente risolta dalla Giurisprudenza, che si è orientata nell’equiparare gli astenuti agli assenti ed ai dissenzienti, affermando che: nel condominio è necessario rammentare la sostanziale differenza fra le maggioranze costitutive e le maggioranze deliberative.
Alla regolare costituzione dell’assemblea concorrono tutti i presenti, quindi anche coloro i quali si asterranno dalle votazioni.
All’approvazione delle decisioni, invece, non concorrono tutti i partecipanti all’assemblea, e poiché le deliberazioni si assumono con il voto di maggioranza dei partecipanti, gli astenuti – come i dissenzienti – non hanno concorso a formare la detta maggioranza.
Nel rispetto di tali considerazioni, la Corte era pervenuta alla decisione che – non essendoci, in passato, una norma specifica che attribuisse alla dichiarazione di astensione un contenuto ed una efficacia ben definiti – gli astenuti dovessero essere equiparati ai dissenzienti ed agli assenti, poiché – come costoro – non avevano contribuito a formare il quorum decisionale.
Il novello Art. 1137 cod. civ. ha recepito in pieno questo ultimo orientamento giurisprudenziale e disposto che gli astenuti – chiaramente indicati nel verbale assembleare – avranno trenta giorni di tempo per decidere il loro comportamento: persistere nell’astensione o impugnare la deliberazione.
Per detta impugnativa è necessario produrre il verbale dell’assemblea che – in teoria – dovrebbe essere compilato durante l’assemblea stessa e trascritto nel registro dei verbali.
Indispensabile – quindi – che il verbale venga consegnato immediatamente a chi ne faccia richiesta, o comunque in tempi strettissimi, per non vanificare il tempo concesso, e non eccessivo, dei trenta giorni.
È ben vero che l’atto di opposizione si può predisporre per tempo, ed il verbale allegarlo alla presentazione, ma non sono rari i casi in cui a verbale risultano trascritti dati inesatti o incompleti, che meritano considerazione.
Ultimo piano abitabile di un edificio, spesso sovrapposto al cornicione.
Moltissimi fabbricati sono costruiti in modo che le unità immobiliari siano utilizzabili in maniera più gradevole delle altre e possibilmente con prospettive panoramiche.
Generalmente i muri perimetrali dei piani attici sono arretrati rispetto agli altri muri del fabbricato, ed almeno un lato della proprietà si affaccia su una terrazza a livello.
I piani attici, come del resto tutte le unità immobiliari dell’ultimo piano, hanno il diritto di sopraelevare l’immobile, salvo patto contrario o divieto delle Autorità.
A questo proposito è interessante evidenziare che una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (30 luglio 2007, n. 16794) ha affermato che l’Art. 1127 cod. civ. – costruzione sopra l’ultimo piano dell’edificio – trova applicazione in ogni ipotesi di incremento della superficie e della volumetria, indipendentemente dal fatto che tale incremento dipenda o meno dall’innalzamento dell’altezza del fabbricato.
Generalmente i muri perimetrali di un attico, si è detto, sono arretrati rispetto alla sagoma ed all’architettura del fabbricato, ma essi sono da considerarsi egualmente muri comuni, anche nei casi in cui non abbiano funzione di sostegno (Cass. 5 dicembre 1978, n. 5732).
Una ulteriore conferma a questa sentenza ci perviene sempre dalla Cassazione, che afferma come i muri perimetrali del condominio, anche se non hanno funzione di muri portanti, sono da considerare come muri maestri e quindi comuni ai sensi dell’Art. 1117 cod. civ., poiché contribuiscono alla consistenza volumetrica del fabbricato, proteggendolo dagli agenti atmosferici e termici, delimitano la superficie coperta e delineano l’architettura del fabbricato.
È, questa, la conferma che anche i muri perimetrali del piano attico – seppure costruiti in posizione arretrata o avanzata rispetto alle principali linee architettoniche del condominio – sono da considerarsi comuni (Cass. 11 giugno 1986, n. 3867).
Magari la funzione portante e strutturale è svolta da pilastri e travi in c.a., ma questi, senza un muro di tamponamento, non sarebbero che uno scheletro privo di funzionalità pratica (Cass. 9 febbraio 1982, n. 776).
Contiguo al piano attico – in uso esclusivo o in proprietà – è quasi sempre ubicata una terrazza a livello.
È ben raro che il condomino del suddetto piano attico abbia sulla terrazza a livello – alla quale si accede esclusivamente dalla sua proprietà – solamente l’uso, ma così recita l’Art. 1126 cod. civ., e ad esso dobbiamo fare riferimento per la ripartizione delle spese di manutenzione o rifacimento di quello che altro non è se non un lastrico, fisicamente e strutturalmente parlando.
L’usuario o proprietario della terrazza potrà utilizzarla nel modo che ritiene più confacente, evitando di gravarla di carichi eccessivi o effettuare modifiche in contrasto con il regolamento di condominio o le leggi comunali.
I deterioramenti o danni per cattivo uso saranno esclusivamente di sua competenza.
Quelli, invece, dovuti a vetustà od a cattiva esecuzione saranno di competenza sua e di altri, nella classica misura di un terzo a lui e due terzi a coloro ai quali la terrazza serve.
Egli, però, dovrà consentire l’accesso e permettere l’esecuzione dei lavori.
Recipiente a chiusura ermetica e sotto pressione, atto a sollevare liquidi.
Specialmente nei fabbricati molto alti, può verificarsi il caso di scarsa adduzione di acqua, in quanto la pressione dell’acquedotto pubblico non è sufficiente.
Oppure, anche in fabbricati non eccessivamente alti, le incrostazioni delle tubazioni riducono la pressione dall’impianto e quindi la fornitura dell’acqua ad una o più unità immobiliari.
Il problema è tanto più sentito in funzione dell’altezza dei locali rispetto al suolo.
Il punto 3 dell’Art. 1117 cod. civ. non la menziona esplicitamente, ma la include fra gli impianti idrici in generale, in quanto – effettivamente – l’autoclave è componente dell’impianto idrico.
Infatti un’autoclave, che consente l’utilizzazione costante dell’impianto idrico condominiale, è parte integrante dello stesso.
Pertanto, le spese relative alla installazione dell’autoclave seguono gli stessi criteri ripartitivi fissati per l’impianto idrico, e la circostanza che il condominio sia composto di più piani, serviti in misura diversa dall’autoclave stessa, non è di per se’ sufficiente a giustificare una diversa ripartizione, secondo il criterio della proporzionalità dell’uso (Cass. 29 novembre 1983, n. 7172).
È stato anche affermato che l’installazione di un’autoclave autonoma in favore di una unica unità immobiliare è consentita, ai sensi dell’Art. 1102 cod. civ., a condizione che non riduca l’afflusso dell’acqua nelle unità immobiliari degli altri condomini, con pregiudizio del loro diritto di egual godimento del diritto comune (Cass. 23 febbraio 1987, n. 1911).
L’eventuale diniego dell’assemblea di installare l’impianto, viola il diritto dei proprietari danneggiati di godere del normale flusso dell’acqua.
L’installazione della suddetta elettropompa è infatti riferibile ad un servizio essenziale – quello del normale approvvigionamento di acqua potabile – e non può esimere alcun condomino dal pagamento della relativa spesa anche se essa avvantaggerà solo una parte di condomini.
Per la spesa di installazione si dovrà applicare il disposto dell’Art. 1123 cod. civ., in quanto la spesa deve essere sostenuta da tutti.
Per l’uso e la manutenzione ordinaria, la spesa inciderà sul costo dell’acqua potabile, alla stessa stregua della energia elettrica e suddivisa per i metri cubi consumati da ogni condomino.
Questo però solo nel caso del servizio centralizzato dall’acqua potabile, quindi con un unico contatore installato dall’ente erogatore ed intestato al condominio.
Nel caso, invece, ogni condomino abbia stipulato altrettanti contratti con l’ente, il condominio rimarrà escluso da ogni onere collegato all’autoclave.
In proposito è stato anche chiarito dalla Giurisprudenza che l’installazione in un locale condominiale di una autoclave autonoma da parte di un condomino – per il sollevamento dell’acqua in uso solo al suo appartamento – non costituisce una innovazione, ma una semplice modifica della cosa comune e rientrante – a norma dell’Art. 1102 cod. civ. – nei poteri di modifica spettanti ad ogni condomino, purché non impedisca agli altri l’uso della cosa comune e non ne alteri la destinazione.
Ogni spesa inerente e conseguente sarà ad esclusivo carico del condomino che ha fatto eseguire l’impianto (Cass. 11 febbraio 1998, n. 1389).
Dello stesso tenore un’altra sentenza, relativa alla installazione, ad opera di tutti i condomini tranne uno, di un’autoclave in una area condominiale, con minima occupazione di spazio.
È stata considerata innovazione non vietata, ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., secondo comma, considerando che il concetto di inservibilità espresso nell’articolo deve essere interpretato come sensibile menomazione dell’utilità che il condomino dissenziente ritraeva dall’originaria costituzione della comunione, con la conseguenza che debbono ritenersi consentite quelle innovazioni utili a tutti tranne uno e che comportino per questi un pregiudizio limitato e tale da non superare i limiti della tollerabilità (Cass. 21 ottobre 1998, n. 10445).
In anni precedenti era stato sentenziato che l’installazione di un’autoclave ad opera di due condomini, ma predisposta per l’utilizzazione di tutti e collocata in un’area comune limitata, non costituisce innovazione (Cass. 6 giugno 1989, n. 2746).
È un locale o un gruppo di locali adibiti al ricovero ed alla custodia di veicoli.
Questo locale può essere posizionato al piano terra o ai piani seminterrato e interrato, può essere singolo – per il parcheggio di una o due macchine – o multiplo, ed in questo caso più che di autorimesse si tratta di box.
Infatti un ampio locale senza muri divisori può contenere solo dei box per auto, con delimitazioni verniciate a terra e numeri di identificazione.
Le autorimesse al piano terra, pertinenze dell’unità immobiliare principale, sono tali per destinazione, e non abbisognano di particolari autorizzazioni.
A seconda delle esigenze del condomino, potranno essere utilizzate come garage, come cantina o come magazzeno.
Al piano seminterrato o interrato, quando le autorimesse sono dieci o più, debbono rispettare le disposizioni dei Vigili del Fuoco e la destinazione deve essere rispettata, nel senso che esse debbono essere utilizzate solo per il parcamento di motoveicoli o autoveicoli.
L’utilizzo a lato di esse come cantina o magazzeno dovrà rispettare particolari normative – muri REI e porte tagliafuoco – o altre, a seconda del tipo di fabbricato.
Se l’area cortiliva esiste e lo consente e se il Regolamento non lo impedisce, le auto possono essere parcheggiate all’esterno dei luoghi di parcheggio privato, e cioè nell’area cortiliva comune.
Se l’area, pure idonea, è di limitata capienza e non permette l’uso simultaneo da parte di tutti gli aventi diritto, il godimento del bene può avvenire in maniera indiretta o mediante avvicendamento, ma, fino a quando non vi sia richiesta di uso turnario da parte degli altri partecipanti, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano accettato l’altrui uso esclusivo (Cass. 4 dicembre 1991, n. 13036).
Se invece l’area cortiliva lo consente, e quindi ogni singolo condomino ha la possibilità di disporre di un’area di parcheggio, tale utilizzazione può essere autorizzata dall’assemblea dei condomini con semplice voto di maggioranza, trattandosi di un modo di utilizzazione del cortile che non ne muta la destinazione (Cass. 12 luglio 1986, n. 2464).
Non è raro il caso di autorimesse posizionate sotto l’area cortiliva e di conseguenza si prospetta la necessità di provvedere ad opere di manutenzione o riparazione.
Per lunghi periodi la giurisprudenza è stata altalenante, ma infine, con sentenza del 14 settembre 2005, la Cassazione ha ritenuto di disporre che la spesa di manutenzione dell’area cortiliva soprastante le autorimesse deve essere ripartita in base al disposto dell’Art. 1125 cod. civ., che comporta un’applicazione particolare del principio generale dell’Art. 1123 cod. civ., secondo il quale “se si tratta di una cosa destinata a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne”.
Anche la legge n. 122 del 24 marzo 1989 – conosciuta come la legge Tognoli – prevede autorimesse costruite sotto l’area cortiliva.
È conseguenziale che l’area cortiliva venga completamente modificata, ed i condomini, che hanno fatto ricorso al disposto della suddetta legge, dovranno farsi carico di spese per la rimessione in pristino ed anche per ogni sua futura manutenzione.
La citata legge n. 122/1989 non prevede alcuna deroga al principio generale che esclude il potere della maggioranza di menomare i diritti di una possibile minoranza (Cass. 14 giugno 1997, n. 5369).
Avuto, poi, riguardo di rispettare le disposizioni di cui all’Art. 1120 cod. civ. – sulle innovazioni vietate se pregiudicano la stabilità o la sicurezza del condominio – c’è anche da rilevare che l’Art. 1121 cod. civ. prevede la possibilità – per i dissenzienti – di poter partecipare in qualsiasi tempo futuro ai vantaggi della innovazione.
Poiché non è pensabile che i condomini che hanno deliberato la costruzione di autorimesse nel cortile condominiale ne costruiscano in quantità pari al numero degli aventi diritto, vi è motivo di ritenere che la costruzione attuata preveda le future possibilità di ampliamento richieste in epoche successive?
Si prospettano due situazioni.
Se la parte deliberante adotta un sistema modulare dei parcheggi – che lasci spazi sufficienti per la eventuale futura adesione dei dissenzienti – si correrà il rischio di far perdere utilità a parte di quelle opere – quali la rampa di accesso o le corsie di scorrimento – nel caso i suddetti dissenzienti intendano utilizzare tecniche e tipologie diverse.
Se invece la parte deliberante costruirà un numero di parcheggi uguale alle unità immobiliari del condominio, immobilizzerà per eventuale lungo tempo un capitale economico, senza possibilità di utilizzazione delle autorimesse “riservate” ai dissenzienti o non iniziali partecipanti.
Stante questo potenziale vincolo, le autorimesse, destinate a soddisfare le eventuali future richieste dei suddetti dissenzienti, non potranno essere ne’ alienate a terzi o attribuite ad altro titolo.
È importante ricordare che l’area cortiliva comune, coperta o scoperta, è destinata a parcheggio di veicoli, ma solo temporaneamente, e non in modo stabile.
Tale è, infatti, il significato del termine “parcheggio”, nella accezione corrispondente a quella corrente, per cui il parcheggio si distingue dalla sosta solo perché avviene in area appositamente ad esso riservata ed esclusa al traffico.
Parcheggiare stabilmente per tempo indeterminato un veicolo nella stessa posizione non può essere consentito, a norma anche di quell’Art. 1102 cod. civ., che tanta libertà di azione consente ai condomini, a condizione però che l’uso di una parte comune non impedisca agli altri di farne un eguale uso.
Occupare stabilmente un’area comune per farne autorimessa per un proprio veicolo è quindi azione non consentita(Cass. 24 febbraio 2004, n. 3640).
Altro problema è quello relativo alla locazione dei posti macchina, situata in aree condominiali coperte o scoperte, nel caso in cui il cortile sia incapiente.
In primis necessita che il regolamento non lo vieti e che il parcheggio non diminuisca l’uso principale – nel caso di area scoperta e libera - che resta quello di dare aria e luce ai piani soprastanti.
La delibera dovrà ottenere la maggioranza di cui al secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ. e dovrà in entrambi i casi contenere la normativa applicabile: sorteggio, turni, canone, durata e limitazioni.
È una struttura sporgente da un muro esterno di un edificio, contornato da una balaustra o ringhiera, costituente uno spazio esterno accessibile.
I balconi, con le loro filette, ringhiere e pavimenti sono beni accessori di ogni unità immobiliare, quali loro prolungamenti, e come tali debbono considerarsi di proprietà dei rispettivi condomini (Cass. 17 luglio 2007, n. 15913).
Conseguentemente, la responsabilità per danni derivanti da rovina dei balconi o loro parti è esclusivamente imputabile al proprietario del balcone (Cass. 7 settembre 1996, n. 8159).
Non è, però, stato sempre così, e fino ad una ventina di anni fa la questione era dibattuta e la Giurisprudenza ha ripetutamente ritenuto che la comunione del solaio divisorio tra due piani di diversi proprietari si estendesse anche alle solette dei balconi, ai sensi dell’Art. 1125 cod. civ..
Finalmente la Cassazione, con sentenza n. 11155 del 24 dicembre 1994, ha posto fine a questa altalena giuridica stabilendo che il balcone è di proprietà esclusiva del condomino dal cui appartamento vi si accede, in quanto i balconi sono strutturalmente autonomi, ma si riferiva però a balconi sporgenti dalla facciata.
La Giurisprudenza, infatti, ha fatto differenza fra i balconi “aggettanti” e quelli incassati nel corpo dell’edificio.
Quelli incassati svolgono contemporaneamente le funzioni di separazione, di copertura e di sostegno (Cass. 26 gennaio 2001, n. 1101).
I balconi aggettanti, invece, sporgono dalla facciata dell’edificio e sono un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, e poiché non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura del fabbricato, non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono (Cass. 17 luglio 2007, n. 15913 citata).
La Giurisprudenza è invece sempre stata concorde nel ritenere che la manutenzione dei parapetti e delle ringhiere debba essere di competenza esclusiva del proprietario del balcone.
Quando, però, gli elementi del balcone costituiscono un carattere architettonico della facciata, tutte le spese per manutenzione o rifacimento debbono essere ripartite fra tutti i condomini, nessuno escluso, in quanto interessati al mantenimento del decoro architettonico della facciata stessa (Cass. 21 gennaio 2000, n. 637).
In pratica la Giurisprudenza ha suddiviso la ripartizione delle spese di manutenzione dei balconi in due parti ben distinte:
− Il balcone vero e proprio, come piano di calpestio e spazio utilizzabile è di proprietà e competenza esclusivamente della singola unità immobiliare;
− la manutenzione dei frontalini (faccia anteriore) e delle fasce marcapiano e tutte le parti non essenziali all’agibilità del balcone stesso, che quindi riguardano solo la parte architettonica ed ornamentale inserita nel più vasto concetto della facciata, compresa quindi anche la parte inferiore della struttura, dovranno far capo a tutto il condominio, compresi i negozi, con ripartizione ai sensi dell’Art. 1123 cod. civ. (Cass. 3 agosto 1990, n. 7831; Cass. 15 gennaio 1986, n. 176).
Abbiamo poi il caso dei balconi coperti (bow-windows) che deve essere esaminato sotto due possibili caratteristiche e situazioni.
Se nella parte superiore si trova un balcone aperto e nella parte inferiore un ambiente chiuso, per le riparazioni e manutenzioni si applicano i seguenti criteri:
− piano di calpestio a carico del condomino soprastante; nel caso di infiltrazioni meteoriche la demolizione, impermeabilizzazione e nuovo piano di calpestio, la spesa dovrà essere ripartita come da disposizioni di cui all’Art. 1126 cod. civ.;
− rifacimento e manutenzione della soletta portante, causata da cedimenti od assestamenti, con spesa da ripartirsi come da disposizioni di cui all’Art. 1125 cod. civ..
Se trattasi, invece, di balconi chiusi, si è in presenza di sporgenze della facciata, e pertanto si applicano i seguenti articoli di legge:
− per le parti esterne l’Art. 1123 cod. civ., primo comma;
− per la copertura l’Art. 1123 cod. civ. primo comma o l’Art. 1126 cod. civ. a seconda delle situazioni specifiche;
− per le strutture orizzontali di separazione fra i piani si ricorre sempre all’Art. 1125 cod. civ..
Queste puntualizzazioni sui balconi chiusi possono valere se essi sono stati costruiti all’inizio e con materiali e caratteristiche simili alla restante parte del fabbricato e comunque coerenti con le sue linee architettoniche, poiché, se la chiusura è avvenuta in tempi successivi, con materiali – quali ferro, alluminio, legno e vetro – diversi dal resto, e comunque con linee estetiche diverse, essi non costituiscono parti comuni, anche se inseriti nella facciata, in quanto formano parte integrante dell’unità immobiliare che vi ha accesso (Cass. 29 ottobre 1992, n. 11775).
La facoltà per il singolo condomino di costruire una veranda sul suo balcone è da tempo considerata lecita (Cass. 30 luglio 1981, n. 4861), a condizione che non alteri il decoro architettonico del fabbricato e non rechi pregiudizio – in alcun modo – agli altri condomini.
Se tale chiusura – in contrasto con l’Art. 1122 cod. civ. – dovesse recare danno o pregiudizio anche ad un solo condomino, la chiusura a veranda non può essere consentita (Cass. 11 febbraio 1985, n. 1132).
Spesso i condomini, pur non eccependo – o non potendo eccepire – obiezioni sulla nuova veranda, lamentano che il condomino responsabile ha modificato la sua unità immobiliare – destinazione dell’area chiusa, aumento di superficie, di volume riscaldato o altro – e chiedono una conseguente modifica ed adeguamento delle tabelle millesimali.
La nuova legge 220/2012 – lacunosa in tante parti – in questo caso si è espressa chiaramente, disponendo che le tabelle potranno essere modificate se si ritiene alterato, per più di un quinto del valore proporzionale dell’unità immobiliare interessata, a norma dell’Art. 69 disp. att. e trans. cod. civ., che è inderogabile.
Nell’edilizia moderna si verifica spesso la situazione di balconi continui ma appartenenti ad unità immobiliari diverse, con delimitazioni costituite da muretti o da strutture in ferro e vetro o materiali equivalenti.
Queste strutture sono normalmente di proprietà di entrambi i confinanti, e qualsiasi spesa, relativa ad esse, deve essere suddivisa in parti uguali.
È ben vero che fanno parte dell’armonia estetica della facciata, ma – così come le ringhiere sono di proprietà della singola unità immobiliare – così anche tali separazioni riguardano solo i due comproprietari interessati e non tutto il condominio.
Nel caso di un muro di divisoria fra due balconi contigui, la proprietà è limitata alla rispettiva metà, alla stessa stregua dei muri di confine (Cass. 6 aprile 1987, n. 3330).
Quid iuris per le tende parasole e per gli impianti elettrici o qualsiasi altro manufatto infisso nella faccia inferiore del balcone soprastante?
Quando tali installazioni sono fissate alla soletta, se i suddetti impianti non erano stati precedentemente autorizzati, il proprietario del balcone avrà diritto di richiederne la rimozione, in quanto potenzialmente dannose per la conservazione del manufatto.
Una ulteriore fonte di dubbio può essere rappresentata dalle pensiline copribalcone o copriportone di accesso al condominio.
Dette pensiline svolgono la funzione di copertura dei balconi sottostanti, ma esse concorrono anche a formare un aspetto estetico generale.
Svariate sentenze in proposito affermano che “va considerato bene comune tutto quanto afferisce ad elementi costituenti parte integrante della facciata dell’edificio e che si inquadrano nell’aspetto estetico di questo” (Corte di Appello di Salerno, 16 febbraio 2001).
Ed ancora: “Gli elementi decorativi si devono considerare beni comuni a tutti, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole” (Tribunale di Milano, Sez. VIII, 28 aprile 2005).
Ed anche: “… si pongono come elementi esterni aventi una attitudine funzionale legata al decoro dell’edificio, che è bene di godimento collettivo” (Cass. 12 gennaio 2011, n. 587).
Per quanto occorrer possa il novello Art. 1117 cod. civ. inserisce la facciata fra le parti comuni, e le indicate pensiline contribuiscono certamente all’estetica della facciata.
Spesso si verifica il caso di finestre che vengono trasformate in porte finestre per poter accedere ad un costruendo balcone.
La Suprema Corte, ai sensi dell’Art. 1102 cod. civ., ha ritenuto che la suddetta costruzione sia lecita, purché non leda i pari diritti degli altri partecipanti e non diminuisca in modo apprezzabile l’utilizzazione dell’aria e della luce alla proprietà limitrofa (Cass. 27 agosto 2002, n. 12569).
Complesso degli elementi che rendono difficoltosi gli spostamenti alle persone con disabilità motoria.
La legge n. 13 del 9 gennaio 1989 – modificata dalla legge n. 62 del 27 febbraio 1989 – ha finalmente affrontato il problema del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche, ossia di quegli ostacoli fisici che impediscono la libera mobilità di coloro i quali – per qualsiasi motivo – hanno ridotta capacità motoria, sia permanente che temporanea.
Le barriere più facilmente individuabili e prese in considerazione dalla legge riguardano le scale o i gradini prima di accedere al piano dell’ascensore e la larghezza della porta sia di accesso al fabbricato o di accesso alla cabina dell’ascensore o la stessa cabina dell’ascensore.
Esaminandole nello specifico, abbiamo i seguenti possibili impedimenti:
serie di gradini antistanti l’ingresso al condominio o posizionati nel vestibolo o nell’andito e presenti prima della porta al piano terra dell’eventuale ascensore già esistente.
Per il superamento di questa breve serie di gradini può essere posizionata una piccola rampa – con pendenza non superiore all’8% - o una pedana mobile o un servoscala.
Nel caso di un servoscala installato da un portatore di handicap, e se detto servoscala serve tutte le rampe di scala, implicitamente implica la rinuncia di richiedere all’assemblea l’autorizzazione ad installare un impianto di ascensore (Cass. 20 aprile 2005, n. 8286).
Se, invece, viene richiesta la installazione di un ascensore o di un montacarichi – simile all’ascensore ma con funzionamento leggermente diverso – da posizionare nel vano scale o in altro luogo condominiale, ma in ogni caso facilmente raggiungibile da un diversamente abile, necessita verificare che il nuovo impianto non sia in contrasto con le disposizioni dell’Art. 1120 cod. civ., secondo comma.
Non devono arrecare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza del condominio, né alterarne il decoro architettonico (Cass. 29 luglio 2004, n. 14384).
In presenza di ascensore già esistente, il portatore di handicap o chi per esso, può richiedere l’allargamento delle porte ai piani di accesso alla cabina – per consentire il passaggio di una sedia a ruote – ed anche richiedere, per lo stesso motivo, un allargamento delle porte di cabina, modificando o sostituendo la stessa nel caso non sia sufficientemente recettiva per una sedia a rotelle.
Tutte le suddette porte dovranno essere di tipo automatico per agevolare l’accesso e il recesso.
I pulsanti di comando della bottoniera dovranno essere in rilievo e con le scritte anche in Braille.
Infine, ma ovvio, l’accesso all’ascensore non dovrà avere ostacoli o impedimenti gravosi per i movimenti dei disabili (Cass. 1 giugno 2007, n. 12847).
La domanda al condominio, e per esso all’amministratore, per superare un impedimento, può essere avanzata direttamente dal portatore di handicap o da chi ne esercita la tutela o la patria potestà.
L’assemblea del condominio ha novanta giorni di tempo per pronunciarsi sulla richiesta e delibera con le maggioranze previste dall’Art. 1136 cod. civ. in prima o in seconda convocazione.
È importante rilevare che qualsiasi opera, di eliminazione delle barriere architettoniche presenti in un condominio, equivale ad una innovazione, ma il legislatore ha inteso consentire l’approvazione di tali modifiche con un numero di voti meno elevato, e, quindi, con una maggioranza più facile da raggiungere.
Le particolari disposizioni per l’eliminazione delle barriere non ha però modificato l’operatività delle norme previste per le innovazioni, cioè il quorum imposto dal punto due dell’Art. 1120 cod. civ. – maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio – nonché quello imposto dall’Art. 1121 cod. civ. terzo comma.
In tal senso si è espressa la Suprema Corte (25 giugno 1994, n. 6109).
Tutte le modifiche per migliorare gli accessi ed eliminare gli ostacoli, possono essere richieste anche se nel condominio non risiede un portatore di handicap, in quanto lo spirito della legge 13/1989 intende consentire la libera frequentabilità di qualsiasi persona, anche frequentatore saltuario, e non solo ad un residente.
In tal senso si sono pronunciati il Tribunale di Milano (14 novembre 1991) e quello di Firenze (19 maggio 1992).
Relativamente agli importi economici per apportare le modifiche necessarie ad eliminare le barriere architettoniche bisogna distinguere:
a) se il portatore di handicap è proprietario, in tal caso – avanzata la richiesta – l’assemblea accetta di eseguire i lavori e gli addebiti conseguenti sono a carico di tutti i condomini a norma dell’Art. 1123 cod. civ. primo comma.
Nel caso di rifiuto assembleare, o silenzio protrattosi oltre i novanta giorni, gli oneri relativi sono totalmente a carico del richiedente.
b) se il richiedente è un conduttore, egli dovrà richiedere prima il consenso al proprietario dei locali, poi all’assemblea.
Nell’ipotesi di diniego, potrà procedere come nel caso precedente.
In entrambi i casi, il condominio, tramite l’amministratore o il portatore di handicap, avrà la possibilità di richiedere il contributo a fondo perduto previsto dalla legge, con accredito delle somme in modo conseguenziale.
È stato poi affermato che, nell’impossibilità di osservare tutte le prescrizioni della normativa – in ragione delle particolari caratteristiche del condominio – se l’intervento produrrà un miglioramento alle situazioni in essere, attenuando sensibilmente le condizioni di disagio, la deliberazione è legittima (Cass. 26 luglio 2013, n. 18147).
Spesso succede, specialmente in fabbricati “datati”, che non sia possibile rispondere in modo positivo a tutte le prescrizioni e misure della legge 13 del 9 gennaio 1989, e a volte – prendendo spunto da questa – ipocritamente chi è contrario alla spesa, più che alla modifica in sé, si appella a pochi centimetri di differenza fra le misure di legge e le possibilità di esecuzione.
La Suprema Corte, correttamente, ha sancito che, anche solo un miglioramento nella fruizione del bene primario della abitazione, è da considerare e sostenere in delibera.
Area delimitata in cui si pratica tale gioco.
Il campo da tennis può esistere anche nelle aree condominiali, specialmente in fabbricati signorili e nei supercondominii, anche se non necessariamente considerati di lusso (Cass. 14 dicembre 2005, n. 27617).
Che cos’è un campo da tennis? Una destinazione particolare di un’area cortiliva condominiale, che non modifica assolutamente la sua destinazione primaria, che è quella di dare aria e luce al fabbricato.
Si tratta, infatti, di un’area recintata, eventualmente con alte reti, con pavimentazione particolare e riservata al gioco del tennis.
L’originale proprietario o costruttore avrà certamente provveduto – in sede di rogito di vendita – a regolamentare l’esistenza di questa particolare utilizzazione dell’area condominiale.
In difetto, la regolamentazione della sua gestione dovrà essere affidata al regolamento contrattuale o assembleare.
Dovranno essere regolamentati l’accesso, le ore di utilizzo, i rumori conseguenti e le responsabilità, nonché il criterio per la ripartizione delle spese di uso e manutenzione.
Sarà tutto più semplice che non l’uso e la gestione di una piscina, ed anche meno pericoloso, quanto meno per l’amministratore.
Chiusura di un passaggio, costituita da stecche o aste verticali tenute ferme tra loro da traverse.
Per decenni l’automatismo di chiusura dei cancelli, sia pedonali che carrai – in particolare questi ultimi – è stata considerata una innovazione, ed in quanto tale si riteneva necessitasse per la sua installazione un quorum deliberativo in accordo con l’Art. 1120 cod. civ., ma successivamente, e per fortuna, si è constatato che l’impianto non crea nessuna innovazione.
Sia chiaro, non si discuteva sulla creazione di un cancello di accesso alla proprietà condominiale, ma solamente della installazione di una apparecchiatura a molla – per i pedonali – o di un impianto elettrico, per quelli carrabili.
I cancelli di accesso alle parti comuni sono installati per limitare l’entrata nelle aree condominiali ai soli aventi diritto e considerando che l’apparecchiatura automatica di chiusura serve solo per agevolare gli utenti, essa deve considerarsi una facilitazione per coloro i quali attraversano il cancello e quindi si tratta semplicemente di un miglior uso della cosa comune (Cass. 21 febbraio 2013, n. 4340).
In conseguenza di ciò, le relative spese di impianto, gestione e manutenzione debbono essere ripartite fra tutti i condomini in proporzione alle loro quote millesimali di proprietà, e quindi anche a coloro i quali non posseggono autorimesse o non abbiano accesso al cortile – qualora i cancelli permettano di accedere a parti condominiali – non essendo rilevante la concreta utilizzazione del bene comune.
È pacifico che i rapporti condominiali debbono essere basati sul principio di solidarietà, e questo richiede un continuo equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i condomini.
Conseguentemente il ricorso all’Art. 1102 cod. civ. non è consentito solo al singolo condomino nei confronti degli altri partecipanti alla comunione, ma anche ad un gruppo di essi seppur limitato, nei confronti della maggioranza.
In proposito la Suprema Corte ha ritenuto lecita l’apertura di un passaggio, con relativo cancello, nella recinzione condominiale ed a servizio solo di una parte di condomini (Cass. 30 maggio 2003, n. 8808).
Precedentemente, anche la chiusura con un cancello, di una rampa di accesso ad alcune autorimesse, era stata ritenuta lecita e negato fosse necessario il quorum deliberativo per le innovazioni, riguardando solo la regolamentazione dell’uso ordinato della cosa comune, consistente nel divieto per gli estranei di accedere in aree condominiali (Cass. 2 febbraio 1999, n. 875).
Dopo l’entrata in vigore della legge 9/1989, per il superamento delle barriere architettoniche, è stata ritenuta in ogni caso lecita la installazione di apertura automatica, con telecomando o chiavi, di cancelli pedonali, di cancelli carrabili o di portoni, in quanto atti a facilitare l’entrata a portatori di handicap di deambulazione.
È stato ritenuta lecita anche la chiusura di un’area di accesso al fabbricato per impedire l’entrata indiscriminata da parte di terzi e confermato che non si tratta di innovazione, ma di semplice regolamentazione, senza alterarne la funzione o la destinazione, né sopprimere o limitare la facoltà di godimento dei condomini (Cass. 21 febbraio 2013, n. 4340 citata).
Tubazione di materiali vari in cui sono convogliati i fumi.
La canna fumaria può essere costruita in mattoni, cemento refrattario, acciaio inox, lamiera di rame, lamiera smaltata o materiali equivalenti, ed è composta dalla cassetta di raccolta del colaticcio, dalla canna vera e propria, dalla massa fumaria o comignolo e dalla relativa conversa.
La canna fumaria di un impianto di riscaldamento centralizzato è di proprietà di quei condomini, che sono proprietari anche dell’impianto, in quanto ne è parte integrante.
La canna fumaria che serve una o solo alcune unità immobiliari è di proprietà e competenza solo di questi, ed è irrilevante che essa sia inserita, contenuta o ricavata in un muro maestro di proprietà comune (Cass. 29 agosto 1991, n. 9231).
La presenza di una canna fumaria di proprietà privata entro un muro comune, da parte del condomino interessato, rappresenta utilizzazione della cosa comune, a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
Altrettanto lecita è la presenza o la costruzione di un comignolo sul tetto del condominio, e l’eventuale mancanza delle concessioni od autorizzazioni amministrative non può essere invocata dal condominio quale fonte di risarcimento di un eventuale danno, riflettendosi esclusivamente nei rapporti fra il condomino e la Pubblica Amministrazione (Cass. 8 agosto 1990, n. 8040).
L’apposizione, però da parte di uno o solo alcuni condomini e per loro esclusiva utilizzazione, di una canna fumaria lungo il muro perimetrale del condominio, non integra una modificazione della cosa comune necessaria al suo migliore godimento, ma costituisce una innovazione che può alterare il decoro architettonico del condominio stesso, e di cui può pertanto ordinarsi la rimozione ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ. (Cass. 5 ottobre 1976, n. 3256).
È stato, però, anche affermato che l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un condominio costituisce una modifica della cosa comune che ciascun condomino – a norma dell’Art. 1102 cod. civ. – può apportare a sue cure e spese, purché non impedisca agli altri di farne uso paritario, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza del condominio e non ne alteri il decoro architettonico.
Tale alterazione può verificarsi non quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme armonico della facciata (Cass. 16 maggio 2000, n. 6341).
Ripetutamente la Suprema Corte si è pronunciata sulla installazione di canne fumarie in un fabbricato in condominio.
Ha affermato che il condomino può utilizzare il muro perimetrale per installare una canna fumaria, sia se essa sarà incassata o anche se solo in appoggio (Cass. 7 ottobre 1968, n. 3132).
Nel caso di installazione in appoggio, la canna fumaria non potrà però ridurre in modo sensibile la visuale degli altri condomini (Cass. 8 aprile 1977, n. 1345).
Quando, però, la canna fumaria viene inserita all’interno di un muro che costituisce anche delimitazione dell’unità immobiliare, non può considerarsi utilizzazione consentita se causa immissioni di calore nei confinanti locali di altro condomino (Cass. 10 maggio 2004, n. 8852).
Proprio in merito alla canna fumaria, ma anche nel caso di tubazioni di scarico di acque reflue, è necessario rispettare le singole proprietà individuali, poiché questi manufatti sono naturalmente destinati ad attraversare delle strutture murarie comuni, e quindi causare invadenze ed immissioni nelle proprietà private confinanti (Consiglio di Stato, Sezione V, 3 gennaio 2006, n. 11).
Inoltre, il fatto che si parli di condominio non consente la non validità del principio del rispetto delle distanze legali, ma deve evitare che canne e scarichi producano situazioni antigieniche, pericolose o dannose, così come previsto dall’Art. 83 cod. civ..
Pertanto, tali opere non devono ridurre, per dimensione e ubicazione, gli spazi e la veduta dei vicini (Cass. 23 maggio 2002, n. 7530).
Isolamento termico dall’esterno, per pareti verticali.
Dopo decine di anni di sperperi, di consumi di combustibile, di temperature eccessive, senza orari di funzionamento e senza limiti di tempo, ci si è resi conto che era un sistema di vita che non poteva continuare.
Il buco dell’ozono, il riscaldamento globale del pianeta, ma anche – e non è marginale – l’oro nero ed il gas che fatalmente sono destinati ad esaurirsi.
Si è cercato di correre ai ripari, in modo scomposto e con sistemi che non possono considerarsi definitivi.
Abbiamo limitato le temperature degli ambienti ad un massimo di 20° – ma è una disposizione non rispettata da tutti – abbiamo da rispettare fasce orarie e periodi annuali di accensioni e spegnimenti – ma anche questo è affidato alla buona volontà ed al senso di responsabilità degli utenti – si stanno imponendo le caldaie a condensazione – che hanno consumi decisamente ridotti rispetto alle vecchie caldaie – comincia a farsi strada il sistema impiantistico dei contacalorie – da tempo sul mercato, ma ancora parzialmente incompreso.
Da decenni si sono installate doppie finestre o finestre con vetri termici, poiché abbiamo compreso che – spesso – negli immobili si hanno dispersioni incalcolabili.
Altra soluzione per ottenere un apprezzabile risparmio energetico è rappresentato dal rivestimento a cappotto.
Questo sistema è costituito da alcuni elementi:
• lo strato di supporto, e cioè la muratura o la struttura portante che permetterà l’applicazione di qualsiasi tipo di rivestimento;
• le lastre isolanti, generalmente di polistirene espanso sinterizzato – EPS - il cui spessore varia a seconda della necessità o volontà progettuali. Questo materiale isolante ha una buona resistenza alle fiamme;
• il collante che servirà per l’incollaggio delle lastre isolanti alla struttura portante, nonché quale primo strato di intonaco armato da disporre sulle lastre;
• rete di armatura, in tessuto di fibra di vetro. Servirà di rinforzo a trazione e per la stesura del primo strato di intonaco;
• primer, posabile come protezione dell’intonaco armato;
• rivestimento sottile di protezione dagli agenti atmosferici;
• profili in PVC o in lega leggera per le guide orizzontali e verticali;
• sigillature opportune per garantire il fissaggio e la tenuta con le strutture portanti;
• tasselli o fissaggi per garantire l’aggancio alle parti portanti.
A cappotto ultimato si dovrà procedere alla tinteggiatura delle pareti od anche ad eseguire un rivestimento con materiali estetici ed ornamentali.
Per la scelta dei materiali ed il modus operandi – per ovvi motivi non identico in tutti gli edifici, ma da valutare anche in considerazione delle varie zone climatiche – è necessario fare diverse considerazioni e verifiche:
• stabilità meccanica, poiché il manufatto deve resistere nel modo migliore al proprio peso, alle spinte del vento ed alle sollecitazioni termiche;
• impermeabilizzazione, per evitare infiltrazioni meteoriche o azioni di condensa;
• sicurezza in caso di incendio, in quanto le normative dispongono che debba corrispondere alla prima classe di resistenza al fuoco;
• giunti di dilatazione per compensare gli sbalzi termici.
Le delibere assembleari per eseguire il cappotto termico sulle pareti esterne condominiali, dovranno essere assunte con le stesse maggioranze necessarie per deliberare il risparmio energetico.
E qui comincia, forse, la parte più difficile.
Un’opera innovativa, finalizzata al risparmio energetico, ma senza necessità di attestazione, richiede la maggioranza di cui all’Art. 1120 cod. civ., secondo comma.
Un’opera migliorativa finalizzata al risparmio energetico, ma con attestazione, in base alla nuova legge 220/2012, prevede la maggioranza degli intervenuti e almeno un terzo del valore condominiale.
Le semplici migliorie, senza necessità di attestazione tecnica, come nel caso di cappotto termico – che consegue i fini indicati, ma non configura una innovazione, ne’ un intervento dotato di attestazione – dovrebbero essere comprese nell’ipotesi di manutenzione straordinaria, deliberabili pertanto, con i quorum conseguenti.
CISTERNA
Grande serbatoio per contenere liquidi.
Con gli acquedotti pubblici presenti in ogni agglomerato urbano, la cisterna è diventata un impianto non più necessario come in passato, e attualmente la cisterna stessa può ancora essere presente nei condominii per compiti e funzioni diverse.
Può ancora essere utilizzata come grande contenitore di acqua potabile, ed in questo caso è necessariamente collegata ad un pozzo nonché a pompa, tubazioni, depuratore e a tutto quanto necessita per consentire l’adduzione dell’acqua in ogni unità immobiliare.
In questo caso, tutti gli impianti, tubazioni ed attrezzature sono di proprietà condominiale fino al punto di diramazione alle unità immobiliari servite dall’impianto stesso.
Ma in un condominio possono esistere cisterne per contenere il gasolio per il riscaldamento dei locali, ed in questo caso tutto l’impianto – cisterna, passo d’uomo, tubazione fino alla centrale termica, impianto elettrico e pompe – è di proprietà condominiale.
Possono poi essere presenti, nei fabbricati di una certa volumetria, anche delle cisterne per contenere acqua nel potenziale uso dei Vigili del Fuoco.
Anche in questo caso tutto l’impianto e le apparecchiature sono di proprietà condominiale.
La cisterna, elencata al punto tre dell’Art. 1117 cod. civ. può essere costruita in lamiera di ferro o in cemento vibrato, e generalmente è interrata nel cortile o comunque in una area condominiale, ed indipendentemente dalla sua funzione essa è di proprietà comune.
Apparecchio telefonico interno che serve a mettere in comunicazione un locale privato con la portineria o con la pulsantiera esterna dei campanelli.
Esso consente il collegamento con l’esterno delle unità immobiliari poste all’interno del condominio, permette di essere informati su chi ha suonato il campanello e di aprire automaticamente il portone d’accesso.
È quindi un impianto comune a tutti coloro i quali risiedono all’interno del fabbricato e sono collegati con l’impianto dei campanelli – che costituisce un tutt’uno con quello citofonico – e non riguarda le proprietà esterne.
L’impianto citofonico si compone di una apparecchiatura di ascolto annessa alla pulsantiera dei campanelli, di una tubazione principale incassata nel muro – generalmente nel vano scale – e con tubazione di collegamento alle varie unità immobiliari, nonché di un apparecchio parla e ascolta simile ad un apparecchio telefonico, infisso nel muro all’interno dei locali privati.
Si è molto discusso sull’addebito e la ripartizione delle spese agli aventi diritto:
1) addebito a tutti gli interessati in parti uguali. Non è molto corretto in quanto i primi piani utilizzano pochi metri di cavo rispetto agli ultimi piani;
2) addebito a tutti gli interessati in funzione dell’Art. 1124 cod. civ. così si contribuisce progressivamente fino all’ultimo piano. Anche questo concetto ripartitivo non è corretto in quanto l’apparecchiatura situata nella pulsantiera dei campanelli è uguale per tutti;
3) la ripartizione più equa può essere quella che si suggerisce: apparecchiatura di ascolto, collegata alla pulsantiera dei campanelli, addebitata a tutti gli aventi diritto e ripartita in base al disposto dell’Art. 1123 cod. civ.; i fili di collegamento ai vari piani dovranno essere addebitati con ripartizione ai sensi dell’Art. 1124 cod. civ., in pratica essendo quella la ratio della tabella: più ti allontani dal piano terra più paghi; gli apparecchi di ascolto situati all’interno degli appartamenti dovranno essere addebitati esclusivamente al condomino proprietario di quella unità immobiliare.
La Suprema Corte ha affermato che l’installazione di un impianto citofonico, come del resto quello per i campanelli, per consentire il collegamento con l’esterno e l’apertura automatica del portone, non può essere considerata come una imposizione di servitù a carico del condominio in generale, ma rappresenta un uso legittimo di un bene comune, a norma dell’Art. 1102 cod. civ. (Cass. 22 giugno 1982, n. 3795).
Produzione combinata di elettricità e calore.
In questo processo, l’elettricità ed il calore vengono prodotti con un unico sistema.
Questo permette un notevole risparmio sia su un piano economico che una notevole riduzione di emissione di anidride carbonica.
È un sistema che ha diffusione – seppure ancora limitata rispetto alla effettiva possibilità – nelle centrali termoelettriche, recuperando l’acqua calda o il vapore, e si ottiene un grande risparmio rispetto alla produzione separata dell’energia termica e dell’energia elettrica.
È palese che, in una centrale di cogenerazione, il calore di scarico per la produzione dell’energia elettrica è molto alto e permette uno sfruttamento ed un utilizzo economicamente importante.
Il calore permette di produrre vapore per il teleriscaldamento, per la produzione di acqua calda ed anche per produrre ancora una parte di energia elettrica.
Con questo sistema si può recuperare energia termica, diversamente non utilizzata ed anzi dispersa, ed un risparmio nella distribuzione dell’energia elettrica unita ad una apprezzabile riduzione di inquinamento atmosferico.
Considerando che i vantaggi della cogenerazione derivano da una produzione combinata, è indispensabile che lo sfruttamento dell’energia termica avvenga in prossimità dei luoghi in cui viene prodotta, in quanto la suddetta energia termica non può essere trasportata a grandi distanze in modo economicamente valido.
Già molte città sfruttano la cogenerazione ed il teleriscaldamento, anche se il sistema è ancora relativamente nuovo.
Esistono varie tecnologie impiegate, e si è rilevato che in media il risparmio è di circa il trenta per cento.
In questi periodi si utilizza in massima parte il combustibile fossile – gas di sintesi, biomasse, biogas – e questo produrrà ulteriori risparmi, sia nazionali che agli utenti della cogenerazione.
Contitolarità di un diritto reale.
La comunione comporta un diritto di proprietà pro indiviso, in forza del quale ogni soggetto è proprietario del tutto, ma pro quota.
Ogni comunista è pertanto proprietario del tutto, ma questo stato di fatto cesserà nel momento in cui viene richiesta la divisione a norma dell’Art. 1111 cod. civ..
Il condominio, invece, è caratterizzato da una proprietà esclusiva di più parti distinte, nonché dall’uso in comune di talune parti del fabbricato che servono per il godimento e l’esistenza stessa della proprietà esclusiva.
Inoltre, nella comunione esiste un rapporto destinato a cessare, in quanto ha necessariamente durata limitata, nel condominio il rapporto è destinato a durare fino a quando esisterà il fabbricato.
Gli articoli di legge della comunione – dal 1100 al 1116 cod. civ. compresi – sono spesso utilizzati anche per la gestione del fabbricato in condominio, in quanto esso è un tipo particolare di comunione anzi, alcuni di essi sono simili.
Una differenza sostanziale è rappresentata dal fatto che nella comunione le quote si presumono uguali (Art. 1101 cod. civ.) mentre nel condominio questa uguaglianza non esiste.
Per la ripartizione delle spese condominiali, all’assemblea è consentito provvedere ad una ripartizione provvisoria delle spese – a titolo di acconto e salvo conguaglio – mentre nella comunione tale ripartizione provvisoria non è consentita, in quanto la norma di ogni singola contribuzione è prevista uguale, a norma dell’Art. 1101 cod. civ. (Cass. 20 maggio 2011, n. 11264).
Anche per la convocazione dell’assemblea nella comunione è consentita una forma diversa rispetto al condominio.
Infatti nella comunione è sufficiente che gli interessati ne siano informati, poiché i due articoli – 1105 e 1108 cod. civ. - non prevedono particolari formalità, se non la preventiva conoscenza dell’ordine del giorno e la decisione della maggioranza (Cass. 3 novembre 2008, n. 26408).
Il succitato Art. 1105 cod. civ. dispone che tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune, e pone l’ovvia condizione che tutti siano stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione e che – a norma dell’Art. 1106 cod. civ.- siano fissati i limiti delle sue prerogative (Cass. 27 giugno 2007, n. 14826).
Due articoli della comunione sono spesso utilizzati nel condominio e rivestono particolare importanza.
L’Art. 1102 cod. civ. – Uso della cosa comune – consente al singolo condomino un migliore o maggiore uso delle parti comuni condominiali purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne un utilizzo uguale.
Può anche apportare delle modifiche a dette parti comuni, a proprie spese, ma non può estendere il proprio diritto in danno degli altri condomini.
Infiggere dei chiodi su un muro comune, introdurre un nuovo scarico nella tubazione esistente, aprire o chiudere porte o finestre, allargare l’apertura del portone dell’autorimessa, l’installazione di una antenna privata sul tetto condominiale, l’installazione di un ascensore ad opera di un singolo o di alcuni condomini (Cass. 12 febbraio 1993, n. 1781), l’installazione di contatori su un muro comune, l’installazione di inferriate alle finestre private, inserire uno scarico o una canna fumaria su un muro comune, altro non sono che alcuni limitati esempi di applicazione o ricorso all’Art. 1102 cod. civ. da parte del singolo condomino o di alcuni in minoranza.
Giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che, se l’attività svolta non è in contrasto con le stesse disposizioni dell’Art. 1102 cod. civ., fare ricorso allo stesso, per meglio godere della propria unità immobiliare, non necessita neppure di preventivo benestare assembleare.
Altro articolo della comunione, richiamato anche negli articoli del condominio, è l’Art. 1107 cod. civ..
Esso è esplicitamente richiamato dall’Art. 1138 cod. civ. relativamente alla impugnativa del regolamento di condominio.
Mentre per l’impugnativa delle deliberazioni condominiali si deve fare ricorso alle disposizioni di cui all’Art. 1137 cod. civ., nel caso un condomino intenda impugnare una norma del regolamento, deve fare ricorso all’Art. 1107 cod. civ..
I due articoli ben poco si discostano l’uno dall’altro, ed entrambi prevedono che l’impugnativa debba essere presentata entro trenta giorni dalla deliberazione o dalla comunicazione per gli assenti.
L’unica differenza è rappresentata dal possibile risultato della impugnativa, in quanto l’adita autorità giudiziaria deciderà con unica sentenza sulle opposizioni proposte.
Passaggio di vapore acqueo o liquido.
Quello della condensa è un problema che si collega ai muri perimetrali esposti a nord.
La presenza di umidità e di condensa nelle murature e negli ambienti sono fra le cause principali di degrado e di insalubrità di un fabbricato.
Esse si manifestano attraverso macchie, che sono vere e proprie alterazioni biologiche, muffe, distacco o esfoliazione degli intonaci e dei rivestimenti, degradazione di malte e mattoni con relativo sgretolamento da reazioni chimiche, efflorescenze.
Questi sono tutti segnali che possono anche essere indicativi di fenomeni di più vasta portata, quali la stabilità stessa dell’edificio, la putrefazione delle strutture lignee, la disgregazione dei pilastri e delle fondazioni.
Generalmente in corrispondenza dei muri esterni posti a nord, delle pilastrature in cemento armato poste in angolo – sempre a nord – e delle travi pure in cemento armato poste nella parte alta degli ambienti, può verificarsi in modo più appariscente il fenomeno della condensa, che normalmente non si nota nella parte esterna del muro perimetrale, ma produce piccole macchie scure e stillicidio nella parte interna dei locali.
Tutto questo è causato dal ponte termico che viene a crearsi fra le strutture esterne fredde poste a nord e le pareti calde poste all’interno dell’unità immobiliare, e in particolare se esiste scarso ricambio di aria.
Infatti, se all’interno di queste murature o pilastrature esistono locali comuni, seppur coperti, ma non chiusi e con notevole ricambio d’aria, il fenomeno della condensa non si verifica.
Nei condominii il fenomeno si verifica e si è aggravato da quando molte unità immobiliari – specialmente sul lato nord del condominio, dove il ponte termico è maggiore – hanno le finestre dotate di doppi vetri o anche di doppi telai.
Essendoci scarso o nullo ricambio d’aria, l’umidità presente negli ambienti si condensa in corrispondenza delle pareti fredde – quelle esterne – e crea macchie che in breve tempo anneriscono, deturpando intonaci e carte da parati, e formando anche stillicidio e copiose tracce di acqua sul pavimento.
Per verificare se si tratta solo di condensa, e non di perdite di altro genere, è sufficiente pulire le macchie con uno straccio: la parte nera della macchia scompare in fretta, e raschiando leggermente la tinteggiatura e l’intonaco si noterà che la struttura sottostante risulterà asciutta.
Ripetutamente la Cassazione è intervenuta sul problema e si è sempre espressa in modo univoco.
L’umidità conseguente ad inadeguata coibentazione delle strutture perimetrali del condominio, può integrare, se sia compromessa l’abitabilità ed il godimento del bene, grave difetto del fabbricato ai fini della responsabilità del costruttore ex Art. 1669 cod. civ..
Tuttavia, qualora il fenomeno sia causa di danni ai singoli condomini, nei confronti di costoro è responsabile in via autonoma ex Art. 2051 cod. civ. il condominio, che è tenuto, quale custode, ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria (Cass. 15 aprile 1999, n. 3753).
Non sempre, però, la responsabilità dei danni è imputabile al condominio, perché è indispensabile accertare sempre il nesso causale tra evento e danno.
Non esiste, infatti, la responsabilità del condominio se le cause della condensa siano imputabili all’incapacità delle pareti di smaltire il vapore acqueo, con conseguente formazione di umidità, ed il fenomeno sia causato dall’eccessiva temperatura interna ed uno scarso ricambio d’aria nei locali interessati.
Alla luce di quanto riportato, è il caso di affermare:
1) se il danno è originato da inadeguata coibentazione termica, legittimato ad agire è l’amministratore, in quanto si configura un atto conservativo rientrante nei suoi poteri, ex Art. 1134 cod. civ.;
2) se i vizi riscontrati non rientrano nella casistica di cui all’Art. 1669 cod. civ., la legittimazione attiva spetta solo ai singoli condomini direttamente interessati, e l’amministratore potrebbe agire solo su specifico mandato;
3) se a subire i danni sono solo parti di proprietà esclusiva, il singolo condomino potrà agire nei confronti del condominio ex Art. 2015 cod. civ..
A volte il problema della condensa viene annullato o drasticamente ridotto praticando un foro – chiuso da una griglia – nel muro esterno comune, in modo da creare, almeno nella parte alta della parete, un opportuno ricambio d’aria, e ciò è condominialmente possibile a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
Nel caso di impianti di condizionamento autonomi, è necessario smaltire il vapore acqueo che si viene a creare, vapore acqueo chiamato anche acqua di condensa, ed è indispensabile prevedere la possibilità di raccoglierlo e di smaltirlo, senza creare stillicidio a danno dei vicini.
Apparecchio fornito in genere di organo refrigerante per condizionare l’aria negli ambienti.
Da diversi anni il problema della installazione dei condizionatori d’aria si è affacciato in ambito condominiale.
In altra parte esamineremo il condizionamento condominiale.
I condizionatori privati e singoli possono essere di due tipi: portatili o fissi.
Nessun problema se il condomino intende avvalersi di un condizionatore portatile, che necessita semplicemente di un foro nel vetro della propria finestra, per inserirvi la presa d’aria, con possibilità di spostare l’apparecchio da un locale all’altro, e quindi senza creare problemi nell’ambito condominiale.
Diversa situazione si verifica con l’installazione di una apparecchiatura fissa dotata di motore esterno.
Questo motore può essere fissato su una parete o su un balcone, ma in tal caso si concretizzano tre diverse problematiche: la prima per l’estetica; la seconda per il rumore; la terza per la condensa.
La normativa a cui ci si deve adeguare è quella posta dall’Art. 1122 cod. civ. che impedisce, anche all’interno di una proprietà esclusiva, ogni opera che arrechi danno alle parti comuni del fabbricato, e non vi è dubbio che l’installazione di una apparecchiatura sulla facciata o sul balcone leda in modo apprezzabile l’estetica del fabbricato.
A tal proposito, possono essere d’aiuto al condomino sia il disposto di cui all’Art. 1102 cod. civ. che quello dell’Art. 1120 cod. civ..
L’Art. 1102 cod. civ. autorizza ciascun condomino ad utilizzare la cosa comune purché detto utilizzo non ne alteri la funzionalità e non ne impedisca la contestuale utilizzazione da parte degli altri condomini.
L’Art. 1120 cod. civ. consente al condomino, previa apposita autorizzazione condominiale – con delibera approvata dalla maggioranza di cui all’Art. 1136 cod. civ., quarto comma – di apportare modifiche che rendano la cosa comune più redditizia o di più comoda fruizione.
È importante tenere presente che l’utilizzazione di parti comuni, con impianti a servizio esclusivo di una singola unità immobiliare, comporta – come già detto – il rispetto delle regole dettate dall’Art. 1102 cod. civ., ma anche dell’osservanza delle norme del codice interno di distanze, affinché non vengano violati i diritti degli altri condomini sulla loro parte (Cass. 5 dicembre 1990, n. 11695; 18 giugno 1991, n. 6885).
Il Colangelo sintetizza così il principio in merito alle norme sulle distanze legali: esse trovano applicazione ma solo nei limiti della loro compatibilità con quelle previste in materia di condominio.
Non si applicano, invece, quando si tratta di dotare le proprietà esclusive – che ne siano prive – di impianti ed attrezzature che sono indispensabili, o anche solo essenziali, per una più confortevole ed igienica abitabilità.
In tal caso, però, la possibilità di non applicabilità deve essere limitata ai soli casi in cui, tenuto conto dello stato dei luoghi e delle strutture del condominio, non sia possibile installare in altro modo impianti e canalizzazioni, obbligando così il comproprietario a ledere il rapporto di vicinato.
L’adozione di accorgimenti tecnici atti ad evitare nel modo migliore i possibili inconvenienti potranno essere sufficienti a legittimare l’opera, verificando comunque sempre la compatibilità delle norme sulle distanze con quelle previste, e l’essenzialità dell’impianto (Cass. 11 febbraio 1997, n. 1261).
Le apparecchiature sono però abbastanza rumorose, anche se meno che in passato, e quindi – oltre al problema rappresentato dalla distanza – può sussistere una immissione acustica contraria al diritto di quiete degli altri condomini, specialmente se l’impianto funziona anche nelle ore notturne.
Ciascun condomino, non il condominio – e per esso l’amministratore – potrà in tal caso agire singolarmente in via giudiziale contro chiunque ritenga artefice di tale compromissione.
E cioè per immissione di rumori di cui all’Art. 884 cod. civ., se gli stessi superano di almeno tre decibel la rumorosità di fondo di quella zona (Cass. 6 gennaio 1978, n. 38).
In tal caso non è possibile che il condomino proprietario dell’impianto possa invocare l’ottenuta autorizzazione condominiale, che, in ogni caso, riguardava il possibile danno estetico alla facciata, e non il danno al singolo per immissione di rumori.
Esiste, infine, il problema della condensa, che si estrinseca nel continuo stillicidio quando l’impianto è in funzione.
Il condomino responsabile dovrà pertanto far convogliare la condensa in contenitori mobili, posti ad esempio sul balcone, da svuotare con frequenza, oppure collegare lo scarico del condizionatore entro una vicina grondaia o in un pluviale.
Edificio oggetto di diritti di comproprietà.
Esso è un ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica, ed è composto da proprietà individuali che comprendono diverse parti comuni.
Ma il condominio non è costituito da parti comuni autonome, in quanto esse sono un accessorio della proprietà esclusiva.
Si può quindi affermare che il condominio è composto da diverse unità immobiliari legate assieme da svariate parti comuni, che le sostengono, le proteggono, le coprono e senza le quali il condominio stesso non esisterebbe.
Infatti, ciò che caratterizza il condominio è la contitolarietà del diritto di proprietà delle parti comuni, e la specifica funzione di dette parti è rappresentata dalla possibilità che esse offrono per l’utilizzazione ed il godimento delle parti individuali.
Per la costituzione e la nascita del condominio è necessaria l’esistenza di un fabbricato diviso in parti orizzontali appartenenti almeno a due comproprietari.
Perché si costituisca il condominio non è necessario un atto particolare: sarà sufficiente che l’originario proprietario venda, ad individui diversi, delle singole unità immobiliari.
Per la costituzione, si ribadisce, non è necessario un atto formale, ma debbono esistere parti comuni destinate al servizio e godimento delle parti private (Cass. 12 novembre 1998, n. 11407).
Ed è irrilevante che i nuovi proprietari siano persone fisiche, persone giuridiche od altro.
Il condominio si costituisce ipso iure nel momento in cui si realizza il frazionamento da parte dell’unico originario proprietario, con la vendita – in proprietà esclusiva – di piani o porzioni di piano, contestualmente alle parti comuni (Cass. 19 febbraio 2004, n. 3257).
A questo fine non è importante la esistenza di un atto pubblico di trasferimento – in seguito poi necessario – della proprietà frazionata di parte dell’edificio, quanto l’esistenza di una scrittura privata (Cass. 2 febbraio 1974, n. 299).
La differenza sostanziale esistente fra la comunione ed il condominio consiste nel fatto che la comunione implica un diritto di proprietà di alcuni su di un determinato bene pro indiviso; il condominio è caratterizzato dalla proprietà esclusiva di unità immobiliari, aventi in comune pro indiviso delle parti del fabbricato in godimento ed uso.
Inoltre, e non è di secondaria importanza, nella comunione le quote si presuppongono uguali, mentre nel condominio tale presupposto non esiste.
Non è errato affermare che il condominio è una specie particolare di comunione tesa al godimento ed alla conservazione delle parti comuni in esso esistenti.
L’Art. 1123 cod. civ. prevede che possano esistere parti comuni in uso solo ad una parte dei partecipanti, ma non tutte.
La costituzione ex lege del cosiddetto condominio parziale si realizza quando una parte comune, per logiche caratteristiche strutturali e funzionali, è al servizio di una sola parte del condominio (Cass. 28 aprile 2004. N. 8136).
Gli Artt. 61 e 62 disp. att. e trans. cod. civ. prevedono la possibilità, in casi particolari, dello scioglimento di un iniziale condominio in condominii autonomi.
Ciò è possibile anche in presenza di parti comuni che restino tali per tutti.
Esiste anche il condominio minimo, formato da due soli appartamenti, al quale si applicano le norme della comunione ove non sia possibile applicare quelle del condominio.
Nel caso, invece, di una pluralità di fabbricati che abbiano in comune solo alcune parti, necessita applicare le norme sul condominio nell’ambito di ogni singolo fabbricato e fare ricorso agli Artt. 1117bis cod. civ. e 67 disp. att. e trans. cod. civ. per le cose comuni al supercondominio.
Questo significa che per le parti comuni di ogni singolo fabbricato si dovrà fare ricorso alle disposizioni normali, come per ogni immobile a se’ stante.
Per la gestione ed il godimento di quelle parti che sono comuni ai vari edifici, se le unità immobiliari non sono superiori a sessanta – vedi Art. 1117bis cod. civ. – si usano gli stessi succitati articoli; con un numero superiore di partecipanti si dovrà fare ricorso al disposto dell’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ..
Questo articolo, e per il fatto che menziona partecipanti e non unità immobiliari, nonché per la disposizione del suo terzo comma – un po’ machiavellico – avrà certamente necessità di ricorsi alla Magistratura.
Comproprietario di unità immobiliare in condominio.
Egli è, quindi, una persona o una ditta, o una società che è titolare di una unità immobiliare, inserita assieme ad altre, in un fabbricato, e tenute unite fra loro da tante parti comuni.
Fuori dei limiti di proprietà, ogni condomino ha diritti e doveri, su dette parti comuni, proporzionali ai suoi valori millesimali.
Indipendentemente dalla ampiezza, importanza e posizione planimetrica dell’unità immobiliare, in assemblea egli potrà esprimere un voto che peserà in funzione dei millesimi rappresentati.
Potrà sembrare strano che una piccola cantina di un condomino abbia diritto ad un voto “uguale” a quello di una grossa proprietà, ma così vuole l’Art. 1136 cod. civ. e la differenza unica – peraltro non da poco – riguarda i due diversi valori millesimali.
Semplicemente, questo è l’aspetto rilevante del condominio: tutti hanno diritto di voto e li differenzia solo il diverso valore delle varie proprietà.
E quando si parla di valore, non ci si sofferma sul valore economico delle unità immobiliari che compongono il condominio, ma al “peso” che esse hanno, le une rispetto alle altre.
Questo peso, queste differenze, si esprimono nell’ambito assembleare e nella ripartizione delle spese che gravano su ogni unità per la gestione, uso e manutenzione di tutte le parti comuni condominiali.
I diritti assembleari – per indicare maggioranze costitutive e maggioranze deliberative – sono regolamentate dall’Art. 1136 cod. civ., e le ripartizioni gestionali sono regolamentate dall’Art. 1123 cod. civ. – in massima parte – nonché dagli Artt. 1124, 1125, 1126 cod. civ..
Esiste, poi, l’Art. 1102 cod. civ. che – per un miglior godimento della sua proprietà – consente ad ogni condomino di servirsi delle parti comuni in modo anche superiore o diverso rispetto al dovuto, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca eguale uso agli altri comproprietari.
Quando nel fabbricato esistono più di otto condomini, ogni comproprietario ha l’obbligo di contribuire alla nomina di un amministratore, a cui verrà demandata la gestione di tutte le parti comuni.
Il detto amministratore assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, sia nei confronti dei terzi, sia come unico referente per la gestione delle parti comuni, che dei pagamenti (Cass. 17 febbraio 2014, n. 3636).
Ogni condomino, per la disciplina e regolamentazione delle parti comuni, dovrà attivarsi per esprimere il proprio parere o dichiarare l’accettazione di regole imposte.
Ciò perché, se il Regolamento di condominio, ove i condomini siano più di dieci, potrà essere contrattuale, il condomino lo avrà, di fatto, accettato con la stipula del rogito.
Diversamente dovrà rendersi parte attiva – assieme agli altri partecipanti – per studiare ed approvare un regolamento assembleare che – disciplinando l’uso delle parti comuni – migliori anche la vivibilità delle proprietà private.
Nel caso di fabbricati in condominio, con dieci o meno partecipanti, il regolamento non è obbligatorio, ma ciò non impedisce che venga egualmente predisposto ed approvato, ed avrà eguale validità.
L’assemblea è il luogo deputato per esprimere pareri e volontà, spesso contrastanti, e di conseguenza ogni condomino ha diritto di partecipare e di esprimere le proprie convinzioni.
Ha sempre diritto di intervenire e deve, quindi, essere messo in condizione di poterlo fare, tramite avviso di convocazione ricevuto nei tempi dovuti e con ordine del giorno che giustifichi le motivazioni dell’assemblea (Cass. 26 settembre 2013, n. 22047).
Nel caso un condomino sia impossibilitato a partecipare all’assemblea, o preferisca essere rappresentato per delega, a norma del nuovo Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ., può rilasciare delega scritta ad un suo delegato.
In tal caso, i rapporti tra il rappresentante intervenuto in assemblea ed il condomino rappresentato, sono normalmente disciplinati dalle regole del mandato (Cass. 30 gennaio 2013, n. 2218).
La stessa sentenza precisa che nel caso il condomino rappresentato si ritenga falsamente o impropriamente rappresentato, egli è il solo ad essere legittimato a far valere eventuali vizi della delega.
È stato anche affermato che se l’assemblea ha approvato il rendiconto consuntivo e la deliberazione è divenuta inoppugnabile, anche il condomino contrario è tenuto al pagamento del dovuto, pur in presenza di contestazione fra il condominio ed un fornitore.
Se dalla successiva gestione condominiale rimanessero disponibili somme non pagate al fornitore, il condominio – e per esso l’amministratore – sarà tenuto a restituire l’esubero di cassa in base al rendiconto (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2049).
Succede spesso che il condomino non provveda al pagamento delle quote condominiali – indipendentemente da contestazioni fra il condominio ed il fornitore – e che l’amministratore si trovi nella necessità di richiedere decreto ingiuntivo, a norma dell’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ..
Il condomino debitore, se non ha impugnato le deliberazioni assembleari che hanno ritualmente e legalmente approvato i conteggi, non potrà sostenere che i conteggi stessi risultano errati (Cass. 19 dicembre 2012, n. 23447).
E nella ipotesi che il condomino moroso intenda opporsi al decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, neppure potrà far valere questioni relative alla validità della delibera assembleare, ma solo questioni riguardanti l’efficacia della medesima (Cass. 12 novembre 2012, n. 19605).
Affittuario, locatario.
L’Art. 10 della legge 392/78 in pratica ripete quanto già affermava l’Art. 6 della legge 841/73 prevedendo il diritto del conduttore di partecipare – con diritto di voto ed in sostituzione del proprietario – alle assemblee condominiali convocate per deliberare sui problemi di riscaldamento e condizionamento.
La nuova legge – denominata “legge sull’equo-canone” – è più estensiva e concede, appunto, al conduttore il diritto di voto sul servizio di riscaldamento e condizionamento e, senza diritto di voto, alle assemblee convocate per discutere sulle altre problematiche gestionali del condominio.
La suddetta legge prevede, con norma eccezionale, la possibilità di sostituzione legale del conduttore al posto del proprietario nelle assemblee condominiali convocate per deliberare sulle spese e sulle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento dell’aria (Cass. 22 aprile 1992, n. 4802).
Questa possibilità sostitutiva, non ha comportato modificazioni alle disposizioni dell’Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. relativamente alla comunicazione dell’avviso di convocazione, con la conseguenza che tale avviso deve essere inviato al condomino e non anche al conduttore.
La ratio della legge si ravvisa nel preminente interesse del conduttore non soltanto al controllo delle spese poste a suo carico ma in particolare sulle modalità di erogazione del calore – con diritto di voto – e sulla verifica delle altre spese condominiali – senza diritto di voto –.
A seguito della legge 392/78 si è molto discusso su tre problemi a proposito della convocazione all’assemblea, alla possibilità per l’amministratore di agire direttamente nei confronti del conduttore ed, infine, se il suddetto abbia la possibilità di impugnare personalmente le deliberazioni davanti all’autorità giudiziaria.
Il giudice di legittimità si è espresso chiaramente affermando che la convocazione all’assemblea deve essere inviata al condomino proprietario, il quale è tenuto ad informare il proprio conduttore.
Relativamente alla possibilità per l’amministratore di agire direttamente nei confronti del conduttore per il recupero di quote condominiali non pagate, la Suprema Corte ha ripetutamente escluso l’azione diretta del condominio nei confronti del conduttore stesso (Cass. 13 gennaio 1995, n. 384).
Il concetto è confermato più recentemente dalla Suprema Corte – 9 dicembre 2009, n. 25781 – in quanto, per le spese condominiali non pagate, il debitore è sempre il condomino locatore, che può rivalersi sul conduttore.
L’amministratore del condominio è – a tal fine – legittimato solo nei confronti del condomino proprietario.
Lo stesso concetto era stato ribadito anche anteriormente alla data succitata (Cass. 24 giugno 2008, n. 17201).
L’amministratore ha, quindi, diritto di agire solo nei confronti del condomino per la riscossione dei contributi, escludendo ancora l’azione diretta nei confronti del conduttore.
A questo proposito ricordiamo che la citata legge 392/78 prevede la risoluzione del contratto di locazione a favore del solo locatore, se il conduttore non gli rimborsa le spese pagate al condominio in sua vece.
Per quanto riguarda, infine, la possibilità per il conduttore di impugnare direttamente le delibere condominiali, essa è esclusa, poiché legittimato alla impugnazione resta il condomino.
Se il legislatore avesse inteso conferire al conduttore il diritto di impugnare le deliberazioni lo avrebbe detto in modo chiaro anche nei novelli Artt. 1136 e 1137 cod. civ..
Una recente sentenza, nel puntualizzare che il potere di impugnare le deliberazioni compete ai titolari di diritti reali, anche in caso di locazione dell’unità immobiliare, ad esclusione nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e condizionamento dell’aria, per la quale, la decisione e la facoltà di ricorrere al giudice, sono attribuite al conduttore (Cass. 23 gennaio 2012, n. 869).
In forza delle succitate considerazioni, ne consegue che il conduttore non deve essere convocato alle assemblee condominiali dall’amministratore, ma deve essere convocato dal proprio locatore (Cass. 3 aprile 1990, n. 2762).
Ed il locatore avrà diritto di richiedere il ristoro delle spese sostenute per conto del conduttore, comprese ovviamente le spese di riscaldamento, poiché tale diritto non deriva dall’assemblea, ma dal servizio goduto che è solo a vantaggio dello stesso conduttore (Cass. 4 dicembre 1986, n. 7179).
Conduttore che ha la possibilità di partecipare alle assemblee ma non di impugnare le deliberazioni approvate (Cass. 12 febbraio 1988, n. 1515).
Nel caso però di edifici non in condominio, non esiste obbligo per il proprietario del fabbricato di convocare in assemblea i conduttori.
Conseguentemente non esiste ne’ inadempimento ne’ un obbligo di conseguente risarcimento di danni in confronto del conduttore per la mancata convocazione assembleare (Cass. 3 agosto 1995, n. 8484).
Nell’ambito condominiale, il regolamento vincola il condomino e di conseguenza anche il conduttore, e nel caso di mancato rispetto delle disposizioni regolamentari, il condominio può agire direttamente contro chi occupa l’unità immobiliare (Cass. 20 giugno 2012, n. 10185).
Nell’ipotesi di violazioni al regolamento condominiale, il condominio, ovvero l’amministratore, può richiedere la cessazione della violazione stessa, sia al conduttore che al proprietario locatore (Cass. 8 marzo 2006, n. 4920).
Nel momento in cui il proprietario di una unità immobiliare in condominio concede in locazione il proprio bene, cede anche l’uso ed il godimento di tutte le parti comuni (Cass. 29 aprile 2002, n. 6221), non può, però, concedere diritti e facoltà maggiori di quelli di cui dispone sulle parti comuni (Tribunale di Modena, 30 maggio 2012).
Nel caso il conduttore usi i servizi ed i beni condominiali in modo illegittimo, i condomini – e per essi l’amministratore – possono agire nei confronti del conduttore stesso (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2483).
Dopo la Riforma del Codice – giugno 2013 – si può verificare la situazione del conduttore che non intende continuare ad usufruire dell’impianto di riscaldamento o di raffrescamento dell’aria.
Il quarto comma del novello Art. 1118 cod. civ. lo concede con ragionevole facilità, ma non tutte le Regioni Italiane sono disponibili ad acconsentire al distacco.
In ogni caso l’eventuale domanda di distacco o di esenzione potrà essere avanzata solo dal condomino locatore e non dal conduttore.
Generalmente queste situazioni devono esser chiarite e gestite al momento della stipula del contratto di locazione, con rinuncia – ad esempio – alla stipula stessa.
Considerando però che la Riforma e la data della sua entrata in vigore possono essere intervenute a contratto stipulato, sono situazioni da gestire con attenzione.
Ricordando, sempre, che l’Art. 1118 cod. civ. è derogabile, e che il locatore, in caso di accettazione condominiale della rinuncia, rimarrebbe sempre proprietario degli impianti.
Organo o riunione collegiale di più persone con funzioni varie. L’ultimo comma dell’Art. 1130bis cod. civ. dispone che, nei fabbricati con almeno dodici unità immobiliari, l’assemblea possa nominare almeno tre condomini aventi funzioni consultive e di controllo. Questa figura di consigliere condominiale – pur non essendo considerata nel nostro ordinamento giuridico – è spesso presente, in modo informale, in molti condominii. Eppure già in passato era stata prevista la nomina di un consiglio di condominio. Infatti l’Art. 16 del r.d.l. 15 gennaio 1934, n. 56 – peraltro mai applicato e non confermato nel vecchio codice – prevedeva la nomina di un consiglio di condominio, che avrebbe dovuto coadiuvare l’amministratore nella gestione dell’immobile. Era, però, previsto per i grossi fabbricati e nello spirito del legislatore avrebbe dovuto avere funzioni consultive, di controllo ed anche di conciliazione delle vertenze fra i condomini. Successivamente, fino alla recente Riforma, la figura del consigliere non ha più avuto alcuna ufficialità, fermo restando che i vari regolamenti condominiali potevano prevedere la nomina dei consiglieri ed indicarne il numero. Normalmente l’incarico era annuale, come quello dell’amministratore, ed aveva incarichi di sorveglianza diretta del fabbricato e consultiva. Con l’avvento della figura professionale dell’amministratore, uno dei problemi più sentiti era ed è quello della visione diretta dei disservizi o degli inconvenienti. A questo suppliva validamente chi risiedeva nel condominio e, nel caso di un edificio con varie scale, era opportuno avere un consigliere per scala, il cosiddetto caposcala. Fra le altre incombenze, e fino all’avvento del terzo responsabile, il consigliere era addetto al controllo – se non alla gestione – dalla centrale termica, al carico periodico del combustibile per il riscaldamento, alla sostituzione delle lampadine, ecc.. Erano limitati incarichi fiduciari, di poco impegno, che, in ogni caso, miglioravano – collaborando con l’amministratore – tutta la vita condominiale. Ora la figura del consigliere, pur non essendo obbligatoria, è considerata possibile dall’articolo di legge, e per un certo verso, ha maggiore ufficialità che non negli anni passati. La funzione resterà quella di collaborare con l’amministratore, controllare tutta la gestione e – prima di sottoporre il rendiconto all’assemblea – verificare i vari capitoli di spesa. È ben vero che, con le nuove disposizioni, tutti i condomini ed i titolari di diritti reali avranno sempre accesso a tutti i documenti contabili, ma questo potrà avvenire in vari momenti della gestione annuale, difficilmente a fine gestione e con animo di verifica e di controllo definitivo prima della chiusura della contabilità. In definitiva, il consiglio dei condomini può essere considerato come un organo ausiliario dell’amministratore, del quale – pur collaborando – ne controlla l’operato. La costituzione del consiglio, produrrà certamente degli aspetti positivi per la corretta gestione del condominio, e non comporterà oneri a carico dei condomini stessi, poiché l’attività dello stesso sarà gratuita. Essa avrà normalmente durata annuale ed ogni componente potrà essere confermato od essere sostituito. Per la nomina non necessitano particolari quorum deliberativi, e generalmente l’incarico sarà volontario. Una rotazione sarà possibile e magari anche gradita, ma è preferibile che essa non sia radicale, ma progressiva. Così, negli anni, ci sarà sempre almeno un componente del consiglio con una certa esperienza, tanto più opportuna in caso di mandato ad un nuovo amministratore, così il condominio avrà un passaggio meno traumatico. Da valutare eventuali responsabilità ricadenti sui consiglieri, ma si ritiene che non ne esistano, anche considerato che sarà un incarico gratuito e di collaborazione.
Contratto con cui due parti convengono di regolare i rapporti di debito e credito sorgenti fra loro.
Fino ad alcuni lustri fa non esisteva il problema: vari amministratori facevano confluire tutti i versamenti delle quote condominiali, dei fabbricati in amministrazione, su un conto corrente unico.
A parte comportamenti e pensieri non corretti, era più facile poter pagare le varie fatture di qualsiasi condominio, in quanto la disponibilità economica sul conto era quasi sempre garantita.
Non era comunque una prassi logica, corretta ed anche onesta.
Da diversi anni si è cambiato atteggiamento e modo di gestire i denari dei singoli condominii, ed ora un preciso articolo di legge – Art. 1129 cod. civ., inderogabile - impone un conto corrente per ogni singolo fabbricato, e non più intestato all’amministratore, ma al condominio stesso.
Anche questo era un problema, poiché – spesso – era lo stesso istituto bancario che imponeva il conto corrente intestato all’amministratore per conto di …. .
E ciò semplicemente perché il condominio non aveva personalità giuridica.
Dalla entrata in vigore della Riforma, l’amministratore – pena la possibile revoca – deve obbligatoriamente far transitare tutte le movimentazioni di denaro sul conto corrente intestato al condominio, anche se il condominio continua a non avere personalità giuridica.
Non solo, ma ogni condomino avrà diritto, durante qualsiasi periodo dell’anno gestionale, di prendere visione delle movimentazioni e richiederne copia, e questo tramite l’amministratore.
In pratica – e tranne casi particolari – ogni condomino potrà richiedere visione e copia delle movimentazioni direttamente all’amministratore, senza doversi recare presso l’istituto di credito.
Non dare accesso alla visione dei movimenti bancari o non utilizzare il conto corrente per tutte le operazioni condominiali, potrebbe portare alla revoca dell’amministratore.
In presenza di decine di libretti di assegni, per distrazione, per fretta di effettuare un pagamento od altro, potrà capitare di utilizzare un assegno di un conto invece di quello dovuto, ma in tal caso – dovendo registrare l’operazione contabile entro trenta giorni dalla esecuzione – Art. 1130 cod. civ., punto sette – l’involontario errore deve necessariamente emergere e lo si deve sanare immediatamente.
Errori ripetuti o non immediatamente sanati possono essere sinonimi di gestione non corretta e quindi è ben ipotizzabile la richiesta di revoca dell’amministratore.
Il conto corrente condominiale deve anche essere utilizzato in modo da non generare confusione tra il patrimonio del condominio, quello personale dell’amministratore o di altri condomini.
Può ingenerare qualche dubbio l’espressione “patrimonio del condominio” ma essa ci riconduce all’Art. 1135 cod. civ., punto quattro, sugli eventuali accantonamenti per future opere di manutenzione straordinaria.
Lo Scarpa ha addirittura ipotizzato che questo accantonamento possa essere depositato in un conto corrente a se’ stante, disgiunto da quello per le normali spese gestionali.
Egli, infatti, ipotizza che un creditore insoddisfatto e fornitore di opere ordinarie – pulizia, giardinaggio, terzo responsabile, ecc. – possa bloccare l’unico conto corrente condominiale, impedendone, quindi, l’utilizzo per il pagamento di opere straordinarie versate a garanzia del terzo creditore, esecutore di dette opere, ed in tal caso coinvolgendo il disposto dell’Art. 63 dispos. att. e trans. cod. civ., primo e secondo comma.
Invito ai condomini per deliberare su un ordine del giorno.
Diversi articoli di legge ci danno indicazioni e disposizioni per la convocazione alle assemblee, ed esattamente, in elencazione come da Codice Civile:
Art. 1117 ter cod. civ. modificazione delle destinazioni d’uso;
Art. 1117 quater cod. civ. tutela delle destinazioni d’uso;
Art. 1120 cod. civ. innovazioni;
Art. 1136 cod. civ.delibere;
Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. convocazioni straordinarie;
Art. 1117ter cod. civ.
È questo un articolo introdotto dalla Riforma del Codice, legge 220/2012, ed è innovativo anche nei contenuti.
Fino al giugno 2013 per modificare le destinazioni d’uso di una qualsiasi parte comune, necessitava il voto a favore della maggioranza dei partecipanti al condominio e due terzi del valore dell’edificio.
Ora la deliberazione di modifica può essere assunta con i voti favorevoli dei quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore millesimale.
Quindi, diverso il quorum deliberativo e più brigosa e burocratizzata la convocazione dei condomini.
Per prima cosa l’avviso di convocazione contenente l’ordine del giorno dettagliato deve essere affisso per non meno di trenta giorni consecutivi “nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati”.
L’avviso vuole quindi affisso nella guardiola del custode, a lato del casellario postale, nella bacheca condominiale nonché in tutti gli eventuali luoghi di passaggio e di accesso al fabbricato.
Nella prima parte di questo secondo comma nulla si legge a proposito dei condomini esterni, che chiaramente non accedono frequentemente negli spazi condominiali, e non si può pretendere che sia l’eventuale conduttore a farsi portavoce.
Non si pronuncia neppure sui proprietari di negozi o di altri locali di proprietà, i quali – per accedere alle loro unità immobiliari non transitano nei luoghi di passaggio condominiali -.
Ed anche, infine, non dice chi od in che modo sia possibile dimostrare che i “trenta giorni” sono stati rispettati: non la testimonianza dell’amministratore, in quanto è lui che dovrà dimostrare di avere rispettato il lasso di tempo; il custode? non sempre esiste; i consiglieri? non in tutti i condominii esistono….; qualcuno dei condomini che controfirmi la convocazione, per presa visione datata, è forse l’unica soluzione.
Dobbiamo ricordare che, a volte, gli avvisi ed i promemoria esposti nei luoghi di passaggio, vengono strappati o resi illeggibili e qualche condomino distratto potrebbe, seppure in buona fede, non notarlo.
La seconda parte del secondo comma del suddetto Art. 1117 ter cod. civ. dispone anche che, dopo l’affissione per trenta giorni, la convocazione vera e propria debba essere inviata a tutti gli aventi diritto e con un preavviso di “almeno venti giorni prima della data di convocazione”.
È sbagliato suggerire di inviare la convocazione trentacinque giorni prima della data dell’assemblea, a tutti i condomini aventi diritto e – contemporaneamente – affiggere l’avviso nei luoghi di passaggio?
L’articolo prevede l’adempimento di tre cose ben definite, in merito alla convocazione e all’ordine del giorno, e precisamente:
l’ordine del giorno deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione proposta e la nuova destinazione d’uso;
affissione della convocazione in tutti i luoghi di passaggio condominiali, con preavviso di non meno di trenta giorni;
la raccomandata di convocazione deve pervenire con almeno venti giorni di preavviso.
Dovranno essere rispettate tutte ed in modo certo, in quanto – spesso – ci troviamo di fronte a condomini che remano contro .
L’Art. 1117quater cod. civ. prevede una situazione nuova che – almeno in questo modo – non era prevista nelle vecchie normative.
Nel caso nel condominio si svolgano attività che “incidono negativamente ed in modo sostanziale sulla destinazione d’uso delle parti comuni…” messe in atto da un proprietario o da un conduttore, l’amministratore od anche un solo condomino – ed è questa la novità: un solo condomino – possono richiedere la convocazione dell’assemblea.
Già nella vecchia normativa – Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. di cui parleremo in appresso - era previsto che l’amministratore, di sua iniziativa, o perché a ciò invitato da almeno due condomini rappresentanti un sesto del valore del condominio, potessero richiedere la convocazione di una assemblea straordinaria.
Accantonando l’amministratore, che mantiene le sue prerogative ed obblighi, ora ci troviamo davanti alla possibilità che un solo condomino, e senza dover rappresentare particolari valori millesimali, potrà richiedere una convocazione straordinaria, e questa situazione si ripeterà anche nell’Art. 1120 cod. civ..
La puntualizzazione dell’articolo che parla di “negativamente ed in modo sostanziale” non è priva di pericoli.
Chi valuterà questo stato di cose?
L’amministratore? Può non essere in grado di valutarlo….
Se convoca l’assemblea potrà essere tacciato di allarmismo e di spese non autorizzate.
Se non lo fa potrebbe essere accusato di inerzia ed essere considerato corresponsabile di comportamento scorretto, vedi punto quattro dell’Art. 1130 cod. civ..
Il nuovo Art. 1120 cod. civ. è stato ampiamente modificato dalla riforma ed al sesto comma prevede che – avutane richiesta anche da un solo condomino – l’amministratore, entro trenta giorni, dovrà convocare l’Assemblea per discutere e deliberare sull’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo.
In questo caso, così come per il disposto dell’Art. 1117 quater cod. civ., l’Assemblea può essere richiesta da un solo condomino, ma mentre l’Art. 1117 quater cod. civ. da’ all’amministratore la possibilità – magari solo teorica – di valutare la opportunità della convocazione, l’Art. 1120 cod. civ. dispone che uno o più condomini possono chiedere la convocazione e l’amministratore, al massimo, potrà sollecitare solo delucidazioni ed integrazioni sui contenuti della richiesta.
Non avrà, quindi, possibilità di valutazione di alcun genere.
L’Art. 1136 cod. civ., granitico pilastro di svariate normative in materia di condominio, dispone che l’assemblea debba essere riunita sempre in prima e seconda convocazione, dispone quorum costitutivi per entrambe e quorum deliberativi a seconda degli argomenti, e prevede, al penultimo comma, che tutti gli aventi diritto debbano essere convocati.
In altra parte tratteremo i vari quorum e nulla esprimeremo sulla necessità di dover riunire l’assemblea in prima e seconda convocazione, non prima di un giorno solare e non dopo dieci.
Questo articolo è inderogabile, e quindi tutte le disposizioni sono – o dovrebbero essere – tassative.
Dispone che se non risulta chiaramente la data – da ricevute di raccomandate inviate, da ricevute di fax o di posta elettronica – l’assemblea non può deliberare.
Per quasi cinquanta anni le eventuali delibere assunte in assenza di un condomino – perché non convocato – erano assolutamente nulle.
Poi, nell’ottica di uno snellimento della burocrazia, tendente a circoscrivere sempre di più l’ipotesi di nullità, la giurisprudenza si è orientata sull’annullabilità delle deliberazioni e delle assemblee.
Ma, mentre in passato di parlava di nullità assoluta, in seguito si è parlato di sola annullabilità, a condizione che questo provvedimento venisse invocato da colui il quale non era stato invitato.
Diversamente la deliberazione diveniva esecutiva.
Ora il nuovo Art. 1136 cod. civ. modificato in varie parti, al penultimo comma mantiene la stesa dizione del vecchio articolo.
Tutto uguale al passato? No, perché l’Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. che tratteremo, dispone esplicitamente che – in caso di tardiva, omessa o incompleta convocazione – si possa richiedere l’annullabilità dell’assemblea su istanza dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati, e questo invocando l’applicazione dell’Art. 1137 cod. civ., che prevede l’impugnazione entro i classici trenta giorni.
L’Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. – inderogabile – dispone che l’avviso di convocazione deve pervenire almeno cinque giorni prima della data di prima convocazione.
Sui modi di conteggiare i suddetti cinque giorni, la Corte di Cassazione ha sentenziato che il termine di almeno cinque giorni prima va calcolato a partire dal primo giorno immediatamente precedente alla data fissata per l’adunanza, e pertanto va considerato di cinque giorni non liberi prima dell’adunanza stessa.
Quando la legge, per la decorrenza del termine, fa riferimento – come punto fermo – al dies ad quem anziché al dies a quo, il giorno finale, - a cominciare dal quale il termine decorre all’indietro – viene ad assumere il valore di capo o punto fermo iniziale, che non deve essere computato, mentre va considerato nel termine il dies iniziale (Cass. 27 marzo 1969, n. 995).
Il significato poi dell’espressione letterale usata – avviso “comunicato” – si riferisce all’effettiva consegna dell’avviso.
Questa interpretazione è confermata dalla finalità della norma: la consegna tempestiva dell’avviso permette ai singoli di acquisire le informazioni necessarie ed essere disponibili per l’adunanza.
Per la comunicazione la legge non prevede forme particolari, ma ovviamente privilegia la forma scritta, ma Celeste / Scarpa affermano che, nel caso di un supercondominio molto numeroso, è stata ritenuta regolare la convocazione fatta con il sistema dei pubblici proclami (Art. 150 cod. proc. civ.).
È stato, infine, sancito che nel caso di comproprietà pro indiviso – ad esempio coniugi conviventi – dall’avviso inviato ad uno solo di essi si presuppone che anche il secondo comproprietario sia stato informato della convocazione e di tutto ciò che concerne (Cass. 16 febbraio 1996, n. 1206).
Cornice aggettante posta a coronamento di un edificio sia per scopi pratici di riparo che con intendimento estetico.
Strutturalmente esso fa parte del tetto e prosegue oltre i muri o la struttura perimetrale.
Può essere spiovente, quale proseguimento della pendenza del tetto, oppure orizzontale.
Nel caso di cornicione in pendenza la grondaia per la raccolta delle acque piovane sarà appesa al bordo esterno del cornicione e fissata allo stesso con appositi ganci che la sostengono e la contengono.
Nel caso di cornicione orizzontale, esso è appoggiato e sostenuto dal muro perimetrale, con un possibile controbilanciamento all’interno del sottotetto e fissato dalle falde del tetto che lo legano alla struttura.
La grondaia è generalmente contenuta all’interno del cornicione, in apposita nicchia che corre lungo il perimetro, ed oltre che in lamiera zincata, acciaio inox o rame, la grondaia può anche essere in guaina bituminosa.
Questo tipo di gronda non è, invece, possibile nel cornicione in pendenza.
Tutta la struttura del cornicione, con gronde e tubi pluviali, nonché qualsiasi ornamento estetico, è di proprietà condominiale, ed ogni spesa per manutenzione o rifacimento deve essere ripartita in base all’Art. 1123 cod. civ., primo comma.
Area libera scoperta, interna ad uno o più edifici, per ventilare ed illuminare gli ambienti che vi si affacciano.
Essa è comune per destinazione ed ha, appunto, la principale funzione di dare aria e luce agli ambienti del condominio, e sussidiariamente per consentire il passaggio di persone e veicoli (Cass. 3 agosto 1984, n. 4625).
Salvo che non risulti di proprietà esclusiva nel titolo di acquisto, il cortile si intende comune a tutti i condomini – nessuno escluso – anche se il rogito d’acquisto, come spesso succede, non lo menziona esplicitamente.
Esso costituisce parte accessoria dell’edificio e non è, quindi, autonomo, ma è quell’area comune che resta disponibile fra i muri dell’edificio e la linea di confine.
Quindi non è il suolo, non è l’area su cui sorge il condominio, ma è quella che eccede, l’area che resta libera dalla planimetria del fabbricato.
Nella nozione di cortile devono intendersi compresi gli spazi liberi esterni che – oltre a dare aria e luce alle unità immobiliari circostanti – consentono l’accesso alla pubblica via (Cass. 3 ottobre 1991, n. 10309).
La comunione del cortile si estende ovviamente anche allo spazio soprastante, in quanto anche questo è destinato a dare aria e luce agli ambienti che vi si affacciano.
La presunzione di proprietà comune si applica per analogia anche ai cortili ed ai pozzi luce che si trovano fra edifici strutturalmente autonomi ed appartenenti a proprietari diversi, e che siano obiettivamente destinati a dare aria e luce ai fabbricati che li fronteggiano, ne’ tale presunzione può essere vinta dal fatto che l’accesso al bene comune spetta ad uno solo dei condomini o dei proprietari dei singoli edifici, in quanto l’utilità particolare che ne deriva non incide sulla destinazione tipica e normale del bene, che resta quella – appunto – di dare aria e luce agli edifici circostanti (Cass. 11 maggio 1978, n. 2309).
Confermata tale principale destinazione, è però il caso di esaminare l’uso pratico dell’area cortiliva: area di passaggio pedonale, di passaggio e di parcheggio di autoveicoli, di gioco per i bambini.
Nulla osta, salvo casi particolari, che il cortile venga usato per i normali giochi dei bimbi che risiedono nel fabbricato.
All’assemblea di condominio, tramite il regolamento interno, spetta il compito di regolarizzare l’uso e di fissare gli orari, avendo cura di limitare le tipologie dei giochi ed il rumore inevitabilmente creato, a salvaguardia della quiete generale.
Per quanto riguarda il transito pedonale c’è ben poco da dire, in quanto non necessita di particolari autorizzazioni, ma è insito nel diritto di proprietà, che si estende su tutte le aree comuni.
Può, al limite, essere limitato o vietato per cogenti motivi di impraticabilità, per rotture, per manutenzione od altro, ma, esauritasi la motivazione particolare, l’accesso e la disponibilità dovrà essere nuovamente libera.
Il discorso è diverso per quanto riguarda l’accesso, il recesso e la sosta di velocipedi, motocicli e autoveicoli.
Scontato che, ove possibile, esista un’area adibita al solo transito, ben delimitata e libera da impedimenti.
Esisterà poi un’area capiente ove potranno essere parcheggiate le auto dei residenti.
Gli spazi potranno essere opportunamente segnati e delimitati, affinché un parcheggio diligente e rispettoso consenta l’utilizzo a tutti i mezzi previsti.
Se l’area cortiliva non consente il parcheggio contemporaneo agli autoveicoli di tutti gli aventi diritto, sarà indispensabile che essa venga opportunamente regolamentata.
Una soluzione possibile è l’uso turnario settimanale o meglio ancora mensile, oppure può valere la pena – ma sarà fonte almeno di mugugni – la libera disponibilità del … chi prima arriva…..
Dovrà poi essere vietata la sosta fissa, l’occupazione dei posti macchina nel tempo senza interruzione.
È stato affermato che l’utilizzazione a parcheggio di un cortile a cielo aperto non costituisce innovazione vietata ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., poiché tale utilizzazione non sottrae la parte comune al godimento collettivo, né impedisce la funzione primaria del cortile di dare aria e luce al condominio.
La deliberazione a maggioranza semplice non può però pregiudicare i diritti dei dissenzienti sulla trasformazione a parcheggio dei luoghi comuni.
In applicazione del disposto di cui all’Art. 1117ter cod. civ. la deliberazione dovrà essere assunta almeno con i voti favorevoli dei quattro quinti degli aventi diritto e con i quattro quinti dei millesimi.
Trattando l’area cortiliva, vale la pena menzionare la legge n. 122 del 24 marzo 1989 – sui parcheggi interrati – e, se l’area stessa lo consente, è ovvio che i parcheggi possono essere attuati anche su di essa.
È implicito che, costruendo delle autorimesse nel sottosuolo dell’area condominiale, la struttura del cortile risulterà completamente modificata.
La possibilità di derogare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, rende derogabili anche le norme sulle distanze delle costruzioni dai confini di proprietà, in quanto, a fronte di una disciplina speciale dettata dalla necessità di limitare la congestione ambientale, la disciplina delle distanze, preposte alla salvaguardia di interessi privatistici di buon vicinato, deve ritenersi non meno importante (T.A.R. Lombardia, 5 luglio 2006, n. 1715).
Persona incaricata dell’amministrazione di un condominio mancando la nomina assembleare.
In un fabbricato in condominio superiore ad otto condomini, c’è l’obbligo della nomina dell’amministratore.
Lo prevede esplicitamente il nuovo Art. 1129 cod. civ., primo comma, inderogabile.
Tanto per fare confusione, il legislatore indica il numero di condomini – otto, e prima della riforma erano quattro – e non delle unità immobiliari.
Ragionando per assurdo, sei condomini, proprietari di trenta unità immobiliari cadauno, non hanno l’obbligo di nominare l’amministratore.
Senza pervenire a questa situazione paradossale, non sono pochi i condominii, con meno di otto o con più di otto comproprietari, che non procedono alla nomina dell’amministratore.
Lo stesso Art. 1129 cod. civ. al sesto comma, quasi avalla questo comportamento non corretto, dando indicazioni su una fantomatica persona che – in mancanza dell’amministratore – “svolge funzioni analoghe” –.
Si potrebbe pensare che il legislatore si rivolgesse solo a quei piccoli fabbricati con meno di otto condomini e non anche a fabbricati più estesi, ma in tal caso ben poteva indicare questa precisazione.
In ogni caso, nei fabbricati in condominio in cui non esiste l’amministratore, perché non dovuto o per inerzia dei comproprietari, l’Art. 65 disp. att. e trans. cod. civ. prevede che chiunque intenda iniziare o proseguire una lite contro i partecipanti ad un condominio, può richiedere la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’Art. 80 cod. proc. civ..
È implicito che la richiesta non può essere proposta da un condomino, in quanto – in tale veste – questi si potrebbe rivolgere all’assemblea e richiedere la nomina di un “normale” amministratore; in caso di richiesta insoddisfatta, a norma del già citato Art. 1129 cod. civ., qualsiasi condomino può richiedere la nomina di un amministratore giudiziario.
La nomina del curatore speciale può, quindi, essere richiesta solo da un estraneo al condominio, il quale intenda promuovere una lite contro i comproprietari dello stesso.
La ratio della norma va individuata nella necessità di dare ad un condominio – senza il suo legale rappresentante – un organo rappresentativo, per evitare che colui che debba agire in giudizio contro i condomini sia costretto a citarli singolarmente.
Che i condomini vengano informati dell’avvenuta nomina è implicito nella seconda parte dell’Art. 65 disp. att. e trans. cod. civ., in quanto il curatore speciale dovrà convocare l’assemblea dei condomini senza indugio.
È necessario osservare che non esistono impedimenti a che l’assemblea, dopo l’avvenuta nomina del curatore, decida di riassumere le proprie prerogative e nomini un amministratore di sua scelta, e non pare legittimo il provvedimento di revoca del curatore stesso prima che egli abbia adempiuto l’obbligo di convocare l’assemblea, che gli impone l’Art. 65 disp. att. e trans. cod. civ..
In ogni caso il curatore speciale decade dalla carica non appena l’assemblea avrà provveduto alla nomina di un nuovo amministratore, da essa scelto e non imposto.
Ogni fatto o circostanza che nuoce a persone o cose.
Spesso le parti comuni, e non solo, si deteriorano e si rompono, creando danni a persone o ad altre parti comuni o a proprietà private.
È quindi buona norma che il condominio sia assicurato contro i rischi di qualsiasi tipo di rottura.
Non solo, ma anche l’amministratore deve avere una assicurazione personale che lo copra da possibili errori, non solo professionali o procedurali, ma anche per possibili omissioni riguardanti riparazioni o manutenzioni di parti condominiali che abbiano comportato danni a terzi.
Nella polizza condominiale – spesso indicata come assicurazione globale fabbricati – debbono essere previsti svariati possibili sinistri e con coperture adeguate.
DANNI DA ACQUA CONDOTTA
Esistono vari tipi di tubazioni contenenti acqua: riscaldamento, acqua sanitaria, acqua potabile.
Se la rottura si verifica dopo il punto di diramazione alla proprietà individuale – ex Art. 1117 cod. civ. – la responsabilità di riparazione e di rimborso dei danni sono di competenza del condomino involontario responsabile.
La polizza assicurativa condominiale interverrà egualmente, ma la eventuale franchigia – quasi sempre presente – dovrà essere posta a carico del responsabile.
Se invece la rottura si verifica in un tratto di competenza condominiale, la responsabilità è di spettanza del condominio, e quindi dell’amministratore, e la egualmente eventuale franchigia sarà a carico di tutti o di quelle parti di condominio interessate (condominio parziale).
Nella eventualità che – in entrambi i casi – la polizza non copra integralmente il danno, a parte la franchigia, la differenza dovrà essere a carico del responsabile, privato o comunità condominiale.
È, pertanto, necessario che i valori assicurati siano sempre aggiornati, onde evitare di essere sottoassicurati e di cadere quindi nell’indennizzo proporzionale.
Esistono anche altre tubazioni in cui scorre acqua, e sono le tubazioni di scarico di acque bianche o nere.
Il concetto ripartitivo o di addebito è simile ai casi precedentemente elencati.
Rappresentato da tutti gli elementi che costituiscono le linee ornamentali e la struttura del fabbricato.
Esso è un bene comune ed è quindi di proprietà di tutti i condomini e riguarda quelle parti di fabbricato più caratterizzanti, ma anche le aree condominiali circostanti.
Un fabbricato con manutenzione carente, pareti scrostate, pluviali arrugginiti, porte e finestre prive di vernice, giardino incolto, ingresso con plafoniere sbilenche, sono tutte parti comuni che concorrono a rendere l’immobile meno gradevole, e ciò si ripercuote anche sul valore intrinseco delle unità immobiliari private.
Conseguentemente tutta la struttura estetica del fabbricato e delle pertinenze costituiscono l’inalienabile bene comune che è il decoro architettonico di quel determinato condominio.
È un bene che appartiene a tutti i partecipanti, ed eventuali modifiche apportate dal singolo proprietario, anche sulle parti di sua esclusiva disponibilità, possono essere in contrasto con l’architettonica generale e violare il disposto dell’Art. 1102 cod. civ. (Cass. 7 febbraio 1998, n. 1297).
Il decoro architettonico non è, però, un bene definibile, ma dovrà essere verificato di volta in volta, in quanto ciò che può essere considerato lesione estetica in un fabbricato di particolare pregio, magari non lo è in un fabbricato privato di qualsiasi qualità estetica ed ornamentale.
È quindi l’assemblea del condominio, che deve salvaguardare tale bene comune, e nel caso di una violazione, può procedere ad un ricorso, a norma dell’Art. 703 cod. proc. civ. – (Domande di reintegrazione e di manutenzione nel possesso) – contro il responsabile (Cass. 30 agosto 1994, n. 7603).
Nello stesso tempo, anche il singolo partecipante può agire nei confronti di un condomino che si sia reso responsabile di alterazioni vietate (Cass. 31 maggio 1988, n. 1824).
Può anche agire nei confronti di tutti gli altri partecipanti se dalla loro inerzia scaturisce un danno al fabbricato – o a tutto il contesto condominiale – ed anche se sono state attuate alterazioni vietate, a seguito delle quali viene turbata la sua armonica fisionomia (Cass. 7 dicembre 1994, n. 10507).
Si deve anche considerare che una alterazione al decoro architettonico non è una violazione di norme di diritto, e la Cassazione potrà esprimersi basandosi sulle perizie dei Tecnici (Cass. 3 settembre 1998, n. 8731).
Il rispetto ed il mantenimento del decoro architettonico sono chiaramente richiamati dall’ultimo comma dell’Art. 1120 cod. civ., che è inderogabile, e – quindi – anche nell’apportare modifiche o migliorie alla propria unità immobiliare, il condomino deve attenersi a quelle disposizioni (Cass. 11 febbraio 2005, n. 2743).
Si ribadisce che la norma di cui all’Art. 1120 cod. civ., che vieta opere che ledano la stabilità e la sicurezza del fabbricato, impone anche il divieto di alterarne il decoro architettonico, e questa norma in esame non la si deve applicare solo in presenza di immobili di particolare pregio, ma deve trovare attuazione nell’ipotesi di qualsiasi opera che modifichi la fisionomia del fabbricato, non solo, ma di tutto quello che riguarda le parti condominiali, quali il cortile, il giardino, la recinzione o le pertinenze condominiali in genere.
L’apertura di una finestra o porta nei muri perimetrali comuni, o anche una loro chiusura, sono state giudicate sempre attività legittime, fatto salvo le condizioni di stabilità e di decoro architettonico.
La chiusura di una finestra o l’apertura di una porta difficilmente saranno lesive alla stabilità del condominio, ma sarà difficile che questo non incida sul decoro architettonico dell’immobile, in quanto certamente rappresenteranno elemento di rottura nel disegno della facciata (Cass. 11 gennaio 1997, n. 240).
La Cassazione – 27 ottobre 2002, n. 16097 – ha ritenuto lecita l’apertura di una porta di comunicazione tra l’unità immobiliare privata e l’atrio condominiale, ritenendo che la suddetta porta non pregiudicasse il decoro architettonico, poiché la suddetta esigenza estetica non riguarda solo la linea architettonica esterna, ma anche gli ornamenti e la gradevolezza delle aree comuni interne.
In concreto, la tutela del decoro architettonico del fabbricato nel suo insieme, ma anche di tutte le cose comuni che costituiscono tutte le opere e le parti condominiali, è stata disposta dal legislatore in considerazione della diminuzione del valore che la sua alterazione arreca a tutto il condominio, ma anche e particolarmente alle singole unità immobiliari (Cass. 15 maggio 1987, n. 4474).
Alla base delle numerose sentenze il giudice deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in funzione delle caratteristiche del condominio o della parte interessata, verificando anche quella unitarietà di linee e di stile avesse, e quale significativa alterazione si fosse verificata dalla innovazione in giudizio.
Dovrà anche accertare se l’alterazione sia appariscente e di una certa entità, tale – cioè – da provocare un pregiudizio al decoro architettonico (Cass. 27 ottobre 2003, n. 16098).
Atto avente forza di legge emanato dal potere esecutivo.
L’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ., primo comma, dispone che l’amministratore possa ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo.
Per poter procedere in tal senso, l’amministratore deve preventivamente ottenere l’approvazione dei documenti di rendiconto – consuntivo e preventivo – per i quali intende richiedere il pagamento.
Infatti, egli dovrà produrre l’avviso di convocazione, dal quale deve emergere la regolarità della deliberazione, per preavviso ed ordine del giorno; il verbale dell’assemblea, con attestante tutte le formalità richieste per la validità costitutiva e deliberativa; copia dei documenti dai quali risultino le motivazioni della richiesta economica complessiva per tutto il condominio e per i singoli condomini, sia, questa, consuntiva o preventiva, o congiunta; copia delle lettere di sollecito e di messa in mora.
A questo punto spetterà al condomino moroso giustificare le motivazioni del non pagamento o del solo parziale pagamento, in mancanza delle quali ben difficilmente eviterà l’emissione del decreto ingiuntivo ai suoi danni.
Il succitato articolo conferisce ai documenti richiesti e presentati dall’amministratore non la forza di titolo esecutivo, ma un valore probatorio privilegiato, il quale vincola – su domanda – il giudice dell’ingiunzione alla concessione della clausola di immediata esecutività (Cass. 25 giugno 2001, n. 8676).
È stato affermato che l’articolo condiziona la possibilità, per l’amministratore, di ottenere ingiunzione immediatamente esecutiva all’esistenza di uno stato di ripartizione ritualmente approvato dall’assemblea, ma non osta che l’amministratore – in difetto di questa condizione – possa richiedere ed ottenere decreto ingiuntivo non immediatamente esecutivo per il pagamento di quelle quote condominiali.
Spesso l’amministratore – per richiedere il pagamento di quote condominiali impagate – è portato ad attendere l’approvazione assembleare del rendiconto consuntivo, ma è stato affermato che può richiedere, nel modo dovuto, anche il pagamento di eventuali rate, in quanto il condominio deve essere in grado di sostenere i pagamenti per la manutenzione degli impianti e la fornitura dei servizi (Cass. 29 settembre 2008, n. 24299).
Il decreto è immediatamente esecutivo nonostante opposizione ed è stato confermato che ciò non è in contrasto con l’Art. 24 della nostra Costituzione poiché – è stato chiarito – non viene violato il principio della difesa e della tutela dei suoi diritti (Corte Costituzionale 19 gennaio 1988, n. 40; Cass. 9 dicembre 2005, n. 27292).
È opportuno poi valutare l’uso dei verbi usati dal legislatore in occasione della Riforma del Codice Civile: nell’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. usa il verbo potere…. “può ottenere decreto”….; l’Art. 1129 cod. civ. usa il verbo dovere …. “è tenuto ad agire per la riscossione forzosa….”.
Quest’ultimo articolo dispone che l’amministratore deve agire salvo che l’assemblea non lo abbia esplicitamente esentato.
Nulla impedisce, all’assemblea sovrana, di bloccare eventuali richieste di decreti ingiuntivi in casi particolari e circoscritti, ma dovrà poi dotare l’amministratore di mezzi o fondi supplementari, poiché la vita gestionale del condominio non può subire interruzioni.
A parte queste situazioni particolari – ed anche poco probabili – l’amministratore deve decisamente attivarsi per incassare le quote condominiali entro sei mesi dal momento in cui esse sono divenute esigibili.
In mancanza di questa sua diligenza – imperdonabile una inerzia di centottanta giorni – egli sarà ritenuto corresponsabile in caso di mancati incassi.
Sempre l’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. penultimo comma, precisa che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento delle quote condominiali relative all’anno in corso e a quello precedente.
Conseguentemente, se l’alienante non ha provveduto al pagamento delle suddette quote, queste possono – debbono - essere richieste al nuovo condomino, anche con richiesta di decreto ingiuntivo.
Da ricordare che nella dizione “anno in corso”, è stato confermato che ci si riferisce all’anno gestionale e non all’anno solare.
Eventuali somme antecedenti il periodo indicato, non potranno essere richieste (Cass. 9 settembre 2008, n. 23345).
Può verificarsi la situazione in cui il condomino moroso si opponga alla richiesta di decreto, eccependo l’annullabilità o la nullità della delibera che ha approvato il rendiconto consuntivo o le rate della gestione in corso.
In tal caso è stato affermato che il condomino moroso non potrà solo opporsi alla richiesta di decreto o allo stesso decreto ingiuntivo, ma dovrà anche impugnare la delibera da lui contestata (Cass. 23 maggio 2001, n. 7005; Cass. 24 agosto 2005, n. 17206; Cass. 26 settembre 2005, n. 18739).
In passato, spesso l’amministratore ha dovuto affrontare l’antipatica situazione del condomino apparente, avanzando richiesta di decreto ingiuntivo a qualche persona che si dichiarava condomino ma tale non era.
Dopo la Riforma del Codice Civile, ed alla luce di quanto dispone l’Art. 1130 cod. civ., punto sei, ben difficilmente questa situazione potrà riverificarsi.
L’amministratore dovrà attivarsi per richiedere con sollecitudine l’anagrafe condominiale, con le generalità dei singoli proprietari.
È ulteriormente opportuno richiamare l’attenzione sull’ultimo comma dell’Art. 63 disp. att. e tran. cod. civ. che dispone tassativamente – ricordiamo che l’articolo è inderogabile – che il venditore resta responsabile solidalmente con l’avente causa fino a quando non avrà consegnato all’amministratore copia autentica del passaggio di proprietà.
Fino alla Riforma non era chiaro chi dovesse farsi parte diligente nel comunicare l’avvenuto passaggio di proprietà, ma ora non esiste dubbio: l’alienante dovrà consegnare copia autentica del rogito.
Eventuali decreti ingiuntivi richiesti prima di questa consegna avranno valore, o, per meglio dire, avranno valore le date risultanti sull’atto di decreto e su quello del passaggio di proprietà.
È però opportuno considerare che il Garante della privacy – in data 23 aprile 2014 – ha disposto che l’amministratore non debba richiedere copia dell’atto di compravendita, ma solo una comunicazione scritta e senza dati sensibili.
Incaricare altri di compiere un atto in vece propria.
L’istituto della delega è sempre stato previsto e consentito dal Codice Civile, e pertanto qualsiasi condomino ha diritto di farsi rappresentare da persona di fiducia, e questo diritto è rimesso alla discrezionalità del condomino interessato.
Dottrina e giurisprudenza hanno sempre confermato che il rapporto fra condomino delegante ed il suo delegato è disciplinato dalle regole del mandato, e contemporaneamente ha sempre ritenuto che la delega potesse anche essere verbale.
Il regolamento poteva limitare il numero delle deleghe per consentire la pluralità assembleare, ma non impedirla.
Così come non si poteva, e non si può, limitare le deleghe solo fra condomini, in quanto il diritto di farsi rappresentare da tecnici, consulenti o legali non può essere vietato.
Il nuovo Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ., primo comma, prevede inderogabilmente che la delega sia scritta, e ne prevede sia la limitazione di numero che di valore.
Dispone, infatti, che se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale.
Inutile ripetere che il legislatore continua ad indicare condomini – ovvero intestatari – e non unità immobiliari, e ben venga la limitazione del numero – sempre per la pluralità delle assemblee – ma è da ritenere assurda la limitazione del valore.
Non sarà raro il caso di condomini, o di società immobiliari, aventi proprietà – pur singolarmente – superiori ai duecento millesimi di valore.
Non potranno mai dare delega?
Su questo si dovrà pronunciare la giurisprudenza.
È interessante rilevare che, sempre il già citato articolo, al secondo comma, dispone che eventuali proprietà indivise a più persone, queste avranno diritto ad un solo rappresentante in assemblea, che sarà designato dai comproprietari interessati a norma dell’Art. 1106 cod. civ..
Anche questa è una novità, in quanto – fino alla riforma del Codice Civile – in caso di disaccordo fra i comproprietari – era il presidente dell’assemblea ad indicare il rappresentante delegato.
La delega dovrà, quindi, essere scritta, ma non viene indicato in quale documento.
Generalmente, per inveterata consuetudine, in calce alla convocazione era riportata la delega, ed era sufficiente controfirmarla o, si è visto, anche comunicarlo verbalmente.
Nel silenzio della legge, è da ritenersi che anche il suddetto documento, controfirmato – ed indicante nome del condomino e del delegato – possa essere sufficiente e legale (Cass. 15 marzo 1989, n. 1283).
È da rimarcare che il nuovo Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ., terzo comma, prevede che l’avviso di convocazione dell’assemblea possa essere comunicato tramite la posta raccomandata, consegna a mano, o tramite fax o posta elettronica; è quindi da ritenere che anche la delega scritta possa essere consegnata all’amministratore o comunicata con uno dei mezzi indicati.
Per ultimo, è il caso di precisare che – per nessun motivo – sarà possibile rilasciare delega all’amministratore.
Nessun problema, considerando che è certamente opportuno che l’amministratore non debba condizionare o influire sulle delibere assembleari, se non mantenendo un comportamento di equidistanza, ma è un dato di fatto che se un condomino ha dato fiducia all’amministratore con la nomina, possa egualmente avere fiducia, peraltro scritta, nello stesso.
La delega è prevista anche nella gestione ordinaria dei supercondominii con più di sessanta partecipanti.
È sempre l’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. che, al terzo comma, dispone quello che dovrà essere il comportamento dei condomini dei vari fabbricati per la gestione ordinaria delle parti che sono in comune agli stessi.
Non ha molto senso logico, ma l’Articolo, inderogabile, lo dispone in modo tassativo.
Sarà, forse, la giurisprudenza, speriamo in tempi stretti, a fare un po’ di chiarezza, in quanto pare che non esistano più le maggioranze di teste e millesimi, poiché ogni fabbricato – nelle riunioni congiunte – dovrà farsi rappresentare da un suo delegato, che non sia però l’amministratore.
Non è chiaro cosa succederà – in sede di votazione – se tre piccoli condominii voteranno diversamente dagli altri due grandi che completano il supercondominio.
Momento in cui la volontà dell’assemblea si esprime su un argomento.
I condomini sono i comproprietari dell’immobile.
L’assemblea è il luogo deputato per assumere decisioni relative al condominio ed alle sue parti comuni.
Le deliberazioni – se prese nel rispetto delle leggi e del regolamento – sono obbligatorie per tutti i condomini: assenzienti, dissenzienti, astenuti e – dopo un certo lasso di tempo, di cui all’Art. 1137 cod. civ. – anche per gli assenti.
La possibile impugnativa non riguarda solo gli assenti, ma anche gli astenuti e i dissenzienti.
L’unica differenza consiste nei tempi: per astenuti e dissenzienti i trenta giorni partono dal giorno della deliberazione; per gli assenti i trenta giorni partono da quando essi ne sono stati informati.
I presupposti per la validità delle deliberazioni sono:
1) invio di convocazione a tutti gli aventi diritto;
2) la presenza di tanti condomini che consenta di assumere le deliberazioni di cui all’ordine del giorno.
Il mancato avviso di convocazione, anche ad uno solo dei condomini, fino ad una ventina di anni fa comportava la nullità della deliberazione (Cass. 15 dicembre 1990, n. 11947).
Ultimamente l’orientamento è mutato e la deliberazione è annullabile, e solo a richiesta del condomino non convocato, se lo ritiene (Cass. 5 maggio 2004, n. 8493).
Scaduti i termini previsti dall’Art. 1137 cod. civ. senza che la deliberazione sia stata impugnata, essa diventa esecutiva e obbligatoria per tutti, poiché l’assemblea è sovrana e quanto viene deciso nell’assemblea stessa ha validità per tutti.
Salvo che – ovviamente – essa non sia radicalmente nulla, nel qual caso non esiste termine di impugnativa.
L’Art. 1137 cod. civ., in proposito, dispone che le deliberazioni contrarie alla legge possono essere impugnate nei tempi canonici.
Sono invece considerate nulle quelle deliberazioni che violano norme imperative e quelle prive dei requisiti essenziali.
Sono nulle, ad esempio, quelle che violano i diritti del singolo (Cass. 9 aprile 1980, n. 2288); quelle deliberazioni assunte dopo lo scioglimento dell’assemblea e con condomini già assentati (Cass. 5 giugno 1991, n. 6366); quelle nelle quali non si è permesso di discutere e votare ad un avente diritto (Cass. 23 febbraio 1999, n. 1510).
La intempestiva comunicazione ai condomini della data fissata per l’assemblea implica una ipotesi di contrarietà alla legge della deliberazione, comportante l’annullamento della medesima (Cass. 29 aprile 1993, n. 5084).
È stato detto che anche le deliberazioni adottate con maggioranze inferiori a quelle di legge sono radicalmente nulle, perché la mancanza di voti necessari impedisce l’insorgenza della volontà condominiale (Cass. 14 aprile 1966, n. 945).
Così pure le deliberazioni concernenti innovazioni lesive dei diritti di un condomino alle cose o servizi comuni o su quelle di proprietà esclusiva (Cass. 21 aprile 1979, n. 4648).
È stato anche affermato, dalla Suprema Corte, che la nullità di una delibera condominiale può essere richiesta anche da un condomino che abbia partecipato – con il suo voto favorevole – alla formazione di detta deliberazione, salvo che, con tale voto, egli si sia assunto una sua personale obbligazione (Cass. 18 aprile 2002, n. 5626).
Sono egualmente nulle le deliberazioni che si rivelano prive degli elementi essenziali, quelle con oggetto impossibile o illecito, quelle contrarie all’ordine pubblico, alla morale ed al buon costume, nonché quelle con oggetto che non rientra tra le competenze dell’assemblea o, ancora, quelle che incidono sui diritti individuali (Cass. Sez. Un. 7 marzo 2005, n. 4806).
Il terzo comma dell’Art.1137 cod. civ. afferma che l’impugnativa non sospende l’esecutorietà della deliberazione, e la sospensione stessa è affidata alla discrezionalità del giudice.
Egli, però, non potrà mai sostituire la sua pronuncia a quella nulla o annullabile dell’assemblea, dovendo limitare il suo parere alla situazione in essere, e mai entrare nel merito della stessa.
Poiché alle deliberazioni condominiali si applica il principio dettato in materia di contratti, secondo cui il potere attribuito al giudice di rilevarne la nullità deve coordinarsi con il principio della domanda, il giudice stesso non può dichiarare la nullità della deliberazione sulla base di ragioni diverse da quelle poste dalla domanda di impugnativa (Cass. 27 giugno 2005, n. 13732).
La prevalente dottrina, infatti, afferma che, in caso di impugnativa di una deliberazione, l’intervento del giudice è limitato alla sola questione di legalità e mai potrà entrare nel merito di quanto deliberato.
Egli dovrà solo accertare se esiste contrasto fra il contenuto della deliberazione e le norme di legge o del regolamento, che – come più volte affermato – è la legge interna del condominio.
È qui opportuno ribadire che – nel caso l’amministratore o i condomini – rilevino che una deliberazione assunta in modo contrario alle norme di legge, ad essa deliberazione possa essere posto rimedio, dopo avere verificato le motivazioni della irregolarità.
Se esse sono tali da comportare una possibile richiesta di annullabilità, a norma dell’Art. 1137 cod. civ., possono attendere la scadenza del termine previsto, oppure bloccare l’esecuzione della deliberazione, avvertire tutti i partecipanti e ripetere l’assemblea nel modo corretto e regolare.
Nel caso si rilevi che la deliberazione è radicalmente nulla o esista tale timore, si dovrà porre rimedio prima che la situazione sfugga di mano, ripetendo l’assemblea ed eliminando i motivi della supposta nullità.
Apparecchio atto a depurare l’acqua.
L’impianto idrico è di proprietà comune dalla presa stradale al punto di diramazione alle singole unità immobiliari, ex Art. 1117 cod. civ..
Se l’acqua viene attinta da un pozzo artesiano, l’impianto è tutto condominiale, compreso il pozzo, fino alle diramazioni singole.
Egualmente comuni sono tutte le apparecchiature, impianti e locali necessari per il funzionamento.
Quindi lo è anche il depuratore/addolcitore, indispensabile spesso per la salubrità dell’acqua, a norma anche del D.M. 21 dicembre 1990, n. 443.
Se l’ente erogatore distribuisce l’acqua direttamente agli utilizzatori, ogni apparecchiatura dopo il contatore singolo è privata.
Nell’ipotesi che, invece, esista un contatore centralizzato con successiva distribuzione ai singoli contatori divisionali, gli eventuali filtri, autoclave e depuratore addolcitore sono condominiali.
L’impianto per il trattamento dell’acqua richiede la disponibilità di un sia pur piccolo locale – a volte un angolo della centrale termica – ove alloggiare il serbatoio per la salamoia, per l’apparecchio depuratore e per lo stoccaggio del sale alimentare che si usa per la depurazione.
Il depuratore/addolcitore necessita di controlli periodici, per evitare che la durezza dell’acqua si discosti dai valori prestabiliti, ed il contenitore della salamoia deve essere rifornito – a seconda dell’acqua consumata dagli utenti che risiedono nel condominio – almeno un paio di volte ogni settimana.
L’acqua troppo dura vanifica il funzionamento dell’impianto; l’acqua troppo addolcita diventa “aggressiva”, sviluppa ossigeno e facilita l’ossidazione delle tubazioni e delle parti metalliche degli impianti, con il rischio, nel tempo, di danneggiarle.
La ripartizione delle spese dell’impianto e della sua manutenzione è regolata dall’applicazione dell’Art. 1123 cod. civ., ossia in base al valore delle singole proprietà collegate all’impianto idrico.
Il consumo del sale, il controllo delle apparecchiature e del funzionamento devono invece essere ripartiti in base ai consumi di ogni singolo utente condominiale, ossia in base alla lettura dei contatori privati (Cass. 13 marzo 2003, n. 3712).
È opportuno ricordare che, nel caso di prelievo dell’acqua potabile dal pozzo artesiano condominiale, praticamente in disuso ma non completamente, la responsabilità della sua igienicità e salubrità è dell’amministratore, a norma del D.L. 2 febbraio 2001, n. 31, modificato dal D.L. 2 febbraio 2002, n. 27.
Tutti i controlli previsti, con le conseguenti pulizie e manutenzioni sono obbligatori, e la responsabilità ricade sull’amministratore del condominio.
È colui che ha parere diverso o contrario rispetto ad altri.
È il caso di dire che è praticamente impossibile che – durante lo svolgimento dell’assemblea e nel corso delle votazioni – non esista almeno un voto negativo.
Prima della deliberazione, l’argomento posto all’ordine del giorno verrà trattato, sviscerato e discusso–non sempre in modo pacato ed educato-.
Quando più nessuno chiederà la parola, il Presidente porrà in votazione l’argomento.
Può capitare che – in sede di votazione – se tutti si sono convinti o rassegnati, si pervenga all’unanimità di adesione.
Spesso ciò non si verifica e quindi il Presidente dovrà richiedere al Segretario di elencare i Condomini favorevoli – deleghe comprese – annotando i relativi millesimi espressi e rappresentati, dovrà elencare anche i voti contrari, con relative deleghe e millesimi.
A quel punto si presentano due possibilità: i dissenzienti possono accettare la deliberazione, rimettendosi, quindi, alla decisione della maggioranza, oppure ritenere la deliberazione non positiva per se’ o per il condominio, e decidere di impugnare quella determinata delibera assunta in quella assemblea.
Quindi, non contestando tutto ciò che è stato deliberato, ma quella particolare deliberazione non gradita o contestata.
In questo caso, non è sufficiente che il condomino dissenziente si sia limitato ad esprimere un voto contrario fine a se’ stesso, ma è necessario che il suo dissenso risulti chiaramente a verbale.
Deve, cioè, emergere in modo inequivocabile la sua espressione di voto negativa o, come vedremo, di astensione (Cass. 20 aprile 2011, n. 5889).
La Cassazione ha più volte precisato che il dissenso (o l’astensione) di colui che impugna una determinata deliberazione non può essere desunto con riferimento alle discussioni preliminari che – abbiamo visto – normalmente precedono le votazioni, dato che fino a quando non viene fatta la votazione stessa, non è configurabile un dissenso in senso tecnico giuridico.
Questo per quanto riguarda deliberazioni che si ritengono annullabili e che si vogliono rimettere in discussione o comunque modificare.
Per quanto riguarda, invece, l’impugnativa di deliberazioni nulle, la conseguente legittimazione spetta a chiunque vi abbia interesse, e senza limiti di tempo.
Tale diritto spetta anche ai condomini che in assemblea espressero parere favorevole e concorsero quindi a formare la delibera che ora intendono contestare (Cass. 19 febbraio 1997, n. 1511).
Si può affermare che questo diritto è ampiamente confermato dalla Giurisprudenza, poiché tutti – nei modi dovuti – hanno facoltà di esprimere il loro parere (Cass. 11 maggio 1984, n. 2893).
A volte, si è verificato il caso in cui viene richiesto al Presidente dell’assemblea di poter procedere ad una votazione segreta, e questo, magari, viene concesso.
Ogni deliberazione conseguente è affetta da nullità assoluta per svariati motivi:
− le votazioni debbono riportare sempre due tipi di maggioranza, e cioè di teste e di millesimi, e con il voto segreto non è possibile conteggiare la quota millesimale di ogni votante in quanto – se venisse annotata – non sarebbe più segreta;
− sul registro dei verbali devono essere annotati nomi e quote di chi ha votato a favore e di chi ha votato contro, ed anche questo sarebbe impossibile;
− a parte la elencazione a verbale dei dissenzienti, è spesso indispensabile che le obiezioni sulla votazione, le motivazioni od altro dei contrari, debbano risultare e trascritte in modo da individuare sempre il o gli altri autori.
Vale poi ricordare che le deliberazioni non impugnate, e assunte nel rispetto della legge, sono irrevocabili e che decisioni prese eventualmente all’unanimità possono essere in seguito modificate da altra deliberazione presa solo a maggioranza, purché detta maggioranza sia quella prescritta dalla legge in relazione all’oggetto ed al tipo di assemblea.
È stato affermato che, nel caso di deliberazioni nulle in modo certo, il condomino che non vi ha acconsentito non è vincolato a rispettarle e può senz’altro – anche senza impugnarle – rifiutarsi di riconoscerle, senza che tale comportamento puramente passivo possa condurre ad una ratifica o convalida delle deliberazioni.
Questa considerazione merita particolare attenzione, in quanto può capitare che un amministratore disattento consenta ad una deliberazione, o che un’assemblea – scorrettamente – deliberi su un argomento particolare con il segreto intento che il condomino assente non venga a conoscenza della deliberazione stessa, o dimentichi di impugnarla nei tempi di cui all’Art. 1137 cod. civ., dando così validità almeno apparente ad una deliberazione che non è annullabile, ma assolutamente nulla.
Ciò che serve per documentare.
Dobbiamo sempre ricordarci che l’amministratore di condominio è il mandatario nominato dall’assemblea, ed in quanto tale, ogni e qualsiasi documentazione che riguardi il condominio stesso è di proprietà di tutti i condomini.
È quindi, ovvio che il legislatore, disciplinando i poteri dell’amministratore, ne disciplini anche gli obblighi.
Tra gli obblighi dell’amministratore, anche se spesso non compiutamente valutati, vi è quello della conservazione dei documenti del condominio.
Di conseguenza l’amministratore deve conservare tutta la documentazione del suo mandato annuale, sulla quale dovrà impostare il rendiconto.
E questo per quanto riguarda le fatture di spesa ed i versamenti sul conto corrente condominiale.
Non solo, ma dovrà conservare gli eventuali contratti stipulati – di assicurazione e di appalto per lavori ordinari e straordinari – e quindi, in brevi parole, tutta la documentazione condominiale riferentesi a quell’anno di gestione.
A seguito della Riforma del Codice, a norma degli articoli 1129-1130-1130bis cod. civ., dovrà poi curare il registro dell’anagrafe condominiale, il registro dei verbali, il registro di nomina, il registro di contabilità, la documentazione fiscale.
Dall’entrata in vigore della Riforma, tutta la documentazione dovrà essere conservata per dieci anni dalla data della relativa registrazione – Art. 1130bis cod. civ., secondo comma –.
Già in passato, ex Art. 2946 cod. civ., era previsto che le quietanze relative alle spese si prescrivessero in dieci anni, ma ora il legislatore impone all’amministratore di conservare per dieci anni tutti i documenti che si riferiscono – anno per anno – alle gestioni pregresse.
Questo significa che, se l’amministratore gestisce il condominio da più di dieci anni, la documentazione che afferisce gestioni oltre il decennio, possono essere cestinate.
Quelle più prossime all’anno in corso dovranno essere conservate e catalogate in previsione – non sempre così remota – di un passaggio di consegne all’amministratore subentrante.
Per nessun motivo l’amministratore uscente può trattenere dei documenti che – si ripete – non sono suoi in alcun modo, ma sono esclusivamente della comunità condominiale.
Neppure se vanta dei crediti nei confronti del condominio potrà riservare per se’ alcuni documenti, al limite potrà estrarne fotocopia.
Per evitare, poi, polemiche future, foriere a volte anche di procedimenti legali, dovrà esser cura di entrambi i professionisti sia la consegna analitica dei documenti che la loro presa in carica.
Ricevere la documentazione di gestioni precedenti rispetto a quella in essere, così come la loro consegna, comporteranno perdite di tempo non indifferenti, proporzionali ai numeri di annualità ed alla consistenza del condominio.
Sarà opportuno che ogni amministratore, in quel documento che dovrà fornire al condominio – ex Art. 1129 cod. civ. – all’atto della nomina, specifichi chiaramente la sua richiesta economica per la presa in consegna di ogni documentazione pregressa ed anche per la eventuale successiva consegna dei documenti al suo successore.
Che cosa può succedere se l’amministratore uscente non consegna la documentazione condominiale o ne consegna solo una parte?
Egli può essere chiamato in giudizio, ex Art. 1713 cod. civ. e Art. 700 cod. proc. civ., onde evitare danni ai condomini.
Nell’ipotesi che la cessazione dell’incarico avvenga durante la gestione annuale, l’amministratore è tenuto a fornire una rendicontazione generale delle spese effettuate e degli incassi ricevuti, e questo per rendere più agevole e meno traumatica la cessazione del rapporto.
In occasione del passaggio delle consegne, a metà gestione o comunque a gestione già iniziata, il nuovo amministratore può ben ricevere attestazione e documenti relativi a spese sostenute dal precedente collega o incassi avvenuti nel periodo precedente, ma non può in alcun modo approvare tale situazione contabile, se non preventivamente autorizzato dall’assemblea.
L’accettazione di tali documenti contabili non costituisce dimostrazione di un possibile credito a favore dell’amministratore uscente, in quanto solo l’assemblea, in apposita riunione, potrà approvare il conto consuntivo conseguente (Cass. 28 maggio 2012, n. 8498).
È utile ricordare che la Magistratura è sempre stata univoca nel ritenere che l’obbligo della consegna di tutta la documentazione in possesso dell’amministratore uscente è imprescindibile.
Nella ipotesi, infine, che l’amministratore uscente ritenga necessario od opportuno, per motivi suoi, di detenere copia di qualche documento, nessuna norma impedisce di estrarre fotocopia del documento, purché l’originale venga diligentemente consegnato.
È la parete o muro anteriore esterno di un edificio dov’è l’ingresso principale e di maggior importanza architettonica.
Prima dell’entrata in vigore della nuova legge 220/2012, il vecchio codice non menzionava le facciate, ma all’Art. 1120 cod. civ. parlava di decoro architettonico.
In effetti sono due cose diverse, in quanto il decoro architettonico riguarda tutto l’immobile nel suo complesso e non solo le facciate che – pur importanti – ne rappresentano solo una parte.
Per facciata si intende quello che appare, nel suo insieme, a chiunque si posizioni davanti ad un fabbricato e ne valuti i pregi estetici.
L’estetica ed il decoro architettonico spaziano su una gamma di considerazioni: l’ingresso ha una sua valenza ed importanza su tutto il fabbricato, l’ampiezza del vano scale, la cura dell’area a giardino, la gradevolezza di tutte le varie parti condominiali concorrono a qualificare e quantificare il concetto di estetica.
La facciata ne è quindi una parte, seppur importante.
Recentemente la Cassazione (4 aprile 2008, n. 8830) ha sentenziato che la facciata ed il suo decoro architettonico, sia pure estremamente semplice, sono un bene comune ed il loro mantenimento deve essere tutelato indipendentemente dalla validità estetica delle modifiche che si intendono apportare.
La facciata è la parte esterna e visibile dei muri perimetrali – egualmente comuni – e riguarda l’intonaco, il rivestimento, la coloritura, i balconi, le lesene, le porte, le finestre, le serrande e il cornicione: tutte queste cose concorrono a formare la facciata e quindi qualsiasi opera o manomissione che riguardi una di queste parti, riguarda e coinvolge la facciata.
Ed il rispetto della stessa costituisce un limite al potere del singolo condomino di apportare le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune.
La facciata rappresenta l’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la parte principale ed imprimono a tutto l’edificio una sua autonomia.
L’Art. 1117 cod. civ. la elenca fra le parti comuni e l’Art. 1120 cod. civ., ultimo comma, vieta le modifiche che possano alterare l’aspetto architettonico, qualunque esso sia, ed in tal senso si è espressa la Cassazione, con sentenza n. 17398 del 30 agosto 2004.
In una eventuale causa, l’indagine volta a stabilire se, concretamente, una qualsiasi modifica alle facciate del condominio determini o meno una alterazione delle sue linee architettoniche, è demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se congruamente motivato (Cass. 7 marzo 1988, n. 2313).
In proposito è stato affermato che il giudice, nel decidere dell’incidenza di una modifica sulla facciata e sul suo decoro architettonico, deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore, in considerazione delle caratteristiche dell’edificio o della parte interessata, accertando anche se esso avesse originariamente ed in quale misura una unitarietà di linee e di stile.
In proposito viene ribadito che l’accertamento del danno estetico sulla facciata è demandato alla discrezionalità del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 15 aprile 2002, n. 5417).
La facciata è quindi un bene comune e non è necessario che si tratti di un edificio di particolare pregio artistico, ed è un bene comune immateriale, e quindi tutelabile solo da parte dei condomini, e l’eventuale autorizzazione amministrativa dei lavori di modifica non impedisce il sindacato di merito sulla lesione del decoro.
Il Pirelli, sulla facciata di pregio, afferma – nel caso essa sia la componente di un primo edificio seguito da altri, nel caso quindi di un supercondominio con facciate non particolarmente artistiche, che se tutto il complesso trae valorizzazione dalla facciata esterna del primo immobile, ciò crea l’obbligo giuridico per tutti i condomini dei vari fabbricati al mantenimento della suddetta facciata.
Ma se la facciata è normale, e pur se diversa dalle altre, il concetto non è più applicabile, in quanto non si può ritenere che la facciata non di pregio, seppure esposta sulla pubblica via, renda economicamente più apprezzabili gli edifici interni.
Un problema che si ricollega con le facciate e con i muri perimetrali – ma di cui parleremo maggiormente trattando, appunto, i suddetti muri – è rappresentato dal fenomeno della condensa.
La presenza di umidità e di condensa nelle murature e negli ambienti sono tra le cause principali di degrado e di insalubrità di un fabbricato: si manifesta attraverso macchie, che sono vere e proprie alterazioni biologiche, muffe, distacco o esfogliazioni degli intonaci, specialmente nei muri delle facciate esposte a nord o nelle fondazioni interrate o seminterrate.
Nel caso il fenomeno sia causa di danni ai singoli condomini, nei confronti di costoro è responsabile in via autonoma il condominio (ex Art. 2051 cod. civ.), che è tenuto – quale custode – ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria (Cass. 15 aprile 1999, n. 3753).
Apertura nelle pareti degli edifici per aerazione e illuminazione ed i battenti che servono per aprirla o chiuderla.
Le finestre delle singole unità immobiliari, pur facendo parte della facciata, e quindi dell’aspetto architettonico del condominio, pur creando vani ed aperture nei muri perimetrali e nei muri maestri, non sono di proprietà condominiale, ma fanno parte integrante dell’unità immobiliare a cui appartengono, poiché esse servono esclusivamente per dare aria e luce alla stessa.
Fanno parte integrante ed accessoria della finestra le avvolgibili o gli scuretti, le inferriate ed i bancali, e pertanto ogni spesa di manutenzione, riparazione, sostituzione o coloritura deve essere di competenza del proprietario dell’unità immobiliare interessata (Cass. 21 maggio 1994, n. 4996).
Allo stesso condomino, a norma dell’Art. 1102 cod. civ., è riconosciuta la facoltà di aprire, chiudere, allargare o modificare le finestre, nonché di trasformare una finestra in porta, salvo che la modifica apportata non leda l’armonia architettonica della facciata, non rechi danno alle parti comuni dell’edificio e non alteri la destinazione della cosa comune (Cass. 29 marzo 1994, n. 3084).
L’apertura di finestre e - si vedrà – anche di porte, è consentita, fatta salva la limitazione per tutelare la stabilità del fabbricato o del suo decoro architettonico.
Queste aperture spesso rompono l’armonia della facciata, ma la sua creazione è stata giudicata legittima (Cass. 11 gennaio 1997, n. 240).
Essa però non deve creare una servitù di veduta, poiché una finestra non consente solo di guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi e di guardare, quindi, anche lateralmente (Cass. 1 dicembre 2000, n. 15371).
Per stabilire se le opere modificatrici della cosa comune hanno pregiudicato il decoro architettonico della facciata, devono essere tenute presenti le condizioni in cui essa si trovava prima della esecuzione delle opere, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole se eseguita su un fabbricato la cui estetica risultava già menomata a seguito di precedenti lavori, o se già in partenza di mediocre livello architettonico (Cass. 29 luglio 1989, n. 3549).
La giurisprudenza si è pronunciata anche in ordine alle manutenzioni delle persiane, delle tapparelle avvolgibili o delle serrande, affermando che il mutamento della colorazione degli infissi esterni del condominio, che si ricolleghi all’esigenza di una più larga loro conservazione, configura innovazione rivolta al miglioramento della facciata comune, ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., primo comma, e – pertanto – può essere validamente deliberata dall’assemblea dei condomini con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ., non occorrendo l’unanimità dei condomini (Cass. 7 novembre 1977, n. 4755).
La Corte di Appello di Milano, 14 aprile 1989, ha affermato che deve considerarsi legittima l’installazione di inferriate alle finestre di un’unità immobiliare, in quanto l’opera non comporta alcun turbamento estetico nella simmetria del condominio ed alle linee architettoniche della facciata.
L’installazione di inferriate migliora la sicurezza delle varie unità immobiliari e, poiché non apporta turbamento estetico e non impedisce agli altri partecipanti di farne eguale uso, essa è consentita a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
La stessa Corte di Appello di Milano, 19 settembre 1989, si è pronunciata anche sulla installazione dei doppi telai.
I doppi telai sono nuovi telai a vetri che si installano sul filo esterno della finestratura e creano una conseguente intercapedine fra il nuovo telaio esterno e quello vecchio interno.
Poiché hanno incidenza sull’estetica della facciata, la loro installazione necessita di benestare assembleare.
Apertura nelle pareti degli edifici per aerazione e illuminazione ed i battenti che servono per aprirla o chiuderla.
Le finestre delle singole unità immobiliari, pur facendo parte della facciata, e quindi dell’aspetto architettonico del condominio, pur creando vani ed aperture nei muri perimetrali e nei muri maestri, non sono di proprietà condominiale, ma fanno parte integrante dell’unità immobiliare a cui appartengono, poiché esse servono esclusivamente per dare aria e luce alla stessa.
Fanno parte integrante ed accessoria della finestra le avvolgibili o gli scuretti, le inferriate ed i bancali, e pertanto ogni spesa di manutenzione, riparazione, sostituzione o coloritura deve essere di competenza del proprietario dell’unità immobiliare interessata (Cass. 21 maggio 1994, n. 4996).
Allo stesso condomino, a norma dell’Art. 1102 cod. civ., è riconosciuta la facoltà di aprire, chiudere, allargare o modificare le finestre, nonché di trasformare una finestra in porta, salvo che la modifica apportata non leda l’armonia architettonica della facciata, non rechi danno alle parti comuni dell’edificio e non alteri la destinazione della cosa comune (Cass. 29 marzo 1994, n. 3084).
L’apertura di finestre e - si vedrà – anche di porte, è consentita, fatta salva la limitazione per tutelare la stabilità del fabbricato o del suo decoro architettonico.
Queste aperture spesso rompono l’armonia della facciata, ma la sua creazione è stata giudicata legittima (Cass. 11 gennaio 1997, n. 240).
Essa però non deve creare una servitù di veduta, poiché una finestra non consente solo di guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi e di guardare, quindi, anche lateralmente (Cass. 1 dicembre 2000, n. 15371).
Per stabilire se le opere modificatrici della cosa comune hanno pregiudicato il decoro architettonico della facciata, devono essere tenute presenti le condizioni in cui essa si trovava prima della esecuzione delle opere, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole se eseguita su un fabbricato la cui estetica risultava già menomata a seguito di precedenti lavori, o se già in partenza di mediocre livello architettonico (Cass. 29 luglio 1989, n. 3549).
La giurisprudenza si è pronunciata anche in ordine alle manutenzioni delle persiane, delle tapparelle avvolgibili o delle serrande, affermando che il mutamento della colorazione degli infissi esterni del condominio, che si ricolleghi all’esigenza di una più larga loro conservazione, configura innovazione rivolta al miglioramento della facciata comune, ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., primo comma, e – pertanto – può essere validamente deliberata dall’assemblea dei condomini con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ., non occorrendo l’unanimità dei condomini (Cass. 7 novembre 1977, n. 4755).
La Corte di Appello di Milano, 14 aprile 1989, ha affermato che deve considerarsi legittima l’installazione di inferriate alle finestre di un’unità immobiliare, in quanto l’opera non comporta alcun turbamento estetico nella simmetria del condominio ed alle linee architettoniche della facciata.
L’installazione di inferriate migliora la sicurezza delle varie unità immobiliari e, poiché non apporta turbamento estetico e non impedisce agli altri partecipanti di farne eguale uso, essa è consentita a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
La stessa Corte di Appello di Milano, 19 settembre 1989, si è pronunciata anche sulla installazione dei doppi telai.
I doppi telai sono nuovi telai a vetri che si installano sul filo esterno della finestratura e creano una conseguente intercapedine fra il nuovo telaio esterno e quello vecchio interno.
Poiché hanno incidenza sull’estetica della facciata, la loro installazione necessita di benestare assembleare.
Parti delle costruzioni che penetrano nel terreno per raggiungere un piano stabile di appoggio, sul quale diffondere i carichi soprastanti.
Sono incluse nella parte prima dell’Art. 1117 cod. civ., e sono – quindi – parti comuni senza ombra di dubbio e gravano sul suolo, egualmente parte comune.
Esse possono essere a travi continue, a platea, a plinti o su palificazioni: ciò è in dipendenza delle caratteristiche e consistenze del suolo nonché delle strutture, carichi e piani che si intendono costruire.
Possono anche essere in mattoni.
Visivamente ed esteticamente non esiste alcuna differenza tra le fondazioni a trave continua o a trave rovescia, in quanto ciò che le differenzia è il tipo e la disposizione dell’armatura interna, cioè dei ferri per cemento armato.
Le fondazioni a platea si costruiscono quando il terreno non è sufficientemente solido, e consiste in una gettata di cemento di adeguato spessore, sparso su tutta la superficie del costruendo fabbricato, con i ferri di armatura opportunamente disposti in corrispondenza dei futuri, soprastanti muri portanti e delle pilastrature.
Le fondazioni a plinti si erigono quando il soprastante fabbricato è previsto in pilastri di cemento, ed il plinto sarà il punto di partenza di ogni singolo pilastro.
Il plinto avrà un area pari a quattro o cinque volte quella del soprastante pilastro, con spessore ed armatura in ferro proporzionata ai carichi che dovrà sopportare.
Le palificazioni – in ferro o in cemento armato – consistono in pali di diversa superficie, generalmente di forma cilindrica, che vengono a forza infissi nel terreno quando lo stesso non presenta sufficienti garanzie di tenuta – spugnoso, franoso od altro – ed avranno lunghezza, spessori e diametri in funzione dei futuri carichi soprastanti.
I pali di fondazione potranno avere misure variabili a seconda dei carichi ai quali verranno sottoposti, ma rispetto al piano di partenza del fabbricato saranno alla stessa altezza e verranno collegati con opportune travi continue o rovesce e dalle quali inizieranno le fondazioni vere.
In pratica le palificazioni sono da considerarsi strutture di sottofondazione, necessarie per la non garanzia e sicurezza offerte dal terreno condominiale, per quanto riguarda la sua consistenza fisica e morfologica.
Le fondazioni in mattoni, o pietre naturali, sono presenti solo nei vecchi fabbricati costruiti prima che il cemento venisse conosciuto e considerato più idoneo.
Fra il suolo e i vari tipi di fondazione viene generalmente posizionato un vespaio in ciottoli o ghiaia, che serve per pareggiare il piano di posa delle fondazioni vere e proprie e quale appoggio per le stesse.
Anche il vespaio deve considerarsi parte dell’intelaiatura muraria e quindi della collettività condominiale (Cass. 4 aprile 1978, n. 1524).
Al singolo è pertanto impedito di modificarlo unilateralmente per eventualmente ottenere un’area libera da aggiungere a quella del proprio vano.
Però, se il vespaio consiste in una struttura, quale ad esempio un solaio in laterocemento o in massello cementizio sul quale poggia l’eventuale pavimentazione a servizio dell’unità immobiliare sovrastante, ciò costituisce un manufatto ben distinto dalle fondazioni, ed è al servizio esclusivo di detta proprietà individuale (Cass. 7 giugno 1993, n. 6357).
Invece l’intercapedine esistente fra il piano di posa delle fondazioni – e che costituisce il suolo del fabbricato – e la prima struttura del piano interrato, è da considerarsi comune, in quanto destinata all’aerazione o coibentazione del fabbricato (Cass. 17 marzo 1999, n. 2395).
Già era stato detto che le intercapedini sono dirette a soddisfare esigenze di igiene e sicurezza, in quanto sono destinate a far circolare l’aria e ad evitare umidità ed infiltrazioni di acqua, e ciò a vantaggio non solo dei piani interrati o seminterrati, ma anche delle fondazioni e dei pilastri, che son parti comuni necessarie per l’esistenza di tutto il fabbricato (Cass. 10 maggio 1996, n. 4391).
Ancor più di recente è stato confermato che il suddetto vuoto tecnico, esistente fra le fondazioni e l’unità immobiliare soprastante, rientra fra i beni comuni elencati dall’Art. 1117 cod. civ., in quanto svolge la funzione di camera d’aria delle parti comuni, essendo destinato ad impedire l’umidità ascendente nei muri maestri e sulle fondazioni (Cass. 16 novembre 2006, n. 24415).
Esso è un terreno con colture erbacee e arboree di tipo ornamentale.
Se non altrimenti indicato dal titolo, il giardino posto a lato dell’area cortiliva, ed anche se non menzionato dall’Art. 1117 cod. civ. è da considerarsi comune (Cass. 18 marzo 1972, n. 828).
Rispetto al cortile, il giardino ha funzione completamente diversa.
Come abbiamo visto trattando il cortile, esso serve principalmente per dare aria e luce al condominio che vi si affaccia, ma anche per il passaggio, il parcheggio, il deposito di materiali, il gioco dei bambini ed a qualsiasi altra funzione deliberata dall’assemblea.
I giardini, invece, hanno funzione di ornamento del fabbricato, ne aumentano il valore economico complessivo ed offrono ai residenti la possibilità del riposo fisico e ristoro nei mesi caldi.
A volte la trasformazione del cortile in giardino è successiva alla costituzione del condominio, ed in questo caso è stato ovviamente necessario un cambio di destinazione, un tempo abbastanza problematico.
Ora, in forza della riforma del codice ed in base – quindi – dell’Art. 1117 ter cod. civ., è possibile modificare la destinazione d’uso delle parti comuni.
Conseguentemente sarà possibile modificare la destinazione da cortile in giardino con i quattro quinti dei partecipanti e dei millesimi.
È ovvio che con la stessa maggioranza si può trasformare il giardino in area cortiliva, ad esempio per aumentare le aree a parcheggio.
Con l’ottanta per cento dei condomini e dei millesimi si può quindi eliminare il bello per migliorare il comodo.
Sentenze ormai datate (Cass. 14 novembre 1977, n. 4922) imponevano la votazione a favore della totalità dei condomini.
Così come il cortile, anche il giardino o parte di esso, può essere destinato ai giochi dei bambini, ma in questo caso il titolo, o più facilmente il regolamento di condominio, dovranno disciplinare la contemporanea esigenza di divertimento dei condomini e loro familiari con quella degli altri residenti, che non intendono subire rumori od urla, almeno durante determinati orari.
Infatti, nulla vieta che l’area a giardino possa essere utilizzata per il gioco dei bambini, non essendo ciò in contrasto con la sua destinazione.
È però indispensabile che l’assemblea disciplini l’uso e gli orari, onde non arrecare pregiudizio alla quiete degli altri residenti e danni alle piante.
Se, invece, il regolamento contrattuale vieta l’utilizzo da parte dei residenti dell’area verde – onde preservare piante, fiori e manto erboso - nessuno potrà calpestare l’area, che potrà anche essere delimitata da una recinzione (Cass. 21 settembre 1977, n. 4036).
E ciò anche perché in tale recinzione non si ravvisa certamente una innovazione, e potrà essere deliberata a maggioranza.
La buona manutenzione del giardino è importante per il decoro del condominio e pertanto le spese relative dovranno essere addebitate a tutti i condomini, nessuno escluso.
Infatti, dall’esistenza di un giardino ben curato, a tutte le unità immobiliari deriva maggior pregio.
Il discorso vale anche per le unità immobiliari che non hanno accesso diretto all’area verde; è però possibile che il regolamento contrattuale, nel silenzio del rogito, preveda l’esonero di determinate unità immobiliari, quali autorimesse, magazzini interrati o negozi, che non si affacciano sul giardino.
Esistono anche unità immobiliari posizionate al piano terra che possiedono in esclusiva dell’area a giardino, magari di modesta superficie, opportunamente delimitate e con accesso privato.
La cura ed il mantenimento di questa area verde è di esclusiva competenza degli effettivi proprietari, che dovranno mantenerla in essere e senza poter apportare notevoli modifiche.
In vari fabbricati esistono anche i giardini pensili, siti cioè sui terrazzi ad uso esclusivo e quindi di esclusiva proprietà.
A questo proposito può essere interessante rilevare che il peso di terreno, vasi e piante deve essere contenuto e non superare la portata utile del terrazzo.
Se il manto erboso o le piante non sono contenute in vasi, è indispensabile vigilare affinché l’apparato radicale non pregiudichi l’impermeabilizzazione disposta sotto la pavimentazione, e che l’acqua di irrigazione e di risulta venga opportunamente canalizzata e non danneggi le unità immobiliari sottostanti.
Nel caso poi si rendessero necessari lavori di rifacimento di impermeabilizzazioni e pavimentazioni, i suddetti lavori – salvo diversa convenzione – verrano ripartiti a norma dell’Art. 1126 cod. civ., ma la demolizione ed asportazione di tutte le componenti del giardino pensile, nonché il successivo rifacimento, saranno ad esclusivo carico del proprietario od usuario del lastrico.
Canale di varia sezione, sospeso a tetti e terrazze per raccogliere le acque piovane e portarle ai pluviali.
La grondaia non è compresa fra le parti comuni elencate nell’Art. 1117 cod. civ., ma poiché è un impianto complementare del tetto, che è una parte comune indispensabile, essa è ugualmente comune.
La grondaia può essere in lamiera zincata, in rame, in acciaio inox o in plastica.
Può essere appesa al tetto con appositi ganci o contenuta nel cornicione, ed in esso inserita.
Può essere rotonda, cioè a mezzaluna, o rettangolare, e formata da pezzi di una certa lunghezza, saldati e rivettati, e disposti in moderata pendenza, per convogliare le acque raccolte verso gli imbocchi.
Esistono anche grondaie costruite in guaina bituminosa, adattata al profilo interno del cornicione e ad esso saldate.
In qualsiasi materiale sia costruita la grondaia, è opportuno che il suo sviluppo sia abbastanza largo, per evitare che, in caso di abbondanti piovute o di neve gelata, la grondaia si riempia e tracimi verso l’interno causando infiltrazioni sui muri perimetrali o all’interno dei locali più vicini.
Qualunque propagazione di fumo, rumore o odore, proveniente dal vicinato.
Le immissioni sono i rumori, le esalazioni, i fumi che si propagano da una proprietà all’altra.
Nella vita condominiale è inevitabile che certe immissioni si verifichino: dal piano inferiore al superiore possono aversi propagazioni di fumo o esondazioni diverse, da quello superiore agli inferiori un gocciolamento di acqua o altri prodotti.
L’Art. 844 cod. civ. precisa che non è possibile impedire le succitate immissioni se esse non superano la normale tollerabilità, avuto riguardo alle condizioni dei luoghi.
La Suprema Corte, in merito, ha disposto che la normale tollerabilità deve essere valutata in relazione al luogo in cui le immissioni si propagano e non alla provenienza (Cass. 30 luglio 1984, n. 4523).
È, quindi, tutto incentrato sulla normale tollerabilità, per cui le immissioni possono essere accettate a condizione che il disturbo lamentato non superi un livello di sopportazione normale.
Generalmente nei regolamenti condominiali sono inserite disposizioni atte ad evitare disturbi provenienti dalle possibili attività che si svolgono nell’immobile.
I disturbi lamentati non sempre riguardano le parti di proprietà individuale, ma possono interessare le cose comuni o luoghi comuni (Cass. 6 aprile 1983, n. 2396).
Le principali immissioni che disturbano i condomini, e che possono risultare dannose, seppur sarà di difficile valutazione il loro grado di tollerabilità, riguardano i fumi, gli odori, i rumori, il calore.
FUMO
Può provenire da una canna fumaria condominiale o da una canna privata.
Nel caso il disturbo provenga da un impianto condominiale, sarà l’amministratore a dover vigilare e prendere i più opportuni provvedimenti per eliminare o almeno ridurre tali immissioni.
Nel caso l’amministratore, o anche l’assemblea, non provvedano nel modo dovuto e con la tempestività necessaria, la parte che si ritiene danneggiata potrà rivolgersi al giudice.
Se le esalazioni provengono, invece, da canne fumarie collegate ad impianti autonomi, installate all’esterno delle unità immobiliari, eventualmente in prossimità di finestre altrui, necessiterà verificare la potenziale pericolosità del combustibile e la regolarità dell’impianto stesso.
Accertato, ex Art. 844 cod. civ., che le immissioni arrechino disagi o molestie superiori alla norma si potrà richiedere la eliminazione o la messa a norma (Cass. 1 agosto 1997, n. 7143).
ODORI
Diversi tipi di esalazioni risultano intollerabili e si dovrà cercare di ridurli o eliminarli: odori alimentari, odori di fognatura, odori di animali.
L’odore di cottura di certi cibi – cavolo, pesce od altro – possono essere eliminati con opportune canne di aspirazione ed imponendo la chiusura di porte e finestre, per evitare che gli odori si propaghino nelle unità private ma anche nelle parti comuni.
Esistono, poi, le esalazioni causate dagli animali ospitati nelle aree private del condominio.
L’ultimo comma del novello Art. 1138 cod. civ., dispone che nessun regolamento potrà vietare la detenzione di animali nelle singole proprietà private.
Qualcuno ha basato la sua campagna elettorale o le sue fortune politiche su questa clausoletta, ignorando – volutamente o per insapienza – che non è la detenzione in se’ che può dare disturbo, ma sono gli odori sgradevoli che provengono da certe proprietà – per colpa di animali e non solo – ed anche per le inopportune soste fisiologiche all’interno delle aree condominiali, investendo tali comportamenti riprovevoli anche la sicurezza e l’igiene dei residenti.
Nessun problema per la detenzione degli animali, a condizione imprescindibile che i loro proprietari siano consapevoli che ben pochi sono disponibili ad accettare i comportamenti sconvenienti delle bestiole (Cass. 4 dicembre 1993, n. 12028).
RUMORE
Altrettanto frequenti e non meno fastidiose sono le immissioni sonore.
Nel caso di animali, i continui miagolii o latrati irrefrenabili – specialmente nelle ore notturne – possono ledere il diritto alla salute, all’equilibrio ed al benessere psicofisico.
È quindi indispensabile, indipendentemente dai regolamenti condominiali o dagli articoli di legge, che tali situazioni siano regolamentate, poiché il bene della salute ha carattere primario ed assoluto, e nell’ambito della tutela dei diritti assoluti assicurata dagli Artt. 2043 e 2058 cod. civ. deve essere protetto contro qualsiasi attività che possa menomarlo.
Questo, ovviamente, non solo riferito al rumore degli animali, ma a qualsiasi immissione acustica superiore al tollerabile, quali radio, televisione, strumenti musicali, officine o altre attività.
In tali casi, non potendosi evitare le attività collegate o l’utilizzo di apparecchi sonori, anziché inibire l’uso nei luoghi in cui essi si trovano, sarà sufficiente imporre l’esecuzione di opere atte ad eliminare o ridurre i rumori (Cass. 6 aprile 1983, n. 2396 citata).
CALORE
Anche la immissione di calore, proveniente in modo eccessivo – specialmente nei mesi non freddi - dalla centrale termica condominiale, da impianti privati, da ristoranti o pizzerie, da condizionatori d’aria, deve essere controllata e regolamentata.
Generalmente la temperatura è spesso collegata al rumore del macchinario che la produce, e pertanto si dovrà richiedere la riduzione della temperatura ma anche della rumorosità.
Nel caso non raro che ciò avvenga a seguito di una attività economica svolta nei locali vicini, si deve tener presente che, fra le esigenze del privato e quelle della attività, prevale sempre l’esigenza ed il rispetto del privato (Cass. 15 marzo 1993, n. 3090).
In tutte le ipotesi prospettate, spesso la causa delle immissioni è da ascrivere al conduttore e non al proprietario locatore.
In tali casi si potrà agire direttamente nei confronti di esso conduttore, senza coinvolgere il locatore (Cass. 1 dicembre 2000, n. 15392).
Complesso di attrezzature necessarie per qualche cosa.
In un fabbricato in condominio esistono vari tipi di impianti, ed i principali sono:
− impianto di riscaldamento e di condizionamento,
− impianto di ascensore,
− impianto idraulico,
− impianto elettrico,
− impianto radiotelevisivo,
− impianto dei campanelli,
− impianto citofonico o videocitofonico,
− impianto di distribuzione del gas,
− impianto fognario,
− impianto telefonico,
− impianto di protezione antincendio.
L’elencazione degli impianti, non tassativa, è al punto tre dell’Art. 1117 cod. civ., ovvero quella parte dell’articolo che indica cose inserite nel condominio, che possono esistere o mancare, senza che questo pregiudichi l’esistenza del condominio stesso.
Infatti, la prima parte elenca strutture indispensabili, senza le quali il condominio non potrebbe esistere.
La seconda parte elenca strutture o locali che possono anche non esistere, ma, se sono presenti, essi sono sicuramente condominiali.
La terza parte elenca gli impianti che per le loro caratteristiche possono mancare o essere presenti, e nel caso siano presenti non è detto che siano di tutto il condominio, ma possono esserlo di una parte sola.
Gli impianti verranno elencati sotto la voce che li caratterizza, data la diversità e complessità di alcuni di loro.
Gli impianti presenti in un fabbricato sono soggetti alle norme di cui alla legge del 5 marzo 1990, n. 46 – che tutti conoscono sotto la dicitura “46/90” – parzialmente modificata dal D.P.R. del 6 giugno 2001, n. 380.
L’installazione, la trasformazione, l’ampliamento e la manutenzione deve sempre essere effettuata da imprese iscritte nel registro delle ditte o nell’albo provinciale delle imprese artigiane.
È quindi indispensabile che l’amministratore affidi la manutenzione, riparazione dei detti impianti – almeno quelli più pericolosi – a ditte specializzate e del settore, per evitare possibili provvedimenti penali in caso di incidenti.
In casi simili potrà egualmente essere chiamato in causa, ma potrà – almeno – dimostrare di avere affidato le opere a personale qualificato e non ad occasionali dopolavoristi.
È, infine, il caso di ricordare che gli impianti sono di proprietà comune fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini.
Qualità di ciò che è inderogabile ed a cui bisogna assolutamente attenersi.
Le norme di diritto privato si distinguono a seconda della loro derogabilità – norme dispositive – o inderogabilità – norme imperative o cogenti -.
Le norme di carattere inderogabile sono caratterizzate anche dalla tutela delle stesse, approntata dal nostro ordinamento giuridico.
Questo, infatti, sancisce la nullità assoluta, chiamata anche nullità di protezione, delle clausole tese a derogare quanto stabilito dalle norme inderogabili.
Sfugge, secondo la dottrina maggioritaria, a questa particolare sanzione, il caso della derogabilità in melius, che sussiste quando le modifiche apportate siano orientate a concedere una maggiore tutela rispetto alla stessa norma derogata.
Le norme inderogabili, che riguardano il condominio, sono elencate nell’Art. 1138 cod. civ. e nell’Art. 72 disp. att. e trans. cod. civ., ed esattamente:
Art. 1118 secondo comma - Il condomino non può rinunciare al suo diritto sulle parti comuni;
Art. 1119 - Indivisibilità delle parti comuni del condominio;
Art. 1120 - Innovazioni e disposizioni su quelle parti comuni che la legge considera innovative;
Art. 1129 - Nomina, revoca ed obblighi dell’amministratore;
Art. 1131 – Rappresentanza dell’amministratore nei confronti dei condomini;
Art. 1132 – Dissenso dei condomini rispetto alle liti e possibilità per il condomino dissenziente di non aderire ad una lite;
Art. 1136 – Costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni;
Art. 1137 – Impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea;
L’Art. 72 disp. att. e trans. cod. civ. sancisce la inderogabilità delle seguenti disposizioni:
Art. 63 – Riscossione dei contributi condominiali e possibilità per l’amministratore di richiedere decreto ingiuntivo nei confronti dei morosi;
Art. 66 – Convocazione dell’assemblea straordinaria e modalità operative conseguenti;
Art. 67 – Sulle deleghe, sulla gestione dei supercondominii superiori a sessanta partecipanti, nudo proprietario ed usufruttuario;
Art. 69 – Possibilità di revisione delle tabelle millesimali.
Tutti gli articoli elencati sono quindi inderogabili e nessuna deliberazione – anche totalitaria – può apportare la minima modifica.
Gli altri articoli, sia del Codice che delle norme di attuazione, possono essere discussi e modificati, a condizione che la deliberazione sia assunta con la totalità dei voti.
Quando si parla di totalità dei voti non ci si riferisce ad una unanimità assembleare, per quanto qualificata e corposa: ci si riferisce ad una deliberazione con l’adesione di mille millesimi.
Per gli articoli inderogabili, anche questo voto plebiscitario – si ripete – non ha valenza.
Per gli articoli derogabili il voto totalitario è l’unico che può modificare una disposizione del Codice.
Elemento di novità in una situazione esistente.
L’innovazione rappresenta un qualcosa di nuovo rispetto all’edificio già esistente e si estrinseca in qualsiasi modificazione della cosa comune che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria (Cass. 5 novembre 2002, n. 15460).
La stessa sentenza, a conferma anche di un’altra di poco precedente – Cass. 23 ottobre 1999, n. 11936 – precisa che non possono essere considerate innovazioni tutte quelle opere tese a rendere più comodo il godimento della cosa comune.
Per tal motivo, l’installazione di un ascensore in un condominio che ne era sprovvisto è da considerarsi innovazione; la sostituzione della cabina, delle funi di trazione e delle porte da manuali ad automatiche è da considerarsi fra le migliorie e fra le opere di manutenzione straordinaria (Cass. 12 novembre 1970, n. 2373).
Con la nuova Riforma del Codice sono state modificate le disposizioni in merito alle innovazioni.
Il vecchio Art. 1120 cod. civ. prevedeva un’unica maggioranza per deliberare in assemblea una innovazione non gravosa o voluttuaria.
Ora lo stesso articolo, conferma la stessa maggioranza – a norma del quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ. – per le innovazioni tese ad un miglioramento di una parte condominiale, come vedremo.
Ma riduce la maggioranza se oggetto delle deliberazioni sono le opere per migliorare la sicurezza e la salubrità, per eliminare le barriere architettoniche e per l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione televisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo.
Per queste deliberazioni è sufficiente il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti ed almeno cinquecento millesimi.
In base a quanto sopra esposto, con la maggioranza dei partecipanti al condominio (e non, quindi, all’assemblea) ed i due terzi del valore dell’intero edificio si possono deliberare delle innovazioni migliorative.
L’installazione di un impianto di riscaldamento e di raffrescamento – se il condominio ne è privo – l’installazione di un impianto videocitofonico, il mutamento della tipologia degli infissi condominiali esterni, sono tutte opere innovative e da deliberare con il disposto del quarto comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Per tutte le altre opere innovative e migliorative relative alla sicurezza ed alla salute, alla eliminazione delle barriere architettoniche, per il contenimento dei consumi energetici e per tutti i lavori elencati nei punti 1, 2, e 3 dell’Art. 1120 cod. civ. bastano le maggioranze del secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Esistono anche opere che, seppur deliberate con le maggioranze di legge, non possono essere attuate.
Sono quelle opere innovative che – se attuate – pregiudicherebbero la stabilità del condominio, danneggerebbero il decoro architettonico o potrebbero rendere inservibile il pari uso anche ad un solo condomino.
Per pari uso di una parte condominiale non si deve intendere un uso identico a quello di coloro che eventualmente abbiano deliberato o attuato una nuova opera, ma di una innovazione che – pur arrecando un danno ad un solo condomino - non impedisce l’uso in modo totale, ma in forma tollerabile (Cass. 25 ottobre 2005, n. 20639).
Anche l’Art. 1121 cod. civ. tratta le innovazioni, ma quelle gravose o voluttuarie, e dispone che – indipendentemente dalla tipologia dei lavori e delle diverse maggioranze deliberative di cui all’Art. 1120 cod. civ. – nel caso l’opera innovativa sia suscettibile di utilizzazione separata – impianto di riscaldamento o di raffrescamento, impianto di ascensore, impianto televisivo o videocitofonico ecc. – il condomino o i condomini che non intendono partecipare, in considerazione della spesa o della voluttuarietà della stessa, possono non partecipare alla spesa.
Il secondo ed il terzo comma sono poi particolarmente interessanti.
Il secondo comma dispone che – se l’utilizzazione separata non è possibile – l’innovazione non è consentita, salvo che la maggioranza che l’ha deliberata ed accettata non sia disponibile a sopportarne integralmente il pagamento e lasciando in libero uso la cosa innovata.
Al terzo comma, l’art. 1121 cod. civ., richiamando il primo, afferma che i condomini dissenzienti al momento della deliberazione – o comunque non partecipanti - potranno, in tempi successivi alla delibera ed ai lavori, partecipare ai vantaggi della innovazione, pagandone le spese.
Pensiamo, ad esempio, all’impianto di ascensore – con chiave o con fermata interdetta a qualche piano – e successivamente resa disponibile a chi avrà ritenuto di aderire.
A seguito sempre della richiamata Riforma del Codice, altri articoli – non presenti in passato e quindi nuovi – disciplinano particolari innovazioni, sia private che condominiali.
L’Art. 1122bis cod. civ. – impianti non centralizzati – si rivolge ai singoli condomini, ma nulla vieta ad una minoranza condominiale di installare impianti radiotelevisivi, o comunque informativi, con applicazione delle stesse normative.
In proposito, l’articolo stesso dispone che – nel caso l’impianto innovativo dovesse interessare le parti comuni – l’assenso assembleare dovrà esprimersi a norma del quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ..
Da ultimo, l’Art. 1122ter cod. civ. – impianti di videosorveglianza – autorizza tali installazioni a condizione che esse siano approvate con la maggioranza a norma dell’Art. 1136 cod. civ., secondo comma.
Per questo tipo di impianti è quindi prevista una maggioranza più ridotta rispetto alle innovazioni di cui all’Art. 1122bis cod. civ., ed alcuni Tribunali di merito hanno addirittura escluso che per l’installazione di apparecchiature di videosorveglianza necessiti una delibera assembleare.
Si ha motivo, quindi, di ritenere che un singolo od una minoranza di condomini, rispettate le disposizioni del Garante della Privacy, possano installare impianti di videosorveglianza e sicurezza, a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
Targa con scritte e figure poste all’esterno di negozi o uffici per distinguersi e richiamare l’attenzione.
L’affissione di targhe e insegne sul muro condominiale, a norma dell’Art. 1102 cod. civ., può essere consentita, avendo cura che esse non siano eccessivamente invasive (Cass. 11 febbraio 1999, n. 1162).
Il regolamento di condominio, specialmente se di tipo contrattuale, può impedire la suddetta affissione o limitare il tipo e la grandezza.
A lato del portone d’ingresso, di uguale misura, tipo e materiale, inserite in una apposita cornice, non possono essere considerate antiestetiche, e sono necessarie per richiamare l’attenzione e segnalare agli interessati, la presenza nel condominio di uffici, studi ed attività in genere.
Per i negozi, a volte, l’insegna con la dovuta dicitura è inserita all’interno della vetrina stessa.
Nel caso il regolamento nulla dica, ma, in questa ipotesi, con il benestare assembleare, è possibile installare anche una insegna che occupi lo spazio di più vetrine.
La suddetta insegna potrà essere luminosa, a condizione che non disturbi le finestre soprastanti.
Questo utilizzo dl muro comune – così come l’installazione di canne fumarie, tubature, sfiatatoi e centraline – è fra gli argomenti assembleari più dibattuti, ma generalmente con esito a favore del richiedente (Cass. 17 marzo 2008, n. 7143).
Il maggior pregio dell’Art. 1102 cod. civ. è quello di consentire, per un miglior utilizzo, da parte del singolo, di alcune parti comuni, purché non ne alteri la destinazione, e che ciò che viene messo in atto non impedisca agli altri partecipanti di farne eguale uso.
Una targa o una insegna non dovrebbero creare soverchi problemi, se non nel punto esatto in cui esse vengono affisse (Cass. 3 novembre 2000, n. 14353).
Poiché tali affissioni non violano i diritti altrui e raramente ledono il contemporaneo uso, esse sono consentite senza la preventiva autorizzazione assembleare (Cons. di Stato, Sez. V, 3 gennaio 2006, n. 11).
Tutto questo nel silenzio del regolamento, poiché – in caso di proibizioni o limitazioni in esso contenute – sarà tassativo adeguarsi alle normative emanate, sempre a condizione che tale regolamento – vietando tali affissioni – non comprima il diritto di proprietà esclusiva di ogni singolo condomino.
A conferma, ci soccorre anche una ulteriore sentenza, la quale sancisce che l’apposizione di targhe ed insegne nel prospetto dell’edificio condominiale costituisce espressione del diritto di comproprietà su tale parte comune; ne consegue che l’esercizio di tale facoltà non può essere assoggettato a divieto o subordinato al consenso dell’amministrazione condominiale (Cass. 21 agosto 2003, n. 12298).
Compenso spettante a chi presta delle somme per un certo periodo di tempo.
L’istituto di credito o l’ufficio postale presso il quale obbligatoriamente l’amministratore deve aprire un conto corrente condominiale, conteggia interessi passivi o attivi a seconda dell’andamento economico del conto stesso.
Ogni versamento eseguito dai condomini causa spese tecniche ma produce anche interessi attivi, seppur di modesto importo.
Ogni pagamento o prelievo causa l’addebito di spese bancarie ma anche di interessi passivi.
Se poi il conto corrente non ha disponibilità, non ha capienza, ed il condominio correntista ha possibilità di far egualmente i pagamenti necessari, necessariamente ricorre al credito bancario o postale, ed anche ciò produce interessi passivi, a volte rilevanti.
Normalmente l’amministratore non ha facoltà di ricorrere al credito, e deve attivarsi con la massima diligenza affinché questo non succeda.
Dovrà fare in modo che l’assemblea approvi un preventivo di spesa adeguato, dovrà vigilare affinché le morosità siano il più possibile evitate o comunque ridotte, e se del caso convocare una assemblea straordinaria per segnalare la situazione e richiedere disposizioni.
L’assemblea potrà aumentare la disponibilità dell’amministratore, deliberando una integrazione adeguata del preventivo di gestione, oppure accettare il ricorso al credito bancario.
In questo caso, l’onere degli interessi passivi dovrà essere addebitato e suddiviso secondo il criterio ripartitivo delle spese che lo hanno causato, ove sia possibile individuarlo.
In molte situazioni di morosità condominiale, l’assemblea delibera l’addebito, a carico dei ritardatari, degli interessi uguali a quelli che la banca di riferimento addebita sul conto corrente condominiale.
Oppure delibera di addebitare ai morosi gli interessi legali, maggiorati di tot punti.
Nessun problema sussiste se la deliberazione viene assunta con delibera totalitaria, cioè con mille millesimi, ma la questione è ben diversa se la deliberazione è solo maggioritaria.
Infatti, la deliberazione assembleare presa a maggioranza, che addebiti interessi moratori a carico dei ritardatari nel pagamento delle quote condominiali, è da considerarsi nulla.
Ciò poiché questo potere non rientra fra quelli assembleari, se non con accordo contrattuale, approvato dalla totalità.
Saranno nulle anche eventuali successive deliberazioni in ordine a rendiconti gestionali degli anni a seguire e senza termini di decadenza (Cass. 30 aprile 2013, n. 10196).
Tetto piatto e praticabile di un edificio.
Il lastrico solare, proprio per questa motivazione, non può costituire un bene accessorio del piano sottostante, ma è un bene comune, a condizione che il titolo di acquisto non disponga altrimenti (Cass. 22 novembre 1996, n. 10323; Cass. 16 febbraio 2005, n. 3102).
Queste sentenze ribadiscono quanto già affermato in passato, poiché – anche se il lastrico è accessibile, protetto da ringhiere che consentono la veduta – la sua principale funzione è quella di copertura dell’immobile condominiale o di parte di esso (Cass. 7 marzo 1992, n. 2774).
Ne consegue che in caso di danni a terzi cagionati dalla omessa esecuzione dei lavori di manutenzione, tutti i condomini sono tenuti al risarcimento dei danni (Cass. Sez. Un. 29 aprile 1997, n. 3672, con nota di Scarpa; Cass. 18 maggio 2001, n. 6849).
La succitata sentenza del 2005, n. 3102, puntualizza che il lastrico solare è oggetto di proprietà comune a norma dell’Art. 1117 cod. civ. purché nel titolo non risulti il contrario, in modo chiaro e univoco, in tutti gli atti di acquisto, in quanto la suddetta struttura – quale parte terminale del condominio o di una parte di esso – esercita la primaria funzione di protezione del fabbricato stesso, pur potendo essere utilizzato per altri usi accessori, quale terrazzo, stenditoio od altro.
La struttura portante del lastrico, generalmente in latero cemento o materiali equivalenti, è resa impermeabile e protetta dagli agenti atmosferici da un massetto di livellamento e pendenza, da un possibile strato di materiale termico, dalle guaine impermeabilizzanti in doppio strato e dalla pavimentazione calpestabile.
Se il lastrico non è calpestabile – se non accidentalmente ed in modo sporadico – la suddetta pavimentazione non è indispensabile, ma in questo caso è opportuno proteggere l’elasticità della guaina con speciali vernici, che ne impediscano l’eccessivo indurimento e le alterazioni termiche.
Il trattamento con le apposite vernici deve però essere ripetuto periodicamente.
Così come per il tetto condominiale, anche per il lastrico solare tutta la struttura risulta comune a tutti i condomini, indipendentemente dalla posizione od ubicazione della loro unità immobiliare, e conseguentemente ogni e qualsiasi opera di manutenzione o riparazione dovrà essere ripartita in misura proporzionale al valore delle singole proprietà esclusive (Cass. 9 febbraio 2001, n. 1861).
La concomitanza di una funzione comune ed essenziale ai fini dell’esistenza del fabbricato, come quella della sua copertura ma anche di un possibile utilizzo esclusivo o, anche, di una proprietà esclusiva, hanno indotto il legislatore a distinguere e regolare specificamente – con l’Art. 1126 cod. civ. – la ripartizione degli oneri contributivi relativi a ricostruzione e manutenzione dei lastrici solari e delle terrazze a livello.
Nessuna differenza fisica e strutturale esiste fra il lastrico solare o la terrazza a livello, ma solo giuridica.
Sulla ripartizione delle spese di ricostruzione o manutenzione, si è molto discusso in passato puntualizzando che – se per la terrazza a livello si deve ricorrere al disposto dell’Art. 1126 cod. civ. – per lastrico solare si dovrebbe applicare l’Art. 1125 cod. civ. e non l’Art. 1123 cod. civ.-.
L’Art. 1125 cod. civ. stabilisce che le spese di manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai debbono essere sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti.
Si è infatti disquisito sul fatto che – nel caso di una manutenzione similare, fra due unità ai piani inferiori – la spesa sarebbe stata suddivisa per metà al soprastante condomino e per metà a quello sottostante.
Per analogia si riteneva che, nel caso del lastrico solare comune da ricostruire, la spesa dovesse far capo per metà al condominio in generale – per la parte superiore – e per metà al condomino con la proprietà posta sotto il lastrico.
Sarebbe stato lo stesso ragionamento che la Giurisprudenza ha applicato ai cortili comuni con sottostanti le autorimesse private.
Si era affermato che – addebitando tutta la spesa al condominio – il proprietario dell’ultimo piano avrebbe goduto di una disciplina di privilegio rispetto a quella stabilita per gli altri condomini.
Si è però replicato che il lastrico solare di copertura ha una funzione utile per tutti i vani sottostanti, a differenza dei solai intermedi.
E questo, unito alla maggiore esposizione agli agenti atmosferici del primo rispetto ai secondi, nonché ai più frequenti interventi manutentivi, giustificano l’applicazione ripartitiva di cui all’Art. 1123 cod. civ. e non quella dell’Art. 1125 cod. civ..
Si verrebbe anche a creare una ingiustificabile disparità di trattamento fra i proprietari dell’ultimo piano se il lastrico a loro soprastante è comune o di uso esclusivo, di cui all’Art. 1126 cod. civ..
Nella prima ipotesi il proprietario dell’ultimo piano dovrebbe pagare metà delle spese di riparazione, mentre nella seconda – in forza appunto dell’Art. 1126 cod. civ. – dovrebbe contribuire al pagamento dei due terzi della spesa in base ai suoi millesimi di proprietà (Cass. 18 maggio 2001, n. 6849).
Locale attrezzato per il lavaggio di biancheria e simili.
La lavanderia è elencata fra le parti comuni di cui all’Art. 1117 cod. civ. punto due, cioè fra quelle parti non considerate indispensabili ma che – se esistono – sono condominiali, ma sono anche suscettibili di utilizzazione individuale, ovviamente con opportuna deliberazione a norma dell’Art. 1117ter cod. civ., cambio di destinazione ed alienazione (Cass. 25 marzo 2005, n. 6474).
In assenza di questi provvedimenti, la lavanderia è un locale comune e pertanto sono comuni anche gli impianti e le attrezzature in esso contenuti o posizionati, e necessari per consentire il lavoro a cui è destinato il locale.
La lavanderia è spesso ubicata al piano interrato, al piano terra, nel cortile o all’ultimo piano del fabbricato, in locali non particolarmente appetibili e non diversamente utilizzabili.
È, questa, una di quelle parti comuni che, anche se serve solo una parte dei condomini, è di proprietà di tutto il condominio, perché – più che l’uso - quello che decide sulla loro appartenenza è la destinazione data sin dall’origine.
Con l’avvento delle lavatrici e delle macchine lava e asciuga, questo locale ha perduto la sua principale funzione in quanto sempre minori persone lo utilizzano, se non saltuariamente.
Il regolamento di condominio o, in caso di diverse esigenze d’uso, con decisione maggioritaria, l’assemblea può deliberare eventuali turni di disponibilità o anche trasformare il locale – sempre ricorrendo al disposto dell’Art. 1117ter cod. civ. – per adibirlo ad utilizzazione diversa, fermo però il concetto che esso deve in ogni caso rimanere comune.
Nel locale lavanderia sono generalmente ubicate delle vasche per il lavaggio, con rubinetti per l’acqua calda e fredda.
I consumi dell’acqua dovranno essere addebitati a chi utilizza il servizio, ed, anche se obsolete, le vecchie gettoniere sono quelle apparecchiature che evitano le discussioni fra gli utenti e gli altri condomini.
Spesso esiste anche una fornacella con apposita caldaietta a funzionamento a gas o legna.
Se a legna, ogni utente userà il proprio materiale.
Se a gas, sarà necessario poter calcolare i consumi di ogni interessato all’uso.
La presenza di rubinetterie e di fornacelle comporta l’esistenza di una tubazione di scarico delle acque di risulta e una tubazione di scarico dei fumi.
Entrambe queste tubazioni sono comuni e di competenza di tutto il condominio.
Se il locale lavanderia è sufficientemente ampio, una parte può adibirsi a stenditoio.
Tipo di finanziamento a medio o lungo termine consistente in un contratto di vendita di un immobile fra una società finanziaria, che li ha acquistati, ed una impresa che lo utilizza.
Con questo termine si indica un contratto con il quale una parte si obbliga a cedere all’altra parte, per un tempo definito, una proprietà immobiliare dietro pagamento di una somma di denaro, pagabile in ratei proporzionati al valore dell’immobile stesso.
Detto immobile, di proprietà del locatore, è messo a disposizione dell’utilizzatore che potrà – alla scadenza del periodo contrattuale – divenire proprietario pagando il saldo preventivamente concordato.
Questa forma di particolare compravendita ebbe sviluppo negli Stati Uniti nel 1952 ed arrivò in Italia nel 1963, con alterne fortune.
Il leasing immobiliare si pone a metà strada tra il contratto di locazione e la vendita a rate.
Le rate di pagamento sono più onerose di un semplice contratto di locazione ed alla fine del contratto stesso è previsto il versamento di un importo a saldo, eseguito il quale viene a cessare il rapporto di leasing, e l’utilizzatore diviene proprietario a tutti gli effetti.
Nel caso non venga rispettata anche una sola clausola del contratto di leasing, molti di essi prevedono la risoluzione del contratto stesso.
La giurisprudenza in merito è stata in un primo tempo altalenante – come spesso succede – ed indecisa fra l’applicazione dell’Art. 1458 cod. civ. e l’Art. 1526 cod. civ..
Finalmente – Cass. 13 dicembre 1989, n. 5569 – a conferma anche di alcune altre sentenze in brevissimo lasso di tempo, ha individuato un diverso tipo di leasing, ossia il leasing traslativo.
In ogni caso è consentita la risoluzione consensuale del contratto, ma in questo caso necessita che la società concedente – il locatore – abbia accettato questa regolamentazione pattizia (Cass. Sez. Un., 3 dicembre 1990, n. 11549).
Può essere interessante esaminare gli obblighi dell’utilizzatore – o conduttore – alla luce anche dei suoi rapporti nell’ambito condominiale.
Esso è obbligato a pagare alla scadenza l’importo pattuito dei canoni;
è obbligato a fare buon uso del bene, nell’ipotesi, non sempre remota, di restituzione della stessa alla scadenza del contratto;
è obbligato a provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria del bene, e quindi dovrà essere coinvolto nelle deliberazioni e gestioni condominiali.
Considerando, poi, che l’utilizzatore/conduttore ha il rischio del perimento del bene, nonché la responsabilità per eventuali danni a terzi, è indispensabile che l’oggetto del leasing sia adeguatamente assicurato, indipendentemente dalla eventuale polizza condominiale già esistente.
Può esistere anche una responsabilità penale nella gestione della proprietà in leasing, e poiché detta responsabilità è sempre personale, non vi è dubbio che questa debba gravare sempre sull’utilizzatore, esonerando il concedente da qualsiasi rischio.
Alterco, contesa, litigio.
Il novello Art. 1132 cod. civ. ha mantenuto inalterata la vecchia dizione.
Conseguentemente l’assemblea di condominio può deliberare di promuovere una lite o resistere a una domanda ed il condomino dissenziente può aderire – se si rimette alla decisione maggioritaria – o può separare la propria responsabilità, nel caso il condominio soccomba.
È certamente lecito che il dissenziente non partecipi alla lite, attiva o passiva, ma non di rado il condomino contrario si estranea, forte della considerazione, magari inconfessata: se va male non ci rimetto nulla, se va bene, ci guadagno senza aver rischiato.
D’altra parte, nello spirito democratico delle deliberazioni assembleari, non era possibile – al legislatore – di legiferare in modo diverso.
Tutta la vecchia giurisprudenza, ma lo sarà anche la nuova, non essendo intervenuta nell’Art. 1132 cod. civ. alcuna variazione, è costante nell’affermare che la dichiarazione del condomino dissenziente, di separare la propria responsabilità da quella degli altri partecipanti per il caso di soccombenza del condominio nelle liti deliberate dall’assemblea, è un atto giuridico ricettizio di natura sostanziale da comunicare tempestivamente all’amministratore (Cass. 15 giugno 1978, n. 2967).
La stessa sentenza ha disposto che il dissenso rispetto alla promozione della lite, deve essere notificato all’amministrazione stessa senza bisogno di forme solenni.
La Suprema Corte ha anche sentenziato, a proposito delle eventuali assemblee successive alla prima – quelle in cui si è deliberata la lite – ed ha affermato che, se all’ordine del giorno c’è in argomento la discussione sulla lite stessa, anche il partecipante, che non ha aderito ed anzi ha separato la propria responsabilità, ha diritto di partecipare alla riunione con diritto di voto.
Infatti non può essergli legittimamente disconosciuto il diritto di manifestare la propria volontà, anche se in controtendenza con quella assembleare (Cass. 5 dicembre 2001, n. 15360).
Gruppo che dispone di maggior numero di voti in una assemblea.
Le maggioranze sono sostanzialmente di due tipi: costitutiva e deliberativa.
L’Art. 1136 cod. civ. dispone chiaramente quali e quante siano le prime e le seconde.
La nuova Riforma del Codice non ha modificato la disposizione della prima e della seconda convocazione, di fatto assurda ma tassativa, ma ha confermato la democratica imposizione di teste e millesimi.
Una proprietà con grande caratura millesimale non può deliberare se non dispone anche dell’adesione di un certo numero di piccole proprietà.
La grossa proprietà immobiliare avrà certamente importanza nelle assemblee e nella vita condominiale, ma dovrà sempre mediare, concordare con le piccole proprietà, poiché ogni e qualsiasi deliberazione dovrà essere assunta con due tipi di voti: di millesimi ma anche di partecipanti, cioè di persone che rappresentano – in proprio o per delega – le varie proprietà.
Alla grossa proprietà non è possibile presentarsi in assemblea e suddividere le varie unità immobiliari in gruppi: cioè dieci appartamenti = dieci deleghe.
Conseguentemente i “piccoli” non verranno fagocitati dai grandi, ma potranno votare consapevoli che anche il loro piccolo voto avrà un peso deliberante.
Atto per mantenere qualche cosa efficiente ed in buone condizioni.
Le opere di manutenzione si suddividono in ordinarie e straordinarie, e l’amministratore deve essere sempre in grado di distinguere le une dalle altre.
Sono considerati atti di manutenzione ordinaria tutti quegli interventi tesi a conservare il condominio ed i suoi impianti comuni, impedendo o limitando l’usura del tempo, mantenendo la consistenza e la funzionalità, senza alterare volumi e superfici (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 dicembre 1994, n. 1469).
La manutenzione straordinaria riguarda gli interventi e le opere tendenti a migliorare o sostituire parti comuni dei fabbricati o degli impianti, sempre senza alterare volumi e superfici (Consiglio di Stato, sez. V, 9 gennaio 1996, n. 29).
Da queste brevi considerazioni emerge che non è l’entità economica di ogni singolo intervento a distinguere l’ordinario dallo straordinario, ma la tipologia dell’intervento stesso.
L’Art. 1130 cod. civ. impone all’amministratore di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio.
Gli viene quindi imposto di attivarsi, senza previa autorizzazione dell’assemblea.
L’Art. 1135 cod. civ. riserva, invece, all’assemblea, la facoltà di deliberare l’esecuzione delle opere straordinarie, precisando che l’amministratore non può ordinare lavori straordinari, salvo che rivestano carattere urgente.
Struttura di fabbrica, le cui dimensioni longitudinali e d’altezza prevalgono sullo spessore, costruito mediante sovrapposizione di materiali.
I muri maestri son quelle strutture verticali esterne ed interne che partendo dalle fondazioni salgono fino al tetto ed hanno la funzione di sostenere tutta la costruzione.
Essi possono essere in mattoni, in blocchi di laterizio, in sasso, in cemento armato o in materiali equivalenti.
Parlando di muri maestri parliamo quindi di tutte quelle strutture portanti dell’edificio, compresi pilastri, archi, travi di collegamento e di sostegno nonché strutture di aggetto per opere di fabbrica sporgenti dal filo architettonico principale.
Nel caso di costruzioni con ossatura in cemento armato, il concetto di parte comune si estende anche alla muratura di tamponamento esterno, con qualsiasi materiale esso sia costruito, in quanto – senza di essa – il fabbricato non sarebbe che uno scheletro privo di funzionalità pratica (Cass. 7 marzo 1992, n. 2773).
Le suddette murature, erette per costituire i muri perimetrali, non servono solo a delimitare le singole unità immobiliari, ma costituiscono parte essenziale dell’intero fabbricato, del quale completano la struttura e le linee architettoniche (Cass. 13 dicembre 1977, n. 5438; Cass. 9 febbraio 1982, n. 776).
I muri maestri possono essere sia esterni che interni: gli esterni possono essere con paramenti a vista, rivestiti, intonacati e tinteggiati, con isolamento a cappotto o anche solo al grezzo.
Così come il muro, anche la finitura esterna è sempre di competenza condominiale: tale è la stuccatura dei mattoni o dei sassi che lo compongono, i rivestimenti in pietra naturale, in sasso, ceramica o marmo, gli intonaci e la loro coloritura e – più modernamente – il rivestimento a cappotto, atto a migliorare l’isolamento termico dell’immobile.
Le finiture interne dei muri esterni, quali intonaci, tinteggiature, decori o rivestimenti, sono di proprietà delle unità immobiliari delimitate dai muri stessi.
Pure i muri maestri interni sono condominiali, ma le finiture estetiche degli stessi sono di proprietà – e quindi di competenza – delle unità immobiliari da essi delimitate.
È quindi scontato che – salvo i casi di danni dovuti a strutture condominiali – la manutenzione e conservazione delle finiture estetiche è di competenza delle singole unità immobiliari.
Nessuna differenza giuridica esiste fra i muri di facciata, i muri perimetrali o i muri interni: tutti i muri maestri sono condominiali, compresi quelli che delimitano cortili interni, chiostrine o piccoli cavedii.
Ne consegue che per la loro conservazione e manutenzione devono concorrere tutti i partecipanti al condominio, comprese le unità immobiliari non limitrofe o distanti (Cass. 9 novembre 1993, n. 11435).
L’insieme delle linee esterne delle murature portanti o di tamponamento e le strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante, imprimono all’edificio nell’insieme e nelle singole parti una sua determinata armonica fisionomia, pur senza essere in presenza di particolari pregi artistici e contribuiscono a formare l’estetica ed il decoro del fabbricato (Cass. 23 ottobre 1993, n. 10513).
Non sono invece comuni a tutti i condomini i muri interni di divisoria (tramezzi), che fisicamente concorrono a creare i singoli ambienti delle varie unità immobiliari.
I detti tramezzi – generalmente di spessore inferiore a quello dei muri maestri – sono di proprietà esclusiva o, al massimo, possono essere in comunione fra i proprietari delle unità immobiliari tra loro confinanti.
È opportuno precisare che tutti i muri interni che non abbiano funzione statica, ovvero portante, si intendono divisori, e come tali, ove il titolo non preveda diversamente, si intendono di pertinenza dell’unità immobiliare o dei due condomini aventi proprietà contigua, e non del condominio.
Nel caso, quindi, di riparazione e manutenzione di tramezzi separanti due proprietà contigue, nonché lavori privati che li riguardino, l’accordo e la spesa saranno di esclusiva competenza dei proprietari confinanti e non riguarderanno minimamente ne’ l’amministratore ne’ il condominio.
I muri divisori fra le unità immobiliari di proprietà esclusiva e quelle di proprietà comune – corridoi, ingressi, anditi, vestiboli, ecc. – se non portanti, non sono equiparabili ne’ ai muri maestri ne’ alle parti dell’edificio destinate genericamente all’uso comune, per cui i suddetti muri divisori sono soggetti – in applicazione del criterio analogico – alla disciplina prevista dall’Art. 880 cod. civ., secondo cui si presume comune il muro di separazione tra unità immobiliari finitime (Cass. 11 marzo 1975, n. 903).
Un’altra sentenza, pure essa datata (Cass. 5 dicembre 1978, n. 5732), stabilisce che anche i muri che limitano verso l’esterno il piano attico, anche se arretrati rispetto al prospetto, e che non abbiano funzione di sostegno della copertura dell’edificio, non possono essere non compresi fra le parti comuni del condominio, del quale contribuiscono a formare la complessa struttura architettonica.
Una ulteriore conferma l’ha sancita nuovamente la Cassazione, affermando che anche i muri esterni – collocati in posizione avanzata od arretrata rispetto alle principali linee verticali del condominio – ed anche se non hanno la funzione portante, debbono esser considerati alla stregua dei muri maestri, in quanto contribuiscono alla consistenza dei volumi del fabbricato, lo proteggono dagli agenti termici ed atmosferici e delineano la figura architettonica dell’edificio stesso (Cass. 11 giugno 1986, n.3867).
A volte si verifica il caso di fabbricati in condominio in cui sono ubicate al piano terra delle unità immobiliari aventi piccoli giardini o aree cortilive di proprietà esclusiva, con muretti che delimitano le suddette aree.
Nel caso risulti che codesti muretti sono inidonei a tutelare la sicurezza del condominio quale muro di cinta, ed idonei soltanto a delimitare la detta proprietà esclusiva, anch’essi sono privati (Cass. 26 gennaio 1981, n. 577).
Non è rara la necessità di dover procedere alla ricostruzione di un muro comune, pur se non avente la funzione di muro portante, ma ad esempio un muro di contenimento di un terrapieno o di una rampa carrabile o di confine: deve essere eseguita previo consenso di tutti i condomini, salvo che non esistano motivi di urgenza (Cass. 25 novembre 2003, n. 17899).
È ormai giurisprudenza costante ed affermata che ogni condomino possa effettuare lavori, introdurre modificazioni, appoggiare o internare tubi, restringere o allargare finestre e porte, effettuare nuove aperture nel muro comune per la parte interessante la sua proprietà, avendo come unica limitazione di non arrecare pregiudizio alla stabilità ed all’estetica del condominio, e ciò a norma dell’Art. 1102 cod. civ. (Cass. 12 febbraio 1998, n. 1499 – Cass. 9 ottobre 1970, n. 1899).
Un’altra sentenza ha ribadito che i muri esterni possono essere sostituiti da porte, vetrine, porte scorrevoli o finestre, a condizione che la modifica apportata non assuma aspetti lesivi dell’integrità dell’edificio, non ne comprometta la sicurezza o il decoro (Cass. 25 settembre 1991, n. 10008).
L’apertura di finestre, però, non deve creare una servitù di veduta, per la quale, ex Art. 900 cod. civ., è necessario che sussista “oltre al requisito della inspectio anche quello della prospectio nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire di guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di guardare anche obliquamente e lateralmente” (Cass. 1 dicembre 2000, n. 15371).
Locale situato di solito al piano terra, dove si vendono o si tengono esposte merci.
Nei condominii posti in aree centrali di passaggio, o nella prima periferia della città, sempre in zone ove il passaggio è sostenuto, generalmente – al piano terra – sono ubicati dei locali ad uso negozio.
In linea di massima essi hanno accesso solo dalla strada e quindi possono essere esentati da certe spese che – a norma dell’Art. 1123 cod. civ. – debbono essere poste a carico di tutti i partecipanti.
Il loro diritto sulle parti comuni già dovrebbe essere ben chiarito nel titolo di acquisto o almeno nel regolamento contrattuale.
Nel silenzio di entrambi i documenti, il proprietario del negozio risulterà proprietario anche di tutte le parti comuni a norma di legge.
In definitiva o risulterà escluso da quel possesso o lo sarà indipendentemente dall’effettivo utilizzo di certe parti comuni a cui non sia interessato.
Da sempre la Suprema Corte segue questo orientamento – e non potrebbe fare altrimenti -.
Ad esempio, per l’impianto di riscaldamento, essa ha sancito che un proprietario di negozio è tenuto al pagamento di tutte le spese conseguenti salvo che la sua esenzione sia chiaramente riportata nel regolamento condominiale, ma solo se esso abbia natura contrattuale, e poi accettato nei singoli atti di acquisto (Cass. 6 luglio 1984, n. 3966).
La stessa situazione può venirsi a creare su altri impianti o parti comuni condominiali e se la loro proprietà non è esclusa, di fatto, anche i negozi saranno proprietari del cortile, del giardino, e della portineria.
In merito alle spese del portiere, la legge 392/78 – ossia la legge dell’equo canone – prevede esplicitamente che tutti i partecipanti, nessuno escluso, debbano partecipare al 10% delle spese di portineria, in quanto il portiere svolge servizio di custodia e di sorveglianza su tutto l’immobile condominiale.
Una sentenza abbastanza recente ribadisce, infatti, che anche le unità immobiliari accessibili direttamente dalla strada, mediante ingresso autonomo ed indipendente, debbano sostenere le spese di custodia e vigilanza svolte dal portiere, con ripartizione a norma dell’Art. 1123 cod. civ., ed in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà di ciascuno (Cass. 21 agosto 2003, n. 12298).
Spesso, nella compilazione ed approvazione delle tabelle millesimali vengono “corrette” o “modificate” certe storture riguardanti almeno l’uso e la manutenzione – se non proprio la proprietà – di alcune parti comuni che certi negozi non utilizzano.
Il secondo comma dell’Art. 1123 cod. civ. stabilisce che, se le parti comuni sono destinate a servire i condomini in misura diversa, le relative spese vanno ripartite in proporzione all’uso che ciascuno può farne.
Quindi, pur magari avendone la proprietà, potrebbero non avere l’uso, ne’ potenziale ne’ effettivo, e quindi potrebbero essere esentati da queste spese (Cass. 29 aprile 1992, n. 5179).
In certi casi, la Suprema Corte si è dovuta esprimere sul regolamento contrattuale e sul divieto – in esso contenuto – di trasformare altre unità immobiliari in negozi.
È stato detto che il condominio può agire sia contro il condomino o anche direttamente contro il conduttore se si contravviene a questa disposizione (Cass. 29 ottobre 2003, n. 16240).
Anche gli orari di apertura o chiusura dei negozi, previsti nel regolamento contrattuale – pensiamo ai bar o altri locali pubblici – possono essere imposti, ed anche in questi casi si può agire sia contro il proprietario che contro il conduttore (Cass. 26 giugno 2006, n. 14735).
Il novello Art. 1118 cod. civ., ultimo comma, dispone che, a certe condizioni, il condomino possa rinunciare all’uso dell’impianto di riscaldamento.
Non tutte le Regioni d’Italia sono state disponibili ad accettare l’applicazione di questa possibilità.
Tutte – ma non poteva essere altrimenti – accettano o accetteranno che il condomino rinunci unilateralmente all’uso dell’impianto di riscaldamento centralizzato.
Ma non tutte le Regioni sono disponibili ad autorizzare la successiva creazione di impianti singoli, e sul contenimento dei consumi energetici son le Regioni a poter dire l’ultima parola (origini delle fonti del diritto).
Alcune Regioni, però, sono propense e disponibili ad accettare la creazione di impianti autonomi, dopo il distacco dall’impianto centralizzato, per alcuni tipi di unità immobiliari, in particolare per i negozi ed altri esercizi commerciali.
Elemento per riscaldamento che sfrutta l’energia del sole.
L’Art. 1122bis cod. civ. dispone che i condomini, anche singolarmente, hanno diritto di installare impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, al servizio del condominio, di una parte sola dei condomini o anche al singolo partecipante.
Questa installazione può avvenire sul tetto, sul lastrico solare comune o su aree di proprietà individuale, quali terrazze a livello o balconi.
In un certo qual modo, ciò era già previsto nella disposizione generale dell’Art. 1102 cod. civ., che autorizza ogni singolo condomino – e quindi anche una parte non totalitaria di partecipanti – ad usare le parti comuni per migliorare od aumentare il godimento della propria unità immobiliare.
Le uniche condizioni limitative riguardano l’alterazione della destinazione della cosa comune, e che non impedisca agli altri aventi diritto di farne eguale uso.
Installare pannelli solari sul tetto – ed anche impianti fotovoltaici – è quindi consentito, così come sui lastrici solari comuni.
Sarà però un problema se la richiesta, e la installazione, verrà avanzata da una pluralità di partecipanti, perché i pannelli sono apparecchiature che occupano uno spazio considerevole e debbono essere montate in zone assolate dell’edificio, per sfruttare al massimo l’esposizione al sole.
Ne consegue che, se gli spazi comuni o privati a disposizione non sono ampi, l’installazione potrà essere limitata.
Il terzo comma dell’Art. 1122 cod. civ. prevede contemporaneamente limitazioni e possibilità alla esecuzione degli impianti, disponendo che l’assemblea, con la maggioranza di cui al quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ., potrà prescrivere modalità alternative di sicurezza, salvaguardando anche il decoro architettonico del condominio.
Considerando che l’Art. 1122bis cod. civ. è di nuova promulgazione, non esiste casistica giurisprudenziale in proposito, se non qualche sporadica sentenza.
In esse si puntualizza che è consentito al singolo di installare pannelli solari sulle parti comuni, purché questo non incida sull’entità materiale della cosa e non ne alteri la sostanza, arrecando pregiudizio al condominio.
In tal caso, l’innovazione è vietata ai sensi del secondo comma dell’Art. 1120 cod. civ..
È un’area condominiale ove si possono lasciare in sosta temporanea gli autoveicoli.
L’Art. 1117 cod. civ. elenca i parcheggi al punto due fra le parti non indispensabili all’esistenza del condominio, ma con la precisazione che – se esse esistono e non risulti il contrario dal titolo – sono certamente parti di proprietà comune.
La nuova stesura dell’articolo tiene separato, in un certo senso, il cortile dal parcheggio, il quale – infatti – può esistere o mancare, avere posti riservati o essere delimitato.
In proposito è opportuno precisare che la giurisprudenza in passato era stata altalenante in merito alla legittimità della trasformazione dei cortili condominiali in parcheggi, in quanto prevaleva ancora la funzione primaria per il cortile di dare aria e luce alle unità immobiliari soprastanti.
Poi una vecchia sentenza – Cass. 12 luglio 1968, n. 2464 – stabilì il principio mai smentito per il quale il mutamento di destinazione del cortile – riguardando solo la sua destinazione e non un mutamento fisico – poteva essere approvato dall’assemblea con la necessaria maggioranza prevista per le innovazioni.
Ora la nuova elencazione dell’Art. 1117 cod. civ. afferma che se nel cortile condominiale esiste un area adibita a parcheggio, questa deve essere di tutti gli aventi diritto.
Deve quindi essere sempre garantito l’uso potenziale di ogni condomino, che deve essere sempre in posizione paritetica con tutti gli altri (Cass. 16 giugno 2005, n. 12793).
La vigente normativa urbanistica impone un numero di posti macchina proporzionale al numero delle unità immobiliari esistenti nel condominio, ma se tale numero è superiore alle necessità, l’eccedenza può essere alienata e diventare pertinenza di unità immobiliari in condominio.
D’altra parte, l’esigenza di trasferire il parcheggio delle auto dalle aree pubbliche a quelle private, ha fatto in modo che le leggi, la giurisprudenza o i regolamenti condominiali si siano orientati verso queste soluzioni, utilizzando magari anche il sottosuolo.
Il Codice civile stabilisce che “Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa. La destinazione può essere decisa dal proprietario della cosa principale, o da chi ha un diritto sulla stessa” (Cass. 3 dicembre 1999, n. 13487).
Il concetto di “pertinenza” nel Codice civile presuppone, quindi, una volontà soggettiva del proprietario del bene secondario di assoggettare tale bene alla funzionalità di altro suo bene considerato principale (Cass. 3 dicembre 1999, n. 13487, citata).
Fatta questa specificazione sulla natura giuridica della “pertinenza”, è bene considerare che la legge n. 122/1989 (legge Tognoli) permette ad uno o più condomini, che siano intenzionati alla costruzione di un box sotterraneo, di costruirli, ma non li impone.
Si può, quindi, ritenere che coloro i quali si avvalgano della suddetta legge, non siano obbligati ad utilizzarli in proprio, ma possono affittarli a terzi.
Affermando che i condomini possono costruire dei parcheggi sul suolo o nel sottosuolo, il legislatore non ha però chiarito il numero degli stessi: uno per ogni condomino del fabbricato? O solo per quelli che deliberano e costruiscono l’opera? E chi volesse partecipare in un tempo successivo?
L’unico elemento certo è la possibilità di costruzione di parcheggi nel sottosuolo dell’area condominiale (Consiglio di Stato 3 luglio 1995, n. 1007).
È palese che nel suddetto sottosuolo non sia possibile costruire un numero di posti auto uguale al numero delle unità immobiliari esistenti nel condominio, e si può ritenere che tutta la nuova costruzione interrata sia di proprietà comune, in tal caso applicando la rotazione nell’uso o un pagamento della occupazione, il tutto regolamentato dal Regolamento condominiale.
Quanto sopra è già insito nella normativa dell’Art. 9 della citata legge 122/1989 ed anche nel vigente Art. 1121 cod. civ., che consente a tutti i condomini di partecipare all’innovazione in un tempo successivo.
Infine, è scontato che il parcheggio, nelle aree condominiali ad esso adibite, deve essere di durata limitata.
A norma anche dell’Art. 1102 cod. civ., non può essere consentito il parcheggio della propria vettura per lunghi periodi di tempo, in quanto altera l’equilibrio tra le concorrenti e analoghe facoltà (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3640).
È anche dibattuta la questione sui diritti di occupazione paritetica fra unità immobiliari di valore condominiale diverso.
Cioè, un’unità immobiliare modesta ha lo stesso diritto - di parcheggiare in un’area condominiale – che può vantare un’unità immobiliare portatrice di un numero di millesimi maggiore?
La risposta è affermativa.
L’Art. 1118 cod. civ., al primo comma dispone che il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni è proporzionato ai millesimi di cui è portatore la sua proprietà, e la disposizione dell’Art. 1123 cod. civ., primo comma, per il quale le spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni sono proporzionali al valore delle singole proprietà, non impediscono – in quanto entrambe norme derogabili – che siano convenzionalmente previste discipline diverse (Cass. 8 luglio 1995, n. 7546), magari prevedendo la formazione di tabelle millesimali riservate esclusivamente alla ripartizione delle spese di manutenzione e pulizia di dette parti comuni.
È stato anche affermato che il condomino che abbia acquistato la proprietà esclusiva di uno spazio destinato al parcheggio di un veicolo, sito in locali adibiti ad autorimessa comune, ha facoltà – a norma dell’Art. 841 cod. civ. – di recintarla, a condizione che ciò non sia vietato dal titolo o dal Regolamento (Cass. 23 maggio 1991, n. 5933).
Necessita, però, fare molta attenzione, in quanto delimitare in modo duraturo il proprio box potrebbe comportare impedimenti o riduzioni d’uso a quelli posti a lato o di fronte.
Nel destinare a parcheggio un’area condominiale scoperta o coperta, è indispensabile che sia garantito il libero accesso a tutte le unità immobiliari che si affacciano su detta area, negozi, retri, magazzeni, autorimesse od altro, e questo anche se i rispettivi proprietari muteranno la destinazione dei locali (Cass. 27 ottobre 2011, n. 22428).
Elemento che, riunito ad altri complementari o supplementari, costituisce un tutto: insieme di un intero.
Le parti comuni sono quegli elementi senza i quali il condominio – in quanto tale, e cioè fisicamente - non potrebbe esistere.
Le cose o parti comuni sono riportate nell’Art. 1117 cod. civ. in senso esemplificativo e non tassativo, considerando che certe parti, pur non essendo elencate, o meglio, menzionate, possono essere egualmente comuni, e cioè di tutti i condomini – condominio generale – o solo di una parte di essi – condominio parziale –.
Sotto questa voce sono riportate solo alcune delle parti comuni ex Art. 1117 cod. civ., quelle strutturalmente più importanti, rimandando alle altre voci le considerazioni sulle parti comuni elencate nel suddetto articolo.
Esistono anche delle parti comuni che – pur essendo tali per gran parte dei condomini – non lo sono per tutti.
In tale eventualità il titolo d’acquisto o il regolamento contrattuale dovrebbe esplicitamente prevedere tale esclusione in riferimento ad una determinata unità immobiliare (Cass. 10 agosto 2002, n. 11391).
Piano che divide fra loro i rampanti di una scala.
Esiste il pianerottolo intermedio, posto tra una rampa e l’altra, la cui funzione principale è quella della sosta, ed il pianerottolo al piano, su cui si affacciano la porta privata di ingresso alle unità immobiliari e la porta dell’ascensore, se esistente.
Spesso – quando l’ascensore viene installato successivamente alla costruzione del condominio – il suo piano di arrivo è sul pianerottolo “zoppo”, ossia su quello intermedio.
Conseguentemente, gli utenti – per accedere all’impianto – debbono salire o scendere una rampa di scale.
Ciò si verifica quando il vano scale è inadatto ad ospitare l’ascensore o non esistono altri locali idonei e comodi.
L’unica possibilità rimane quella di installare apparecchiature e cabina nel cortile condominiale.
In tal caso, a parte la relativa scomodità del punto di arrivo e di partenza, possono verificarsi problemi di illuminazione naturale del vano scale, in quanto la stragrande maggioranza di questi locali prende luce e aria in corrispondenza di quel pianerottolo.
Estremamente comodo sarà posizionare la porte dell’impianto di ascensore in corrispondenza della finestra già esistente, ma in tal modo si priva tutto il vano scale non solo della luce ma anche del suo naturale arieggiamento.
Di fianco alla nuova porta dell’ascensore si dovrà aprire una finestra, larga il più possibile, onde ripristinare al massimo lo stato dei luoghi, nel senso che non sia compromessa la disponibilità di luce naturale e aria.
Nell’ambito della scala, il pianerottolo più importante è certamente quello di arrivo e sosta ad ogni piano.
In esso si affacciano le porte di accesso alle singole unità immobiliari, nonché le porte di arrivo ai piani dell’impianto di ascensore.
Pur nella eventuale modestia della struttura di tutta la scala, il pianerottolo di arrivo è generalmente il più ampio possibile.
Indipendentemente dalle unità immobiliari che vi hanno accesso, esso è di proprietà comune.
Segue, cioè, il concetto di parte comune della scala, pure se non elencato esplicitamente fra le parti comuni, di cui al punto uno dell’Art. 1117 cod. civ..
Elencando, genericamente, le scale, l’articolo ha inteso includere rampe, pianerottoli, ringhiere, corrimano, muri di contenimento e di sostegno, ossia tutto quello che compone e che ha attinenza con le scale.
I pianerottoli, quali componenti essenziali della scala, sono quindi comuni per presunzione di legge, salvo diverso titolo, e lo sono fra tutti i condomini interessati alle scale.
Non possono essere incorporati nella proprietà esclusiva del singolo condomino, in quanto tale incorporazione costituisce un’alterazione della destinazione della cosa comune ed una utilizzazione esclusiva di essa, lesiva del concorrente diritto degli altri condomini (Cass. 16 dicembre 1974, n. 4299).
Un’altra sentenza ha considerato del tutto legittima la creazione di un secondo ingresso ai locali di proprietà esclusiva, in corrispondenza del pianerottolo antistante, purché non limiti il godimento degli altri condomini (Cass. 10 febbraio 1981, n. 843).
È stata ritenuta lecita anche la chiusura con un cancellino a vista inserito sul muro ove, in posizione poco più interna, è infissa la porta d’ingresso all’unità immobiliare.
Lo scopo è quello di poter aprire la porta principale senza che persone sgradite possano accedere in quanto il cancellino è chiuso.
L’appropriazione di area comune è modestissima e l’installazione è a norma dell’Art. 1102 cod. civ..
La eventuale presunzione di comunione del pianerottolo dell’ultimo piano può essere vinta dal titolo contrario, oppure viene meno quando – essendo unico il proprietario dell’ultimo piano – le caratteristiche funzionali del pianerottolo siano tali da far presumere che lo stesso serva esclusivamente quella proprietà (Cass. 22 marzo 1985, n. 2070).
È stato anche affermato che la proprietà esclusiva da parte di un condomino della rampa di scala che immette nella sua unità immobiliare, non comporta automaticamente anche la proprietà dell’area sottostante, in quanto il sottoscala può anche essere venduto separatamente (Cass. 18 dicembre 2013, n. 28350).
Ciò conferma, in un certo senso, una sentenza di poco precedente, che ha ritenuto che l’area della proiezione delle scale, sulla verticale superiore ed inferiore, si presume comune, e tale è – quindi – anche l’area soprastante il pianerottolo dell’ultimo piano (Cass. 20 settembre 2012, n. 15848).
Complesso di opere che serve per l’esercizio del nuoto e che comprende, oltre la vasca natatoria, tutti i servizi necessari.
Nei fabbricati in condominio più moderni, ed ancor più facilmente nei supercondominii, è possibile constatare che buona parte dell’area cortiliva è utilizzata per creare luoghi di svago per i residenti.
Nel caso, non poi così raro, di una piscina condominiale, occorre puntualizzare che questa struttura, pur non essendo inclusa fra le parti comuni del condominio, può rientrare fra le sue parti ed essere quindi assoggettata alla disciplina dell’Art. 1117 cod. civ..
D’altra parte una piscina scoperta in area condominiale altro non è se non una particolare utilizzazione dell’area cortiliva stessa, e non ne muta la destinazione primaria, che è quella di dare aria e luce al fabbricato.
La presenza della piscina condominiale impreziosisce tutto il condominio, ma conseguentemente crea problemi di uso e di ripartizione spese, che dovranno essere regolamentate in sede di rogito di acquisto e di stesura ed approvazione del regolamento.
Uso, ripartizione spese, ma anche, ed è in particolare, la questione fondamentale della responsabilità per gli eventuali danni che gli utenti della piscina possono subire a seguito del suo uso e frequentazione e le modalità di utilizzo dovranno essere approvate con la maggioranza prevista dall’Art. 1136 cod. civ., secondo comma, salvo patti contrari.
La disciplina pubblicistica prevede che le piscine, installate in ambito condominiale, debbano considerarsi piscine ad uso pubblico, e pertanto soggette alla legislazione inerente, per prima cosa dall’intesa Stato-Regioni dell’11 luglio 1991 e più recentemente dall’accordo intercorso il 16 gennaio 2003 fra Ministero della Salute, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.
L’amministratore del condominio dovrà verificare che la piscina risponda alle caratteristiche imposte dalla legge, nonché imporre, agli incaricati della gestione e manutenzione, il rispetto di tale disciplina.
La normativa riguarda i requisiti igienici delle piscine, ed in particolare le caratteristiche dell’acqua, sia quella della vasca, sia quella usata per la sua pulizia, nonché le sostanze usate per la sua manutenzione.
L’accordo Stato-Regioni impone anche i requisiti dell’illuminazione della vasca e dei suoi dintorni, nonché i limiti alla sua rumorosità.
Questa normativa si ricollega alla disciplina della sicurezza dei luoghi di lavoro di cui al D.L. 2 febbraio 2002, n. 25 relativa all’uso delle sostanze chimiche, anche diluite in acqua, se il manutentore della piscina è un lavoratore subordinato dipendente del condominio.
Ciascun condomino è autorizzato ad utilizzare la piscina non solo personalmente e con il suo nucleo familiare, ma anche in compagnia di amici e parenti, in quanto ciò rientra nel disposto di cui all’Art. 1102 cod. civ..
La Pretura di Roma (13 luglio 1989) ha però precisato che il diritto di invitare ospiti nella piscina condominiale rappresenta un modo di utilizzazione del bene comune, ma che – come tale ed ai sensi degli Artt. 1118 e 1123 cod. civ. - deve essere proporzionato alla proprietà.
Le spese di gestione si distinguono tra spese fisse, riferite alla manutenzione della vasca, delle aree limitrofe, degli impianti, dell’acqua, della forza motrice e delle attrezzature e spese d’uso – riferite all’utilizzo – quali il bagnino, la pulizia e l’igienizzazione di vasca ed acqua.
Le prime debbono essere corrisposte da tutti i condomini, considerando che il legame con le singole proprietà esclusive è fornito dalla contitolarietà contrattuale del bene (Art. 1118 cod. civ.) mentre le seconde faranno capo solo ai frequentatori della piscina, in relazione a quanto previsto specificatamente nel regolamento d’uso, che è indispensabile predisporre ed approvare, e basato sulla applicazione dell’Art. 1123 cod. civ..
A questo proposito, la Suprema Corte ha sancito che il principio di proporzionalità fra spese ed uso, di cui appunto al secondo comma del citato Art. 1123 cod. civ., comporta che – se la possibilità dell’uso è esclusa, con riguardo alla destinazione delle quote immobiliari di proprietà esclusiva, quali negozi, magazzeni, autorimesse, per ragioni indipendenti dalla libera scelta del condomino – va escluso anche l’onere per il condomino stesso di contribuire alle spese di gestione di quel determinato servizio (Cass. 29 aprile 1992, n. 5179).
Una deliberazione condominiale può disporre l’assunzione di una persona per la sorveglianza e la manutenzione degli impianti connessi alla piscina.
Già l’intesa fra Stato-Regioni del 1992 prevedeva la presenza obbligatoria, durante l’orario di funzionamento della piscina, di una persona responsabile dell’impianto e per la prestazione di salvataggio e primo soccorso.
L’amministratore, in qualità di legale rappresentante del condominio è responsabile – a norma dell’Art. 2051 cod. civ. – dei danni cagionati a persone o cose negli ambienti destinati a piscina condominiale, e ciò anche se per la gestione e sorveglianza sono state designate persone specializzate.
Una corrente giurisprudenziale ha però precisato che la responsabilità ex Art. 2051 cod. civ. è riferita ad un bene – la piscina – considerato pericoloso e pertanto è tenuto alla custodia colui che ha su tale bene un effettivo potere materiale, e nel caso del condominio, il responsabile è il condominio stesso e non l’amministratore (Tribunale di Ferrara, 28 dicembre 1999).
Questa è però solo una sentenza di Tribunale, ed il rischio e la responsabilità dell’amministratore sono reali.
Egli dovrà quindi verificare attentamente la conformità della piscina ai parametri previsti da normative e leggi, onde evitare ogni sua diretta responsabilità, particolarmente quella penale.
Per la responsabilità civile è opportuno che nella polizza globale fabbricati del condominio venga inserita una apposita clausola, considerando che normalmente tale assicurazione ne è sprovvista.
Infine, se l’area condominiale su cui è inserita la piscina appartiene ad un supercondominio, ogni deliberazione dovrà essere assunta nel rispetto e norme dettate dal nuovo Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ., che è inderogabile, e ciò nel caso di fabbricati con più di sessanta partecipanti, oppure nel rispetto dell’Art. 1117bis cod. civ. se i partecipanti sono in numero inferiore.
Tubazione che convoglia l’acqua piovana negli appositi pozzetti.
I pluviali non sono inclusi fra le parti comuni di cui all’Art. 1117 cod. civ., ma sono apparecchiature accessorie del tetto e dei lastrici solari, e pertanto sono da considerare parti comuni per destinazione.
Servono anche per convogliare le acque meteoriche o da annaffiatura delle terrazze a livello e dei balconi, che possono essere o sono privati, ma poiché adempiono ad una funzione nell’interesse del condominio in generale, anch’essi sono comuni.
In proposito vedasi la Cassazione – 26 maggio 2003, n. 8304 –.
I pluviali possono essere di lamiera zincata, di rame, di acciaio inox o di plastica, a sezione rotonda o quadrata.
Nel caso dei tetti, essi raccolgono le acque dalle grondaie e le convogliano nei pozzetti posti ai piedi del condominio.
Se invece sono al servizio di lastrici, terrazzi o balconi, i pluviali sono generalmente collegati con imbocchi in rame, plastica o piombo, i quali sono egualmente parti comuni.
Il pluviale può essere situato all’esterno dei muri e fissato con appositi fermatubi ogni tre o quattro metri.
Nelle zone molto fredde, all’interno del pluviale può essere inserita una catena moderatamente riscaldata elettricamente, per evitare che le acque discendenti gelino e creino problemi conseguenti.
In altri casi il pluviale può essere inserito all’interno del muro.
Esteticamente è una soluzione migliore, ma in caso di rottura e di perdita sarà necessario spaccare il muro per procedere alla sostituzione.
Serramento che si applica all’apertura per aprire e chiuderla a piacere.
Così come per l’apertura di finestre, anche per l’apertura di porte o la trasformazione di finestre in porte, nonché l’allargamento di porte preesistenti, la giurisprudenza concorda nel ritenerla consentita, salvo che non pregiudichi il decoro architettonico della facciata o leda il godimento del muro comune del condominio da parte degli altri condomini (Cass. 26 gennaio 1987, n. 703).
Più recentemente la Suprema Corte ha sentenziato che la modifica di una finestra in porta è lecita se la trasformazione può essere inquadrata in una utilizzazione della cosa comune, ai sensi dell’Art. 1102 cod. civ., nel qual caso è necessario valutare se, con l’apertura della porta, il condomino realizza una migliore utilizzazione dell’area, e comunque se vi è compatibilità con il pari diritto degli altri partecipanti (Cass. 1 dicembre 2000, n. 15390).
L’apertura di una porta o di una porta-finestra nel muro perimetrale comune, spesso costituisce elemento di rottura nel disegno della facciata o delle linee architettoniche di tutto il condominio, ma è stata in ogni caso ritenuta legittima per quanto riguarda il rapporto con gli altri partecipanti (Cass. 25 settembre 1991, n. 10008).
È stata considerata legittima anche l’installazione da parte di un condomino di una controporta o di un cancellino, collocato a filo del muro di separazione fra i locali privati ed il pianerottolo delle scale sul quale si apre, a condizione che non crei pregiudizievoli invadenze dei coesistenti diritti degli altri condomini (Cass. 19 gennaio 2005, n. 1076).
Un condomino può anche aprire – a norma sempre dell’Art. 1102 cod. civ. – una porta di comunicazione tra la sua proprietà e l’atrio del fabbricato, o il pianerottolo ai piani, purché non pregiudichi ne’ la stabilità o il decoro architettonico (Cass. 26 marzo 2002, n. 4314).
Per lo stesso motivo, e cioè per il miglior godimento della proprietà privata sulle parti comuni, deve ritenersi lecita l’apertura di una porta – sul muro di proprietà esclusiva – per mettere in comunicazione l’unità immobiliare privata con il terrazzo comune (Cass. 2 febbraio 2005, n. 2099).
È invece vietata l’apertura di una porta praticata da un condomino per collegare la sua proprietà sita nel condominio con altra sita in altro fabbricato, estraneo al primo, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una servitù di passaggio a favore della proprietà collegata ed a carico della proprietà condominiale (Cass. 13 gennaio 1995, n. 360).
Tale apertura-collegamento può però essere considerata lecita se tutti i condomini di entrambi i condominii la autorizzano in modo palese (Corte d’Appello di Milano, 4 maggio 2001, n. 1197).
Luogo di passaggio, ampiamente aperto all’esterno, con colonne di sostegno dell’edificio sovrastante.
Sono luoghi coperti siti al piano terreno e possono affacciarsi verso aree esterne o aree interne.
Se prospettano verso aree esterne, essi – pur essendo di proprietà condominiale – sono soggetti alla servitù di pubblico suppedio.
Una deliberazione condominiale non ne può limitare l’uso o modificarne la destinazione, per cui, senza il consenso dell’Autorità Comunale, essi sono sottoposti alla servitù pubblica di passaggio, ma non solo.
Deve infatti ritenersi legittima l’autorizzazione che l’Autorità Comunale concede all’esercente di un bar di occupare parte del porticato condominiale con sedie e tavoli, purché non venga impedito il passaggio, che resta lo scopo primario del portico.
Ne consegue – anche se può apparire anomalo – che il pagamento del tributo per l’occupazione di suolo pubblico richiesto all’esercente è introitato dal Comune, e nulla è dovuto al condominio proprietario dell’area.
La Suprema Corte, non solo per l’area sottostante il portico, ma anche per aree condominiali esterne e scoperte prospicienti verso l’esterno, ha sancito che la collocazione di alcuni tavolini da parte di un bar, per un tempo e per uno spazio limitato, non costituisce un uso improprio della cosa comune, tale da alterarne la destinazione o da menomarne la possibilità di fruizione da parte degli altri condomini (Cass. 23 gennaio 2012, n. 869).
Sono condominiali, ma di uso privato, quei portici o porticati esistenti nella parte interna del condominio, disposti verso l’area cortiliva o il giardino, ed agibili solo agli aventi diritto.
Per il portico privato spetta all’assemblea disciplinare o modificarne l’uso, alla stregua di qualsiasi altra parte comune.
Ai condomini spetta la cura, la responsabilità e l’obbligo di una adeguata manutenzione, e non possono liberarsi di queste responsabilità, in caso di portico pubblico, invocando il maggior logorio che tale uso e destinazione comportano.
Persona che esercita mansioni di custode ed ha talvolta incarichi di pulizia.
È questa una figura che sta ormai scomparendo, se non nei grandi fabbricati o supercondominii e nelle grandi città.
Gli alti costi di gestione hanno consigliato i fabbricati medio-piccoli ad eliminare il servizio, dotando gli accessi al condominio di campanelli, citofoni o videocitofoni, di porta con chiusura automatica e provvedendo alla pulizia delle parti comuni con addetti lavascale o ditte di pulizia specializzate.
Ovviamente, in tal caso, viene meno il servizio di vigilanza e custodia.
La Suprema Corte ha sempre considerato le mansioni svolte dal portiere più importanti dal punto di vista della vigilanza che della pulizia delle parti comuni.
Ha affermato che le spese di portierato in un condominio, trattandosi di un servizio teso ad assicurare la custodia e la vigilanza dell’intero edificio, vanno ripartite fra i condomini in base al criterio di cui all’Art. 1123 cod. civ., primo comma, salvo patto contrario (Cass. 18 febbraio 1986, n. 962).
Ed anche che le spese di portierato vanno ripartite fra tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, indipendentemente dalla maggiore o minore utilizzazione del servizio da parte di condomini le cui unità immobiliari siano in posizione particolare (Cass. 30 maggio 1990, n. 5081).
Ed infine, l’attività di custodia e di vigilanza è svolta dal portiere anche nell’interesse dei proprietari delle unità immobiliari accessibili direttamente dalla strada – negozi od altro – mediante un ingresso autonomo ed indipendente, e le spese del servizio vanno ripartite ai sensi dell’Art. 1123 cod. civ., in base alla tabella millesimale delle spese generali (Cass. 21 agosto 2003, n. 12298).
In altri casi la Cassazione si era espressa in modo contrario, anche se in precedenza rispetto alle ultime elencate sentenze.
L’Art. 1123 cod. civ. dispone che le spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni devono essere ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne.
Ne consegue che se – per ragioni strutturali indipendenti dalla libera scelta del condomino – la sua proprietà è esclusa dalla possibilità dell’uso, deve essere escluso anche l’onere per il condomino stesso di dover pagare il servizio (Cass. 29 aprile 1992, n. 5179).
Anche la legge sull’equo canone – n. 392 del 1978 – prevede una ripartizione delle spese diversa da quelle sopra indicate, ed in ogni caso è da considerare che il portiere, se è fra i suoi compiti, oltre al servizio di custodia e vigilanza, esegue anche la pulizia delle parti comuni e conseguentemente necessita suddividere il suo compenso in proporzione agli incarichi ed impegni.
Come spesso succede, è tramite il regolamento di condominio, contrattuale o assembleare, che si dovrebbero stabilire i criteri di ripartizione delle spese del portiere, suddividendole in base alle caratteristiche del condominio, del servizio svolto e dei tempi di lavoro.
È ben vero che, in mancanza di accordi, la giurisprudenza indica la strada, ma bisogna sempre ricordare – ad esempio – che l’Art. 1123 cod. civ. è derogabile, e quindi, un accordo della totalità condominiale può derogare ai criteri dello stesso.
È però necessario che ciò succeda prima che inizi il rapporto di lavoro con il portiere, in quanto – diversamente – modificare delle norme del regolamento diventa di difficile realizzazione, poiché se tali modifiche riguardano diritti sostanziali degli stessi contraenti, esse potranno essere attuate solo con il consenso di tutti gli interessati (Cass. 25 marzo 1987, n. 2888).
Fra i compiti dell’assemblea esiste anche quello di assegnare un mansionario al nuovo portiere, che non deve eccedere quanto espressamente previsto dal C.C.N.L..
Quindi il custode deve mantenere pulite le parti comuni, ritirare e distribuire la corrispondenza, sorvegliare gli impianti comuni per evitare disservizi, e – se del caso – avvertire l’amministratore, svolgere attività di vigilanza e custodia di tutte le parti comuni, con un occhio alle parti di proprietà esclusiva.
Possono essere richieste anche prestazioni eccedenti quelle previste dal contratto, ma queste dovranno essere concordate e retribuite con indennità a parte.
Sono, queste, mansioni dovute in particolare alle caratteristiche del condominio: innaffiamento, cura di un piccolo giardino, sfalcio dell’erba, spalatura della neve, nonché controllo delle maestranze presenti nelle aree comuni per svolgere piccole riparazioni.
Nel caso l’assemblea dei condomini intenda abolire il servizio di portineria, sorgono diverse problematiche collegate – in particolare – sui quorum deliberativi necessari per eliminare detto servizio e concordare dei servizi alternativi.
In passato si è molto discusso per stabilire se l’eliminazione di tale servizio di portiere si configurava come una innovazione.
A più riprese si è convenuto che tale modificazione del servizio non poteva essere considerata una innovazione, e conseguentemente la deliberazione può essere assunta con la maggioranza dei partecipanti alla assemblea rappresentanti almeno cinquecento millesimi (Cass. 26 agosto 2002, n. 12481).
Questo anche nel caso che il servizio di portierato sia imposto in un regolamento contrattuale, in quanto questa clausola ha solo carattere regolamentare, modificabile con delibera votata da una maggioranza qualificata e non dalla totalità dei condomini.
Con tale deliberazione si può annullare il servizio di custodia e vigilanza, ma non certo quello di pulizia delle parti comuni, per il quale necessiterà deliberare o l’assunzione di un lavascale o la stipula di un contratto con una ditta specializzata.
Nel caso, non raro, che sia la persona del portiere a non essere più gradita ai condomini, il percorso è meno difficoltoso.
L’amministratore è tenuto a vigilare sull’attività del portiere, e – se del caso – può anche licenziare il lavoratore, senza necessità dell’assenso assembleare, e questo poiché rientra nei suoi compiti, esplicitamente richiamati nell’Art.1130 cod. civ..
Questo però non esclude che l’assemblea – chiamata a ratificare l’operato dell’amministratore – ritenga, invece, di revocare il licenziamento.
Ciò è possibile: l’amministratore può licenziare e l’assemblea reintegrare il portiere nei suoi compiti (Cass. 13 agosto 1985, n. 4437).
Stanza od appartamento del portinaio.
I locali della portineria costituiscono, generalmente, una parte comune di proprietà di tutti i condomini.
A volte essi sono suddivisi in due parti distinte, anche se possono essere in collegamento: prospiciente l’ingresso del condominio c’è la guardiola o portineria ed in altra zona del fabbricato o collegata con una porta di accesso, c’è l’appartamento vero e proprio del portiere.
Altre volte, invece, può esistere solo la guardiola o solo l’alloggio del portiere.
Nei condominii ove non è previsto il servizio di guardiania può esistere solo l’alloggio e non la portineria o, viceversa, esiste la guardiola e non l’alloggio ed il portiere – fatte o controllate le pulizie delle parti comuni – si ritira in quel locale e vigila sull’entrata di condomini e visitatori.
Come per la figura ed il servizio del portiere, che deve essere ripartita a carico di tutti i condomini, anche i locali destinati a quello scopo si ritengono di proprietà comune, in quanto solo dal titolo d’acquisto potrebbe risultare la prova contraria alla presunzione di comunione.
Per dimostrare, invece, il diritto di comproprietà, non è necessario che il titolo la riporti specificatamente, ma basta l’atto di acquisto dell’unità immobiliare, che trae a se’ la comproprietà anche delle parti accessorie (Cass. 4 ottobre 1971, n. 2712).
È stato però precisato che un manufatto posto nel cortile antistante il fabbricato condominiale ed esterno allo stesso – e quindi materialmente indipendente – adibito ad esempio a portineria, non è, per struttura e funzione, compreso nelle parti comuni condominiali, né può ritenersi tale, in difetto di una chiara volontà delle parti risultante da un titolo idoneo.
Il fatto che esso risulti catastalmente denunziato come adibito a portineria, non è sufficiente – quale mezzo sussidiario di prova – a prevalere sulla contraria volontà dei proprietari, poiché la classificazione catastale ha carattere puramente descrittivo in relazione ad un onere nei confronti della Pubblica Amministrazione (Cass. 6 novembre 1987, n. 8222).
La guardiola e l’alloggio del portiere sono elencati nel punto due dell’Art. 1117 cod. civ., cioè fra quelle parti che – contrariamente a quelle di cui ai punti uno e tre – possono essere alienate ed utilizzate dall’acquirente in modo diverso.
Le parti comuni di cui al punto uno sono assolutamente indispensabili per l’esistenza del fabbricato.
Quelle elencate al punto tre, se esistono, possono essere solo comuni e non possono diventare private in parte o in toto.
Le parti comuni elencate al punto due possono avere anche utilizzazione individuale, con opportune deliberazioni a norma dell’Art. 1117ter cod. civ., cambio di destinazione ed alienazione (Cass. 25 marzo 2005, n. 6474).
La suddetta sentenza vale, ovviamente, anche all’inverso, nel senso che l’assemblea può acquistare dei locali, richiedere il cambio di destinazione ed utilizzare i locali stessi per l’alloggio del portiere o per la guardiola, se prima non esistevano.
Serramento che si applica ad un’apertura per aprirla o chiuderla a piacere.
Il portone d’ingresso, con infissi, serrature, molla chiudiporta, maniglie ed apriporta deve considerarsi di proprietà comune.
Naturalmente non occorre che il portone sia costituito da una porta in legno o in metallo, poiché può adempiere alla stessa funzione anche un semplice cancello od una vetrata.
In sostanza, il portone d’ingresso deve ritenersi il passaggio di accesso o recesso che mette in comunicazione l’edificio con le parti esterne, strada o porticato e che impedisce il transito a persone indesiderate.
Una sentenza datata ha affermato che esso, ove il titolo non disponga altrimenti, è comune a tutti, poiché occorre guardare soltanto al servizio generale che il portone stesso presta all’unità dell’edificio; per questo motivo è comune anche al proprietario del piano terra pur se servito da un suo ingresso privato ed esterno, indipendente da quello destinato agli altri piani del condominio (Cass. 16 ottobre 1956, n. 3644).
In un certo senso la succitata vecchia sentenza è confermata da un’altra più recente che – pur partendo da presupposti diversi – afferma che, a norma dell’Art. 1117 cod. civ., primo comma, una parte comune posta concretamente al servizio di parti diverse dell’edificio stesso, va sempre considerata, in assenza di un contrario titolo negoziale, di proprietà comune di tutti i condomini, senza che sia di ostacolo il disposto dell’Art. 1123 cod. civ., ultimo comma, il quale – proprio su questo presupposto – disciplina soltanto la ripartizione delle spese di conservazione ed il godimento di esse, ispirandosi al criterio di utilità che ciascun condomino può farne (Cass. 22 febbraio 1996, n. 1357).
Scavo verticale più o meno profondo per raggiungere falde idriche.
Il pozzo è elencato al numero tre dell’Art. 1117 cod. civ., fra quelle parti – dice la legge – che possono anche non esistere in un’area condominiale, ma, se esistono, esse sono certamente condominiali.
Al giorno d’oggi, i pozzi per l’adduzione dell’acqua hanno perduto grandissima parte della loro importanza, stante l’esistenza degli impianti d’acquedotto presenti nella stragrande maggioranza degli agglomerati urbani.
Molti pozzi sono però ancora in funzione, ma ormai servono per l’annaffiatura di prati e giardini condominiali, anche per il problema – non secondario – della potabilità dell’acqua in essi contenuta.
La condominialità del pozzo comporta che siano comuni tutte le apparecchiature necessarie per far giungere le acque ai punti di utilizzo, quali pompe, filtri, tubazioni e linea elettrica, nonché eventuali cisterne per il contenimento e lo stoccaggio.
Nel caso di un condominio situato in area isolata e non servita da acquedotto pubblico, il pozzo e le apparecchiature sopra elencate sono di proprietà condominiale, comprese le tubazioni che adducono l’acqua alle singole unità immobiliari e ciò – come recita l’Art. 1117 cod. civ. – fino al punto di diramazione.
In casi di questo genere è importante, per l’amministratore immobiliare, tenere sempre monitorata e controllata la potabilità dell’acqua attinta dal pozzo, onde evitare provvedimenti anche penali in caso di malattie ai residenti, dovute alla scarsa igienicità del pozzo.
Rispetto della riservatezza.
Il condominio è il luogo in cui, nel rispetto delle persone, devono convivere trasparenza e riservatezza.
L’amministratore deve sempre conciliare la trasparenza delle gestioni condominiali e la riservatezza cui hanno diritto i singoli.
Oltre alle informazioni e dati che lo riguardano – vedi legge 220/2012 – ogni singolo residente ha diritto di conoscere tutte le situazioni contabili, e questo, quindi, non solo in occasione del rendiconto annuale.
L’Art. 1129 cod. civ., settimo comma, prevede inderogabilmente che, in qualsiasi momento dell’anno gestionale, ciascun condomino possa visionare la situazione contabile e l’estratto conto bancario, potendo anche estrarne copia.
In questo caso non prevale il rispetto della riservatezza ma l’obbligo della trasparenza nella gestione condominiale.
Questo, però, non significa che si possano divulgare informazioni su possibili morosità all’esterno dell’ambito condominiale.
Non è, quindi, possibile esporre nella bacheca condominiale comunicazioni, informazioni e considerazioni che possano ledere il diritto alla riservatezza, in quanto il luogo è certamente frequentato anche da estranei al condominio, i quali non sono fra i possibili fruitori delle comunicazioni.
Certo che il novello Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. obbliga l’amministratore – primo comma, inderogabile – a comunicare ai creditori insoddisfatti i nominativi dei condomini morosi.
Che uso venga fatto di queste informazioni sfugge al controllo dell’amministratore, che non può – pertanto – esserne considerato responsabile.
Lo stesso dicasi per gli estratti conto bancari o postali che i partecipanti hanno diritto di ottenere, anche in fotocopia e, quindi, con possibile divulgazione all’esterno del condominio.
I dati personali di natura sensibile possono essere usati dall’amministratore o nell’ambito assembleare solo nel caso siano indispensabili per la gestione condominiale, come – ad esempio – segnalare e rendere pubblici problemi fisici di residenti nel caso si debba deliberare l’abbattimento di barriere architettoniche.
In questi casi, e non solo, all’assemblea possono partecipare persone estranee al condominio – consulenti, impiantisti o tecnici – che possono assumere informazioni e notizie sui dati personali sensibili di alcuni condomini.
In tale evenienza, l’assemblea condominiale può deliberare che detti estranei restino nella riunione solo per il tempo necessario a trattare lo specifico problema che ha comportato presenze estranee.
Eventuali installazioni di apparecchiature di videosorveglianza per controllare le aree comuni – ingresso al fabbricato, ingresso alle autorimesse – debbono rispettare misure e precauzioni previste dal Garante.
A questo proposito la nuova Riforma del Codice ha finalmente chiarito i quorum necessari per poter installare un sistema condominiale di videosorveglianza.
Resta confermato l’obbligo di segnalare la presenza di telecamere con appositi cartelli, esposti in zone precedenti il luogo di installazione delle apparecchiature.
Superfluo affermare che i dati raccolti e registrati dalle telecamere devono essere a disposizione solo di persone autorizzate ed i nastri devono essere conservati per non più di 24-48 ore.
Nella stessa Riforma è stata anche prevista la possibilità per l’amministratore – su richiesta assembleare – di attivare un sito internet, ex Art. 71ter disp. att. e trans. cod. civ., e in questa ipotesi potranno essere accessibili solo i dati contabili ed i verbali assembleari.
Al suddetto sito internet potranno accedere solo le persone che hanno diritto di fare le consultazioni, ad esempio con password individuale.
È importante richiamare l’attenzione su due disposizioni contrastanti: Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. e la newsletter del Garante della privacy del 24 aprile 2014.
L’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. all’ultimo comma dispone che – nel caso di passaggio di proprietà – l’amministratore deve richiedere al condomino venditore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto.
Il Garante, invece, dispone che l’amministratore non debba richiedere copia dell’atto di compravendita, in cui sono riportati i dati.
L’Articolo di legge è fra quelli considerati inderogabili; la disposizione del Garante è tassativa.
È il solito pastrocchio a cui ci hanno abituato e viene da pensare: come ti comporti, sbagli.
In effetti pare eccessivo richiedere “copia autentica” di un atto che può contenere dati sensibili, e si ritiene, quindi, e fino a prova contraria, che la ragione sia dalla parte del Garante.
Complesso delle norme per mezzo delle quali si gestisce il condominio.
Il condominio è un ente di gestione e si costituisce automaticamente nel momento in cui il costruttore o l’iniziale proprietario vende anche una sola delle unità immobiliari che compongono l’edificio.
Costituito il condominio, l’assemblea potrà assumere qualsiasi delibera che è nelle sue possibilità.
Lo potrà fare anche se non sono ancora approvate, o comunque esistenti, le tabelle millesimali e potrà gestire da subito tutte le parti comuni, con l’obbligo – quando i condomini saranno più di dieci, a norma dell’Art. 1138 cod. civ., primo comma – di dotarsi del regolamento di condominio.
Il regolamento è quindi la legge interna del condominio, e gestisce tutte le parti comuni esistenti nel fabbricato.
Le prescrizioni del regolamento debbono essere osservate e rispettate da tutti i residenti nel condominio, siano essi condomini o usufruttuari, ma anche da coloro che – a qualsiasi titolo – risiedono od operano nelle singole unità esclusive (Cass. 28 ottobre 1982, n. 5646).
Nel caso di violazione di disposizioni contenute nel regolamento, che stabiliscano il divieto di destinare singoli locali del condominio a determinati usi, il condominio può richiedere, nei diretti confronti del conduttore di una unità immobiliare, la cessazione della destinazione abusiva, in quanto il conduttore non può trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa da quella del condomino suo locatore (Cass. 13 dicembre 2001, n. 15756).
Fino a dieci condomini l’esistenza di un regolamento approvato non è obbligatoria, fermo restando che anche i piccoli condominii possono dotarsi di regolamento che – in siffatta ipotesi – ha la sua validità, anche se non necessario.
Quando le unità immobiliari sono più di dieci, l’esistenza di un regolamento condominiale diviene obbligatoria e per la sua formazione può prendere l’iniziativa anche un solo condomino.
Due sono i tipi di regolamento condominiale, a seconda dei modi in cui il regolamento diventa esecutivo.
Esso si considera di tipo contrattuale se è stato predisposto dal costruttore o iniziale proprietario del fabbricato, ed è stato esplicitamente approvato ed accettato da tutti gli acquirenti delle varie unità immobiliari con la stipula del rogito notarile (Cass. 20 aprile 1993, n. 4631).
La stessa validità contrattuale la avrà il regolamento approvato con il voto unanime di tutti i partecipanti al condominio (Cass. 13 febbraio 1995, n. 1560).
In pratica, questo è di fatto un regolamento contrattuale, indipendentemente da come si è pervenuti alla sua formazione: il regolamento allegato al rogito si chiama di origine contrattuale, e quello a cui si è pervenuti con votazione unanime, si considera di natura contrattuale.
Esiste, poi, il regolamento assembleare, cioè quello approvato a maggioranza – non dalla totalità – a norma dell’Art. 1138 cod. civ., terzo comma.
Bilancio dell’esercizio scaduto, con elencate le entrate e le spese avvenute.
L’ultimo comma dell’Art. 1130 cod. civ. dispone che l’amministratore debba presentare all’assemblea il rendiconto annuale delle spese sostenute durante la sua gestione.
Egli ha centottanta giorni dalla chiusura della gestione stessa per sottoporre il consuntivo all’assemblea dei condomini, che – con la maggioranza prevista dall’Art. 1136 cod. civ. – è chiamata a pronunciarsi, ed implicitamente a valutare l’operato del suo amministratore.
Il rendiconto, in pratica, consisterà in un elenco di spese, suddivise per gruppi, con l’indicazione delle singole sottovoci per ogni gruppo di spesa.
Conterrà la suddivisione delle varie spese tra i condomini, sulla base delle differenti tabelle millesimali.
Dovranno, anche, essere elencati gli importi complessivi di spesa ed i versamenti effettuati da condomini e conduttori, e da questo risulteranno i residui attivi e passivi di gestione.
Contemporaneamente alla convocazione della assemblea che – trattando di rendiconto e successivo preventivo – si considera una assemblea ordinaria, l’amministratore invierà il rendiconto della gestione e ciò rappresenterà il primo argomento all’ordine del giorno.
Infatti, il citato Art. 1130 cod. civ. dispone che l’amministratore debba dare resoconto della sua gestione, pertanto egli – in chiusura gestionale – deve rendere conto di quello che è stato pagato ed incassato, il dove e il come, e inclusa nel rendiconto deve essere la relativa ripartizione.
Non è raro il caso che qualche condomino approvi il rendiconto nella sua totalità ma non approvi la ripartizione, magari contestando i criteri ripartitivi o le tabelle millesimali applicate.
Con l’approvazione del rendiconto e della relativa ripartizione si conclude l’anno gestionale, e solo dopo si può iniziare a trattare, discutere ed approvare altri punti all’ordine del giorno.
Fra cui il rinnovo del mandato all’amministratore nonché il preventivo ordinario.
Giurisprudenza costante afferma che non è sufficiente inviare il rendiconto e la ripartizione senza che a questo consegua la discussione ed approvazione assembleare.
I presupposti – errati – per questa situazione, erano basati sulla derogabilità dell’Art. 1130 cod. civ., e questo – per mera ipotesi – potrebbe anche essere possibile, fermo restando che la derogabilità dovrebbe essere sancita da una deliberazione totalitaria, ma l’Art. 1129 cod. civ. – che è inderogabile, e ciò è un dato inoppugnabile – al primo punto del comma tredici stabilisce che costituisce grave irregolarità – con possibile revoca – l’omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto-.
Se anche questa considerazione non fosse ritenuta sufficiente, dobbiamo, ricordare che l’Art. 63 disp. att. e trans. cod. civ. – altro articolo inderogabile – dispone che, per poter richiedere decreto ingiuntivo a carico dei morosi, l’amministratore debba fornire dimostrazione dello stato di ripartizione approvato dall’assemblea.
Sul come debba essere redatto un rendiconto, la legge non impone particolari formalità, di conseguenza si può affermare che il rendiconto, per essere comprensibile anche a persone inesperte sui problemi contabili, dovrà rispettare i seguenti principi:
chiarezza;
elenco delle spese, anche raggruppate;
suddivisione delle stesse;
criteri ripartitivi.
Dopo la Riforma del Codice, l’Art. 1130bis cod. civ. indica in modo succinto la composizione del rendiconto, ma prevede anche che l’amministratore debba allegare al rendiconto stesso una nota sintetica esplicativa della gestione, con l’indicazione dei rapporti in corso e delle questioni pendenti.
In questo modo l’assemblea ed i condomini verranno puntualmente resi edotti di tutte le problematiche condominiali, contabili e non, con la possibilità di valutare – anche – l’operato dell’amministratore nell’immediato futuro.
Relativamente alle documentazioni contabili, l’Art. 1129 cod. civ. dispone che ogni condomino possa in qualsiasi periodo dell’anno gestionale prendere visione della situazione bancaria riguardante la gestione in corso, nonché qualsiasi condomino o qualsiasi titolare di diritto reale o di godimento – ex Art. 1130bis cod. civ. – prendere visione o copia delle scritture e dei documenti di spesa su cui è fondato – o lo sarà – il rendiconto gestionale annuale.
Per evitare eccessive lungaggini assembleari sarebbe opportuno che il consiglio di condominio – ultimo comma del già citato Art. 1130bis cod. civ. – previsto nei condominii con almeno dodici unità immobiliari, a prescindere da eventuali controlli durante l’anno, venisse ufficialmente coinvolto a verificare il rendiconto ancora in bozza e valutasse, con l’amministratore, le eventuali problematiche connesse.
Questo non eviterà la discussione assembleare, ma, il sapere che tutti i giustificativi di cassa ed i movimenti bancari sono già stati esaminati ed approvati dal consiglio, darà maggiore tranquillità ai singoli condomini.
Nella assemblea in cui verrà esaminato e discusso il rendiconto consuntivo, generalmente verrà trattato anche quello preventivo.
È stata ritenuta valida la deliberazione che stabilisce che il preventivo per il nuovo esercizio sia conforme al consuntivo appena approvato o allo stesso preventivo della gestione precedente, in modo che risultino determinate sia la somma complessiva che quella destinata alle singole voci, e con la ripartizione fra i singoli condomini risultante dalla applicazione delle tabelle millesimali di riferimento (Cass. 25 maggio 1984, n. 3231).
Si è spesso discusso, e non è finita, sull’obbligo per l’amministratore di redigere il consuntivo per “cassa” o per “competenza”.
Validi operatori del settore, con dotte, opposte argomentazioni, ritengono valido l’uno o l’altro sistema.
Ora la questione perde un po’ di importanza: se anche il rendiconto verrà redatto per cassa, nella obbligatoria nota esplicativa da allegare al rendiconto, l’amministratore dovrà elencare spese, fatture, incassi o altro non inclusi nella documentazione del rendiconto.
Nel capitolo “revisore” tratteremo ulteriormente l’argomento.
Colui che è incaricato di rivedere la contabilità, facendo considerazioni e rilievi.
Si è sempre discusso se il rendiconto della gestione condominiale annuale dovesse essere effettuato per cassa o per competenza.
Per cassa significa che il rendiconto deve elencare e riportare solo le spese effettivamente sostenute – con pagamenti, cioè, effettuati – e con incassi ricevuti e contabilizzati.
Per competenza significa includere nel rendiconto anche quelle spese sostenute, ma con pagamento rinviato o incassi pervenuti e non ancora contabilizzati.
Il nuovo Art. 1130bis cod. civ. pone fine, in un certo modo, alla discussione.
Avallando, pare, la contabilità per cassa, dispone anche che l’amministratore debba allegare al rendiconto una “nota sintetica esplicativa della gestione con l’indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti”.
In pratica, pur senza dirlo, afferma che, al rendiconto contabile redatto eventualmente per cassa, deve essere allegata una breve relazione in cui l’amministratore elenca la situazione contabile – amministrativa dei conti condominiali, con le fatture ancora da pagare, le fatture non ancora pervenute ma già maturate e gli incassi non ancora contabilizzati nel rendiconto.
Ciò favorirà una migliore conoscenza della situazione generale del fabbricato ed una maggiore trasparenza nel passaggio delle consegne fra amministratori, ed ogni condomino sarà in grado di conoscere non solo la situazione sua e degli altri partecipanti, ma anche quella di tutto il condominio.
Nello stesso Art. 1130bis cod. civ., il legislatore introduce una figura nuova: il revisore contabile.
Con lo stesso quorum necessario per la nomina dell’amministratore, l’assemblea potrà nominare – con spesa a carico di tutti i condomini – un revisore che verifichi, per annualità ben definite, la contabilità del condominio.
Ciò può verificarsi quando esistono dubbi sull’operato di un amministratore cessato dall’incarico, o anche sull’operato dell’amministratore in carica.
L’operato del revisore e la durata del suo incarico dovranno essere ben definiti e per annualità individuate.
Non avrebbe senso nominare un revisore che controlli l’operato dell’amministratore in carica e questo anche per gli anni futuri.
Si dovrebbero affrontare costi contabili raddoppiati e non avrebbe senso pratico: l’amministratore in carica riceve un mandato basato sulla fiducia, e se questa viene meno è anacronistico mantenere in essere il suddetto mandato.
Nell’ipotesi che l’assemblea abbia un dubbio – limitato ad un periodo ben definito – farà eseguire una revisione.
Se emergerà la correttezza dell’amministratore, sarebbe assurdo mantenere e pagare un revisore.
Nell’ipotesi contraria si revocherà l’amministratore e se ne nominerà un altro, ringraziando il revisore per il lavoro svolto.
La norma di legge non indica quale qualifica professionale debba avere il revisore, ma si ha motivo di supporre che esso debba essere un esperto in materia, e che la sua preparazione sia professionalmente valida.
Se non esistono problematiche gravi – quali ad esempio un passaggio di consegne con contabilità laboriosa – ma solo un controllo della documentazione ed una verifica delle situazioni condominiali, può essere sufficiente che il controllo sia affidato al consiglio, egualmente previsto all’ultimo comma dell’Art. 1130bis cod. civ..
È ben vero che le due ipotesi – Revisore e Consiglio – sono diverse, ma, se la situazione non ha aspetti gravi e problematici, non è il caso di gravare il condominio di ulteriori costi.
Mezzo o impianto per riscaldare un ambiente.
L’impianto di riscaldamento è incluso al punto tre dell’Art. 1117 cod. civ. e comporta un insieme di locali, impianti ed apparecchiature.
Per prima cosa necessita che i locali ove è posizionata la caldaia, le pompe ed i vasi d’espansione siano tecnicamente adatti alla bisogna ed abbiano ricevuto il nulla osta dei Vigili del Fuoco.
Fino a poco prima della promulgazione della legge 615 del 13 luglio 1966, le centrali termiche condominiali erano posizionate nei posti meno invasivi: sottoscala, interrati con scarsa aerazione, piani terra angusti.
Qualsiasi locale non commerciabile era usato e poteva essere utile per ospitare gli impianti.
Giustamente uscirono diverse normative, tutte rivolte alla sicurezza degli impianti e quindi del condominio.
Non sono rari i casi in cui si è dovuto rinunciare ai vecchi locali e reperirne dei nuovi, fino a giungere, a volte, ad installare tutta l’impiantistica necessaria sul tetto o sul lastrico solare comune.
E questo, in special modo, da quando la stragrande maggioranza degli impianti funziona a gas - economico, pulito, senza necessità di programmare rifornimenti – ma estremamente pericoloso.
È stato detto che l’impianto di riscaldamento centrale – con tutte le sue apparecchiature ed i locali ad esso destinati – costituisce un complesso unitario, indivisibile (Cass. 26 giugno 1976, n. 2419).
Questa presunzione di comunione opera solo per tutta quella parte dell’impianto che può ritenersi centrale e non anche per le diramazioni che – staccandosi dalle tubazioni principali – si indirizzano verso una unità immobiliare o verso i corpi scaldanti – radiatori – che in ogni caso sono di proprietà esclusiva (Cass. 23 maggio 1990, n. 4653).
Ciò non deve stupire, considerando che anche l’ultimo comma dell’Art. 1117 cod. civ. lo dice chiaramente.
Sono quindi di proprietà esclusiva delle singole unità immobiliari i pannelli radianti, i radiatori, gli elementi scaldanti, i fan-coils, le valvoline, i detentori, le valvole termostatiche, tutto il valvolame e quant’altro esiste a valle delle tubazioni di proprietà comune di un normale impianto.
Conseguentemente è opportuno precisare che – nel caso di eventuali difetti di funzionamento dell’impianto che fossero localizzati nella parte di apparecchiature di proprietà esclusiva – il condomino interessato non potrà rifiutare che il condominio provveda alla eliminazione dei suddetti difetti.
Una deliberazione assembleare o il regolamento non possono intaccare i diritti che il singolo ha sulla propria zona di proprietà esclusiva, ma la Cassazione – 17 maggio 1960, n. 1216 – ha sancito che, una volta accertato un difetto nella rete di distribuzione sita in una zona privata, non può negarsi il diritto, da parte del condomino interessato, alla eliminazione di esso.
Nel contempo è stato anche affermato che ogni condomino ha diritto di ottenere che l’impianto di riscaldamento assicuri una temperatura uniforme in tutte le unità immobiliari servite dall’impianto (Cass. 10 giugno 1981, n. 3775).
In ogni caso, l’obbligo per il condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento del servizio centralizzato, non viene meno se l’impianto non erogherà sufficiente calore, e questa circostanza non giustifica un esonero dal contributo (Cass. 28 agosto 2002, n. 12596).
Questo perché l’impianto costituisce un tutto unico ed indivisibile che deve rispondere alla funzione per cui è stato costruito e cioè per consentire la circolazione dell’acqua che, riscaldata dalla caldaia centrale, si dirama nelle diverse tubazioni per poi ritornare nel circuito generale.
Nell’ambito condominiale è necessario cercare di armonizzare i diritti dei singoli con quelli del condominio in generale, disciplinando l’uso del servizio, e ciò rientra nei poteri dell’amministratore ai sensi dell’Art. 1130 cod. civ., secondo comma.
Anche l’impianto di produzione dell’acqua calda, se centralizzata, è parte comune, a norma dell’Art. 1117 cod. civ., poiché esso è normalmente posizionato negli stessi locali dell’impianto di riscaldamento e, spesso, il generatore di calore è lo stesso utilizzato per produrre il riscaldamento ambientale.
Gli impianti di riscaldamento e di produzione dell’acqua calda necessitano di un terzo responsabile, e cioè di una ditta o società, in possesso di professionalità tecnica ed idoneità economica, per condurre l’impianto.
Il nuovo Art. 1118 cod. civ., al quarto comma, prevede la possibilità per il condomino di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato, a condizione che dal distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento o di spesa per gli altri condomini.
Il tal caso il condomino che rinuncia all’impianto dovrà contribuire solo alle spese di manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
Fortunatamente, anche con la nuova Riforma, solo il secondo comma dell’Art. 1118 cod. civ. è stato ritenuto inderogabile: il quarto comma è quindi derogabile e nei condominii dove il distacco sarà poco gradito, si potrà – con la totalità dei voti – vietare il distacco o, meglio, consentire il distacco ma non la realizzazione di impianti autonomi.
Ricordiamo che già nel 2011, la Suprema Corte aveva negato che un regolamento possa impedire il distacco.
L’evoluzione della giurisprudenza sul distacco e nuovi impianti è stata spesso non univoca.
La legge 10 del 9 gennaio 1991, prevedeva la possibilità di rinunciare all’impianto centralizzato di riscaldamento.
Per meglio dire, autorizzava il distacco votato dalla sola maggioranza dei millesimi.
Fino ad allora era in vigore il divieto assoluto di distaccarsi, in quanto:
1) l’impianto è dimensionato e costruito in funzione dei complessivi volumi interni del condominio;
2) il distacco incide negativamente sulla cosa comune, in quanto determina uno squilibrio termico ed un consumo maggiore a carico dei restanti condomini.
Allora, le uniche deroghe possibili erano costituite dal consenso della totalità dei condomini.
Successivamente alla promulgazione della legge 10, si registra un apertura verso il riconoscimento della legittimità di tale intervento, ma attraverso la prova dell’assenza dello squilibrio termico e con l’obbligo di pagare le spese di conservazione dell’impianto, ma anche, ed eventualmente, quelle percentuali di maggiore spesa a cui siano tenuti i condomini a causa del distacco.
Una sentenza della Cassazione – 24 luglio 2007, n. 16365 – imponeva l’obbligo di pagare, oltre alle spese di conservazione, quelle di gestione se e nei limiti in cui il suo distacco non si risolveva in una diminuzione degli oneri del servizio cui continuano a godere gli altri condomini.
In base al primo capoverso del comma quattro si ha:
1) il condomino che intende distaccarsi deve fornire la prova al condominio – che non deve autorizzare il distacco ma solo poter accertare che esistono le condizioni perché lo stesso sia legittimo – della assenza di squilibri termici, e per questo si intende che esso faccia riferimento allo squilibrio impiantistico e non termico, riferito alle differenze di temperature all’interno delle altre unità immobiliari (Cass. 24 luglio 2007, n. 16365 citata), nonché della assenza di aggravi di spesa.
Viene introdotto l’aggettivo “notevole” e pertanto la stessa dicitura della legge considera la possibilità che esistano degli squilibrii, ma se non superano la soglia del “notevole” il distacco è legittimo.
Qual’è il valore da assegnare al “notevole” non è detto, e non sappiamo se si riferisce solo a squilibrio di impianto o di spesa.
Il legislatore ha poi totalmente ignorato il problema della disparità di trattamento tra i condomini, in quanto – mentre l’esistenza di requisiti tecnici potrebbe sussistere tra il primo o tra i primi che si distaccano – certamente il progressivo distacco ad un certo punto causerebbe uno squilibrio dell’impianto che era stato progettato e costruito in funzione di volumi interni complessivi.
Il secondo capoverso del quarto comma – ritenuto legittimo il distacco – impone l’obbligo di partecipazione alle spese di manutenzione straordinaria, di conservazione e di messa a norma.
Non viene più previsto l’obbligo – riconosciuto dalla giurisprudenza – di partecipare anche a quelle percentuali di maggiore spesa cui siano tenuti i condomini, rimasti allacciati all’impianto centralizzato, a causa del distacco.
In controtendenza, una recentissima sentenza della Suprema Corte – 30 aprile 2014, n. 9526 – la quale ha ritenuto che, se il condominio non registra un risparmio sui consumi – dopo il distacco di un partecipante – questi debba contribuire anche alle spese di gestione.
Distacco però non significa realizzazione di impianti autonomi.
Partendo dal protocollo di Kioto, tutti gli Stati devono promuovere e promulgare normative finalizzate a:
- favorire l’uso efficiente delle risorse energetiche;
- valorizzare ed integrare le fonti energetiche negli edifici;
- realizzare il risparmio energetico;
- limitare le emissioni inquinanti.
L’Art. 117 della nostra Costituzione, così come modificato dalla Legge costituzionale n. 3/2001, primo comma, stabilisce che la potestà legislativa, è esercitata dallo Stato e dalle Regioni.
L’Articolo ha, quindi, ripartito tra lo Stato e le Regioni la competenza legislativa stabilendo che quest’ultima ha potestà legislativa nelle materie riguardanti gli obiettivi della politica energetica nazionale, nelle materie riguardanti la localizzazione e realizzazione degli impianti di teleriscaldamento, nella certificazione energetica degli edifici.
Sotto l’aspetto riguardante la normativa statale di recepimento delle Direttive nella materia relativa alla prestazione energetica, è di fondamentale importanza, e costituisce ancora il riferimento normativo di richiamo, il D.Lgs. 192/2005 attuativo della Direttiva CE 2002/1991 titolata “Rendimento energetico nell’edilizia”.
Il D.P.R. 59/2009 costituisce il Regolamento di attuazione del D.Lgs. 192/2005 e all’Art. 4 comma 9 prevede che:
“In tutti gli edifici esistenti con un numero di unità immobiliari superiori a quattro, ed in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell’impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 Kw, appartenenti alle categorie E1 – E2 è preferibile il mantenimento di impianti termici centralizzati laddove esistenti… le cause tecniche o di forza maggiore per ricorrere ad eventuali interventi finalizzati alla trasformazione degli impianti termici centralizzati ad impianti con generazione di calore separata per singola unità abitativa, devono essere dichiarate nella relazione di cui all’Art. 25.”
Al comma 10 dispone che:
“In tutti gli edifici esistenti con un numero di unità immobiliari superiore a quattro e appartenenti alle categorie E1 – E2, in caso di ristrutturazione dell’impianto termico o di installazione dell’impianto termico devono essere realizzati gli interventi necessari, ove tecnicamente possibile, per la contabilizzazione e la termoregolazione di calore per singola unità abitativa”.
Gli eventuali impedimenti di natura tecnica alla realizzazione dei predetti interventi, ovvero all’adozione di altre soluzioni impiantistiche equivalenti, devono essere evidenziati nella relazione tecnica di cui all’Art. 25.
Per opportuna chiarezza, appartengono alla categoria E1 gli edifici adibiti a residenza ed assimilabili: abitazioni adibite a residenza con carattere continuativo, come abitazioni civili e rurali, collegi, conventi, case di pena e caserme; abitazioni adibite a residenza con occupazione saltuaria quali case vacanze di fine settimana e simili; edifici adibiti ad albergo, pensione ed attività similari.
Appartengono alla categoria E2 gli edifici adibiti ad uffici e assimilabili: pubblici o privati, indipendenti o contigui a costruzioni adibite anche ad attività industriali o artigianali purché siano scorporabili da tali costruzioni ai fini dell’isolamento termico.
La Regione Emilia Romagna, già dal 2008 aveva recepito queste normative con la Delibera dell’Assemblea Legislativa n. 156/08, e successive modifiche con varie delibere di Giunta, fino alla Delibera di Giunta n. 1366/2011.
La suddetta delibera dispone che i requisiti minimi di prestazione energetica trovano integrale applicazione in caso di :
a) edifici di nuova costruzione ed impianti in essi installati;
b) demolizione totale e ricostruzione di edifici esistenti;
c) ristrutturazione integrale di edifici esistenti di superficie utile superiore a mq. 1000.
Nonché nuova installazione di impianti termici in edifici esistenti con unità immobiliari superiori a quattro, appartenenti alle categorie E1 – E2.
È possibile derogare a tale obbligo in presenza di una specifica relazione sottoscritta da un tecnico abilitato che attesti il conseguimento di analoga o migliore prestazione energetica riferita all’intero edificio, mediante l’utilizzo di una diversa tipologia di impianto.
È altresì consentita la installazione di impianti termici individuali, comunque per un massimo di unità immobiliari inferiori al 30% del totale dell’edificio, nel caso di nuova installazione di impianti termici in edifici esistenti e in assenza di condizioni tecnico-economiche per realizzare un impianto centralizzato.
Nel caso si superi la soglia indicata, anche mediante interventi successivi, è necessaria l’adozione di un impianto centralizzato, prevedendo anche la riconversione degli impianti individuali già installati.
L’Art. 9 della succitata Delibera di Giunta prevede ancora:
“In tutti gli edifici esistenti con un numero di unità immobiliari superiori a quattro ed in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell’impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 Kw, appartenenti alle categorie E1 – E2, nel caso di interventi di ristrutturazione dell’impianto termico NON è possibile prevedere la trasformazione da impianti termici centralizzati ad impianti con generazione di calore separata per singola unità immobiliare.
Per ristrutturazione dell’impianto termico, si intendono interventi volti a trasformare un impianto termico mediante un insieme sistematico di opere che comportino la modifica sostanziale sia dei sistemi di produzione che di distribuzione del calore; rientrano in questa categoria anche la trasformazione dell’impianto termico centralizzato in impianti termici individuali e viceversa, nonché la risistemazione impiantistica delle singole unità immobiliari o parti dell’edificio in caso di installazione di un impianto termico individuale previo, distacco dall’impianto termico centralizzato.
È possibile derogare a tale obbligo in presenza di una specifica relazione sottoscritta da un tecnico abilitato che attesti il conseguimento mediante tale trasformazione di un migliore rendimento energetico dell’edificio rispetto a quello conseguibile con la ristrutturazione dell’impianto centralizzato.
L’Art. 10, infine, prevede che in tutti gli edifici esistenti con un numero di unità immobiliari superiori a quattro, appartenenti alle categorie E1 – E2, in caso di ristrutturazione dell’impianto termico o sostituzione del generatore di calore, devono essere realizzati interventi necessari per permettere, ove tecnicamente possibile nel rispetto della normativa di settore, la contabilizzazione/ripartizione e la termoregolazione del calore per singola unità immobiliare.
È da segnalare che la normativa regionale non prevede l’applicazione di sanzioni e quindi il valore precettivo della norma non avrà la stessa efficacia di una norma la cui violazione preveda una sanzione.
L’assemblea condominiale potrà, però, deliberare in merito, eventualmente opponendosi ai contravventori.
Da quanto sopra, in ogni caso, si possono trarre le seguenti considerazioni:
- il distacco dall’impianto centralizzato è, oggi, consentito da una legge dello stato;
- il distacco è, quindi, legittimo, ma quando e solo significa cessazione dell’utilizzazione del servizio di riscaldamento centralizzato.
Nel momento in cui l’unità immobiliare, distaccata dall’impianto condominiale, intenda installare un impianto individuale, ovvero procedere ad una trasformazione, deve rispettare la normativa regionale.
In concreto, e per riassumere, se un condomino intende distaccarsi dall’impianto centralizzato rinunciando all’utilizzo del servizio di riscaldamento si appellerà all’Art. 1118 cod. civ., peraltro derogabile .
Se invece vorrà, poi, successivamente dotarsi di impianto autonomo, dovrà adeguarsi a quanto prescrive l’Art. 9 della D.G. 1366/2011.
Sempre nell’ottica di perseguire il risparmio energetico, si verifica spesso la necessità di sostituire la vecchia caldaia – pur ancora funzionante – con altra a condensazione.
Detta sostituzione è stata considerata atto di manutenzione straordinaria, ricondotta a modifiche migliorative dell’impianto e non alle innovazioni, ed ha lo scopo di permettere l’utilizzazione di impianti meno inquinanti e più redditizi (Cass. 12 gennaio 2000, n. 238).
A questo proposito è stato detto che non è applicabile alle spese di conservazione, quali ad esempio quelle per la sostituzione della caldaia, il criterio di ripartizione di cui all’Art. 1123 cod. civ., secondo comma, il quale ha per oggetto solo la ripartizione delle spese per l’uso (Cass. 27 gennaio 2004, n. 1420).
Infatti per la ripartizione di dette spese è applicabile il criterio stabilito dall’Art. 1123 cod. civ., primo comma, con specifico riferimento alla proprietà di ciascuno (Cass. 14 febbraio 2005, n. 2946).
Eliminazione di un vincolo o di un collegamento.
È necessario precisare che i presupposti per lo scioglimento di un condominio in due o più condominii separati è la loro possibile autonomia.
Dovranno, cioè, costituire più entità condominiali distinte e con vita propria, aventi quindi una autonomia strutturale.
Lo scioglimento è disciplinato dagli Artt. 61 e 62 disp. att. e trans. cod. civ..
Il primo stabilisce che, se un fabbricato in condominio può essere suddiviso in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, l’assemblea con i voti favorevoli della maggioranza di cui al secondo comma dell’Art. 1136 cod. civ. può deliberare lo scioglimento.
Una condizione essenziale per deliberare il suddetto scioglimento, è che dallo stesso traggano origine due distinti condominii da terra a cielo pur se – ovviamente – non separati fisicamente.
Indispensabile che nessuna unità immobiliare del nuovo condominio abbia parti che si addentrino nel vecchio: ogni fabbricato dovrà presentare i connotati di edificio autonomo e separato e quindi anche una certa autonomia statica, seppure non nel senso più rigoroso (Cass. 3 marzo 1971, n. 538).
L’Art. 62 disp. att. e trans. cod. civ. rappresenta il completamento dell’articolo precedente, disponendo che – nel caso esistano parti comuni che restano tali per i due nuovi condominii – lo scioglimento può essere egualmente attuato.
Ne deriva che i due immobili dovranno avere caratteristiche di edifici autonomi, ma nessun impedimento esiste nel caso restino alcune parti in comune.
Ad esempio, esse possono essere l’impianto di riscaldamento, l’area cortiliva, il giardino, il parcheggio o l’illuminazione esterna e le aree di scorrimento.
L’unico condominio iniziale si divide in più parti autonome: queste ultime daranno origine ad altrettanti condominii separati.
A questo punto, ognuno di questi nuovi condominii potrà nominare un suo amministratore, deliberare un suo regolamento ed avere una gestione indipendente.
Come detto, rimarranno in comune ai diversi nuovi edifici le eventuali parti che forzatamente saranno di tutti gli iniziali partecipanti.
Tutte queste parti comuni resteranno soggette alla disciplina del condominio e non della comunione, e questo al fine della validità delle assemblee (Cass. 5 gennaio 1980, n. 65; Cass. 16 marzo 1993, n. 3102; Cass. 7 luglio 2000, n. 9096).
Dopo la Riforma del Codice, nel caso le unità immobiliari dei due o più condominii autonomi siano superiori a sessanta, la gestione dell’intero complesso sarà regolata dal novello Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ..
La gestione di ogni singolo condominio sarà indipendente, come un qualsiasi fabbricato in condominio, ma per la gestione delle parti in comune ai diversi fabbricati decideranno i rappresentanti di ogni singolo immobile.
In tale situazione si è, infatti, in presenza di un supercondominio e delle nuove regole che lo governano.
Il detto articolo fissa norme gestionali, di rappresentanza e di convocazione che già hanno sollevato numerose critiche, che prima o poi la Giurisprudenza dovrà derimere e chiarire.
In tempi recenti, la Suprema Corte già si era pronunciata contestando la partecipazione all’assemblea del supercondominio non di tutti i singoli condomini, ma semplicemente dei delegati indicati dall’assemblea di ciascun condominio.
Aveva affermato che le deliberazioni conseguenti a questo modus operandi erano nulle, in quanto contrarie alle disposizioni degli Artt. 1136 e 1138 cod. civ. (Cass. 6 dicembre 2001, n. 15476).
Ma per ora, considerando che l’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. è inderogabile, ci si deve adeguare a norme che non rispettano - sulle parti rimaste in comune – il concetto democratico ed irrinunciabile delle doppie maggioranze.
La seconda parte dell’Art. 62 disp. att. e trans. cod. civ. – considerando che il suo primo comma stabilisce che alcune parti comuni possono restare tali anche ai due o più fabbricati autonomi – afferma che, se per poter procedere allo scioglimento è necessario eseguire opere di sistemazione, in tale ipotesi la maggioranza deliberativa necessaria per attuare il suddetto scioglimento non è più quella prevista dal secondo comma dello stesso articolo.
È il caso di affermare che la legge ed anche Dottrina e Giurisprudenza tendono ad agevolare lo scioglimento dei fabbricati che possono – in un modo o nell’altro – divenire autonomi.
La Suprema Corte ha però affermato – menzionando l’Art. 61 disp. att. e trans. cod. civ., cioè quella che menziona lo scioglimento – che la possibilità di scissione deliberata a maggioranza ha natura eccezionale, poiché deroga al principio in forza del quale la divisione può essere deliberata solo con la totalità dei voti.
Di conseguenza, per analogia, non può essere utilizzata in modo inverso, ovvero unire due o più edifici autonomi in un unico condominio (Cass. 28 ottobre 1995, n. 11276).
Alzare il condominio di uno o più piani.
Con i piani regolatori da anni operanti nella stragrande maggioranza dei centri abitati, è questo un articolo di legge a cui non si ricorre spesso, almeno per i nuovi piani.
Dato l’alto costo delle aree fabbricabili e le volumetrie ritenute sempre troppo modeste da chi costruisce, ne deriva che le costruzioni sfruttano completamente il volume edificando e pertanto il diritto di sopraelevazione – di cui all’Art. 1127 cod. civ. – resta solo teorico e con scarse possibilità pratiche.
A questo aggiungasi che molti regolamenti di condominio vietano espressamente il diritto di sopraelevazione, per non ledere il decoro o l’aspetto architettonico e per non gravare ulteriormente sulle parti comuni ed in particolare su fondazioni, pilastri e muri maestri.
Il diritto di sopraelevazione di un fabbricato in condominio è riservato al proprietario dell’ultimo piano ed al proprietario esclusivo del lastrico solare.
Questo diritto è però precluso in tre ipotesi:
1) se le condizioni statiche dell’edificio non lo consentono (secondo comma)
2) se questo pregiudica l’aspetto architettonico (terzo comma)
3) se la nuova fabbrica diminuisce notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti (terzo comma)
Il veto di sopraelevazione è tassativo nel caso di possibile pericolo per la statica del condominio, ed in tal caso solo l’accordo unanime di tutti i partecipanti può derogarvi, a condizione che si realizzino anche tutte le opere di consolidamento dell’immobile.
Infatti, se le condizioni statiche dell’edificio non la consentono, la soprelevazione non è ammessa, e necessariamente non sono ammesse – senza preventiva convenzione – le opere di consolidamento, che altro non sono se non l’inizio delle opere di sopraelevazione.
Da sempre la Suprema Corte vieta le sopraelevazioni incompatibili con le condizioni statiche del condominio, in quanto tali condizioni rappresentano un limite all’esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l’oggetto di verificazione e consolidamento per il futuro esercizio di tale diritto, ed è quindi esclusa la legittimità di opere preventive di rafforzamento delle strutture portanti in previsione di una conseguenziale sopraelevazione (Cass. 8 aprile 1975, n. 1277).
Ben più recentemente la Suprema Corte ha ribadito che i singoli condomini ed il condominio possono opporsi alla sopraelevazione del condomino dell’ultimo piano, nel caso essa pregiudichi le caratteristiche architettoniche dell’edificio, e – se eseguita – ne possono richiedere la riduzione in pristino ed il risarcimento del danno.
La relativa azione è soggetta a prescrizione ventennale (Cass. 5 ottobre 2012, n. 17035).
Il diritto alla sopraelevazione spetta esclusivamente al proprietario dell’ultimo piano, a condizione che il tetto o il lastrico solare non sia di proprietà esclusiva di altro condomino (Cass. 22 novembre 2004, n. 22032).
Il condomino che intenda procedere ad una sopraelevazione deve quindi essere proprietario esclusivo della colonna d’aria soprastante la sua proprietà.
Quando l’Art. 1127 cod. civ. parla di aspetto architettonico e di decoro dell’immobile, intende la caratteristica principale insita nello stile architettonico del condominio, per cui l’adozione, nella parte sopraelevata, di uno stile diverso da quello preesistente nella parte già costruita, comporta normalmente un mutamento delle caratteristiche architettoniche principali e secondarie (Cass. 28 novembre 1987, n. 8861).
L’alterazione dell’aspetto architettonico deve essere visibile dal piano strada e causare un pregiudizio economico agli altri condomini (Cass. 22 gennaio 2004, n. 1025).
Per stabilire se le opere relative alla nuova costruzione abbiano pregiudicato il decoro architettonico, devono essere tenute presenti le condizioni in cui si trovava il condominio prima delle opere di sopraelevazione (Cass. 29 luglio 1989, n. 3549).
La tutela della facciata – Art. 1117 cod. civ. – e del decoro architettonico in generale – Art. 1120 cod. civ. – è disciplinata in considerazione dell’apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’immobile, od anche di sue singole parti e conseguentemente della diminuzione del valore dell’intero edificio nonché anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono (Cass. 27 ottobre 2003, n. 16098).
Ciò, però, non significa che la sopraelevazione debba mantenere o ripetere le medesime linee architettoniche della parte preesistente, ma non deve pregiudicare il decoro dell’edificio o comunque non peggiorarne l’aspetto esterno secondo il comune senso estetico (Cass. 9 aprile 1980, n. 2267).
L’ultimo divieto disposto dall’Art. 1127 cod. civ. riguarda la possibile diminuzione di aria e luce ai piani sottostanti, ma precisa che questa diminuzione dovrà essere notevole.
In tal caso la sopraelevazione è vietata, e lo è anche se il danneggiamento riguarda una sola unità immobiliare.
Mentre nel caso di problemi statici o di turbamento delle linee architettoniche l’opposizione alla sopraelevazione riguarda il condominio intero, nel caso di diminuzione di aria e di luce ciò presuppone la possibile opposizione dei singoli condomini che si ritengano danneggiati (Cass. 26 maggio 1986, n. 3532).
La notevole diminuzione di aria e luce ai piani sottostanti va considerata indipendentemente da quella che può essere l’osservanza delle norme stabilite dai regolamenti comunali edilizi o di igiene, in quanto pur attenendosi a detti regolamenti, si possono non rispettare i diritti degli altri condomini.
Si deve però rilevare che l’Art. 1127 cod. civ. – ammettendo il diritto di sopraelevazione – implicitamente autorizza una riduzione di aria e luce a danno dei piani sottostanti: esso però stabilisce che questa riduzione non debba esser notevole.
Non sarà semplice stabilire, prima della costruzione, se questo causerà riduzione di aria e luce.
Il giudice potrà nominare un C.T.U. per esaminare il progetto e suggerire le possibili varianti.
Se la riduzione del godimento verrà accertata a sopraelevazione eseguita, il condomino che ha sopraelevato dovrà o procedere alla demolizione del sopraelevato o risarcire i danni.
Il diritto dei condomini di opporsi alla sopraelevazione – per pregiudizio architettonico o diminuzione di aria e luce – può essere esercitato prima della costruzione ma anche dopo che la stessa è stata edificata, con la facoltà – in tal caso – di richiedere la riduzione in pristino ed il risarcimento del danno conseguente (Cass. 4 dicembre 1982, n. 6611).
A conferma, è stato disposto che la denuncia di illegittimità della sopraelevazione – proposta anche da un solo condomino – può implicare la condanna alla demolizione (Cass. Sez. Un. 21 gennaio 1988, n. 426).
Il diritto di sopraelevazione di nuovi piani spetta al proprietario dell’ultimo piano ed anche al proprietario del lastrico solare posto all’ultimo piano, senza necessità di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini (Cass. 6 dicembre 2000, n. 15504).
Anche nel caso che la sopraelevazione venga eseguita dal proprietario del lastrico esclusivo, ai restanti condomini è dovuta l’indennità prevista (Cass. 21 maggio 2003, n. 7956).
La suddetta indennità trova la sua motivazione dalla considerazione che – a seguito della sopraelevazione – il condomino dell’ultimo piano o del lastrico solare esclusivo aumenta il proprio diritto sulle parti comuni – suolo, fondazioni, muri maestri, pilastri, scala, ascensore, centrale termica ecc. – e pertanto il legislatore ha inteso compensare in parte gli altri condomini, assumendo a parametro il valore del suolo occupato, in quanto esso costituisce l’unica parte comune suscettibile di valutazione autonoma (Cass. 16 giugno 2005, n. 12880).
Il valore del suolo resta inalterato – dividendo – e poiché aumentano il numero dei piani – divisore – diminuisce di conseguenza il valore di ogni piano – quoziente –; con la conseguenza che viene ristabilita la situazione economica precedente (Cass. 16 marzo 1982, n. 1697).
Spesso il condomino, proprietario di una terrazza a livello di uso esclusivo, copre la stessa con una veranda.
Ai fini dell’Art. 1127 cod. civ., la sopraelevazione di un condominio deve intendersi come costruzione di uno o più piani, o con una nuova fabbrica, che può consistere anche in materiale diverso rispetto a quello del già costruito, purché sia stabile e compatta e immobilizzata solidamente su un terrazzo (Cass. 1 luglio 1997, n. 5839).
Ciò che importa è che si sia realizzato un aumento di superficie o di volumetria, indipendentemente da un consistente innalzamento del condominio (Cass. Sez. Un. 30 luglio 2007, n. 16794).
Se, però, è stata installata una tenda o una pensilina senza delimitazioni con pareti, essa non può considerarsi nuova fabbrica e non crea diritto, per gli altri condomini, di ricevere una indennità (Cass. 15 febbraio 1999, n. 1263).
Anche la trasformazione di vani nel sottotetto in vani abitabili, senza aumento di volumetria, ma solo cambio di destinazione, non è considerata sopraelevazione, pur in presenza di una scala interna di collegamento fra le due unità immobiliari.
Al limite, e se del caso, si dovranno rivedere le tabelle millesimali.
Non è menzionato nell’elencazione di cui all’Art. 1117 cod. civ., ma non c’è dubbio che esso sia una parte comune.
In proposito è stato sentenziato che lo spazio sottostante il suolo, in mancanza di titolo, deve considerarsi parte comune, indipendentemente dalla sua destinazione.
Il condomino, senza il consenso degli altri partecipanti, non può procedere ad escavazioni per ingrandire spazi preesistenti, in quanto tale atto rappresenterebbe l’assoggettamento di un bene comune a vantaggio di un singolo (Cass. 28 aprile 2004, n. 8119, citata).
Questa sentenza conferma una precedente – Cass. 21 maggio 2001, n. 6921 – la quale sanciva che è violato il disposto dell’Art. 1102 cod. civ. in caso di un eventuale ampliamento in danno del sottosuolo se impedisce agli altri condomini di farne parimenti uso.
È la parte o lo strato che si trova al di sotto del suolo.
Esso non è incluso fra l’elenco delle parti comuni di cui all’Art. 1117 cod. civ., ma è egualmente una cosa comune.
Mentre il suolo riguarda solo la superficie su cui sorge il condominio, il sottosuolo si estende su tutta l’area di proprietà del condominio stesso, e pertanto riguarda anche gli eventuali cortili e giardini.
Con riferimento al suolo su cui sorge l’edificio, la conferma che anche il sottosuolo è una parte comune ce lo dice la Cassazione 9 marzo 2006, n. 5085, ma non è che una delle ultime costanti sentenze.
Il proprietario del piano terra o del piano interrato che intenda eseguire lavori di sfondamento per maggiorare l’altezza dei suoi locali – senza l’autorizzazione dell’assemblea – dovrà recedere dal proposito, poiché ciò gli è vietato dall’Art 1102 cod. civ., in quanto viene impedito agli altri condomini di farne uguale uso, e l’amministratore può attivarsi – a norma dell’Art. 1130 cod. civ. – senza necessità di autorizzazione (Cass. 30 dicembre 1997, n. 13102).
Eventuali opere nel sottosuolo di tutta l’area di proprietà condominiale sono inibite al singolo, ma non al condominio, che può, conseguentemente, fare qualsiasi escavazione od opera, a condizione che non rechi danni ai vicini (Art. 840 cod. civ.).
Pertanto – in virtù anche della legge 122/1989 (legge Tognoli) Art. 9, primo comma – i comproprietari di un condominio possono realizzare nel sottosuolo dello stesso, ovvero nei locali siti al piano terreno, dei parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Lo stesso articolo precisa che le deliberazioni che hanno per oggetto le opere e gli interventi previsti al primo comma sono approvate dall’assemblea, sia in prima che in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’Art. 1136 cod. civ., secondo comma, fermo però quanto previsto dagli Art. 1120 cod. civ. secondo comma e Art. 1121 cod. civ. terzo comma.
È opportuno rilevare che i parcheggi realizzati in forza della legge 122/89 non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale e che gli eventuali atti di vendita sono nulli.
In tal senso, risulta chiaro l’intento del legislatore di evitare speculazioni da parte di chi, usufruendo di speciali deroghe ed agevolazioni per la realizzazione di parcheggi sul suolo o nel sottosuolo, ha previsto che gli stessi siano sottoposti sia a circolazione che ad utilizzazione vincolata.
Il succitato Art. 9 della legge 24 marzo 1989 n. 122, ha introdotto deliberazioni a maggioranza ridotta anche nell’ipotesi di destinazione a parcheggio di cortili condominiali a cielo aperto e ciò non costituisce innovazione vietata ai sensi dell’Art. 1120 cod. civ., poiché la destinazione del cortile a parcheggio pertinenziale non sottrae la parte comune al godimento condominiale, né impedisce la funzione tipica delle aree cortilive, che è quella di assicurare luce ed aria al condominio.
Le varie leggi in materia hanno però stabilito che a ciascun condomino deve essere assegnato, almeno in uso, un posto auto – eventualmente ricavabile nel sottosuolo – e quale pertinenza dell’unità immobiliare.
Esiste però un problema, in quanto il sottosuolo è una proprietà comune, e quindi non può essere frazionato e quindi ceduto in proprietà esclusiva ai condomini, considerando anche che le disposizioni di legge prevedono che i condomini – che non abbiano voluto partecipare alla realizzazione delle autorimesse sotterranee – possono aderire in un tempo successivo.
Spazio esistente fra l’ultimo piano dell’edificio e le falde del tetto.
Il sottotetto è quella zona situata immediatamente sotto il tetto e serve, in particolare, a proteggere le unità dell’ultimo piano dal freddo e dal caldo esterni (Cass. 15 maggio 1996, n. 4509).
Questo vano è contenuto in basso dal solaio posto a copertura dell’unità immobiliare sottostante, ed in alto dalla struttura del tetto.
Quando non può avere altra utilità che quella di essere complementare del tetto, il sottotetto deve essere considerato di proprietà comune (Cass. 28 aprile 1999, n. 4266).
Nel silenzio dei titoli, per decidere della condominialità di un sottotetto, si deve considerare la concreta prevalenza, rispetto alla funzione di copertura del condominio, della effettiva destinazione dei volumi in questione ad unità abitativa autonomamente fruibile, anche se ubicata sulla sommità del fabbricato e sottostante il tetto comune (Cass. 17 maggio 2013, n. 12046).
Il sottotetto può considerarsi, invece, pertinenza dell’unità immobiliare posta all’ultimo piano quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere i locali sottostanti, con la creazione di una camera d’aria (Cass. 12 agosto 2011, n. 17249).
A conferma, la Suprema Corte ha affermato che la natura del sottotetto di un condominio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in mancanza di essi, può ritenersi comune.
È da considerarsi, invece, pertinenza dell’ultimo piano quando serva esclusivamente a proteggerlo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, con la creazione di una camera d’aria e non abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (Cass. 17 dicembre 2013, n. 28141).
Se però non è incluso fra le parti comuni – in mancanza di titolo – il sottotetto è compreso nelle parti comuni solo nel caso risulti destinato – sia pure in via potenziale – all’uso comune, oppure all’esercizio di un servizio nell’interesse condominiale (Cass. 20 gennaio 2014, n. 1953).
Se il sottotetto costituisce una parte comune, può essere liberamente usato nell’interesse di tutti, magari solo per ospitare impianti condominiali, quali vasi d’espansione o tubi di sfiato (Cass. 4 dicembre 1999, n. 13555).
A conferma di queste indicazioni, in mancanza del titolo e pur non essendo elencato fra le cose comuni di cui all’Art. 1117 cod. civ, il sottotetto è una parte comune (Cass. 11 maggio 2000, n. 6027; Consiglio di Stato, Sezione IV, 14 settembre 2005, n. 4744).
Nel caso, invece, che il sottotetto risulti di proprietà della o delle unità immobiliari sottostanti, esso dovrà anche essere computato nelle tabelle millesimali.
In tal caso, nella misurazione della sua estensione, si verificheranno l’effettiva minore altezza del vano sottotetto rispetto agli altri vani ai piani sottostanti, nonché la funzionalità, la destinazione e tutti i coefficienti valutativi più opportuni.
Infatti la ridotta altezza, specialmente in gronda, obbligherà il Tecnico a valutare la possibilità di applicare non la superficie ma la cubatura (Cass. 26 marzo 2010, n. 7300).
A seconda della altezza e praticabilità, il sottotetto potrà essere semplicemente una camera d’aria anti agenti atmosferici, un locale non abitabile ma utilizzabile per deposito di materiali oppure un locale abitabile e quindi considerato millesimalmente a seconda di queste tipologie costruttive.
Infine, se dal titolo risulterà che il sottotetto esistente nel condominio è di proprietà esclusiva, il condomino proprietario potrà eventualmente procedere ad una sopraelevazione del fabbricato a norma dell’Art. 1127 cod. civ..
Quindi il proprietario del sottotetto può elevare nuovi piani.
La stessa facoltà spetta al condomino proprietario della unità immobiliare sottostante il sottotetto impraticabile.
Egli potrà procedere alla sopraelevazione e spostare verso l’altro – sopra la nuova fabbrica – il vano sottotetto condominiale (Cass. 20 febbraio 2012, n. 918).
È poi errato presumere di poter attrarre la cosa comune – il sottotetto – nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, inglobandola nella proprietà – invocando l’Art. 1102 cod. civ., poiché – in tal modo – la sottrarrebbe al godimento degli altri partecipanti (Cass. 19 dicembre 2012, n. 23448).
Quantità di denaro erogato per il pagamento di servizi o per acquistare prodotti.
Nel condominio, le spese si suddividono in spese ordinarie e spese straordinarie.
L’obbligo per i partecipanti di contribuire alle spese per la conservazione ed il funzionamento delle cose comuni, nonché per la prestazione dei servizi, trae origine dal loro diritto di proprietà e non, quindi, dalla effettiva utilizzazione dei beni o dei servizi.
Ed il dovere di partecipazione alle spese condominiali è rappresentato dall’utilità e dal vantaggio che ogni partecipante trae dalle cose comuni.
L’addebito e la ripartizione delle suddette spese non deve, pertanto, essere effettuata in base all’uso effettivo ma in base a quello potenziale, ed in forza di questo principio – salvo accordi o situazioni particolari – ogni condomino deve contribuire alle varie spese, in base alla loro tipologia ed in funzione delle tabelle millesimali di competenza.
L’articolo di legge preposto alla ripartizione delle spese è l’Art. 1123 cod. civ. e si riferisce a tutti i tipi di oneri condominiali, in generale.
Gli articoli successivi, che trattano la ripartizione delle spese nell’ambito condominiale, si riferiscono a impianti o parti comuni particolari – scale e ascensori, soffitte e solai, lastrici solari e sopraelevazioni -.
A conferma anche di quanto sopra esposto l’Art. 1123 cod. civ. dispone che le varie spese di conservazione, godimento, per i servizi e per le innovazioni debbono essere ripartite in base alle tabelle millesimali, salvo diversa convenzione.
È sottinteso che l’assemblea – che è sempre sovrana – può benissimo modificare i suddetti concetti ripartitivi, in quanto l’articolo in questione è derogabile, ma lo deve fare con la totalità dei voti.
Si tratta di spesa necessaria per evitare il deterioramento delle parti comuni e per mantenere il bene in efficienza, nonché per godere dei servizi di interesse comune e per il funzionamento degli impianti condominiali – pulizie, illuminazione, portierato, amministrazione, ecc. –.
A questo proposito, è stato stabilito che, in mancanza di diversa convenzione adottata dalla totalità condominiale, la ripartizione delle spese condominiali deve necessariamente avvenire secondo i criteri proporzionali fissati dall’Art. 1123 cod. civ. (Cass. 5 novembre 2001, n. 13631).
Il suddetto articolo, nel consentire la deroga convenzionale ai criteri di ripartizione legale delle spese condominiali, non pone limiti ai partecipanti, con la conseguenza che deve ritenersi legittima non solo una convenzione che ripartisca le spese tra i condomini in maniera diversa da quella legale, ma anche quella che prevede l’esenzione totale o parziale in favore di alcuni e per certe spese (Cass. 25 marzo 2004, n. 5975).
La ripartizione di una spesa condominiale può essere deliberata anche in mancanza della tabella millesimale, purché essa rispetti la proporzione fra la quota addebitata al singolo partecipante, dato che il criterio per fissare le singole quote è indipendente dalla approvazione della tabella stessa, in quanto derivante dalla proporzione fra il valore della proprietà del singolo e quella dell’intero condominio (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2478).
È stato anche affermato che l’obbligo per i condomini di contribuire al pagamento delle spese condominiali sorge nel momento in cui l’assemblea approva le spese stesse, e non quando – con successiva deliberazione – si approva la ripartizione che, tutto sommato ed in presenza di tabelle millesimali, è semplicemente il frutto di una operazione matematica (Cass. 21 luglio 2005, n.15288).
Tali sono le spese che si debbo affrontare per cause accidentali o per necessità improvvise e si distinguono proprio dalle spese ordinarie in quanto, tutto quello che non rientra in questo ambito, ha carattere di straordinarietà.
In questa individuazione, ci soccorre l’Art. 1005 cod. civ. che definisce – in altro contesto – quali spese straordinarie quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri, la sostituzione di travi, il rinnovamento di tetti, di solai, di scale e di parti comuni in generale.
Anche nel caso del pagamento delle spese straordinarie, l’obbligo sorge nel momento in cui si rende necessario provvedere ai lavori che giustificano la spesa (Cass. 10 luglio 2004, n. 12013).
È il caso di evidenziare il problema rappresentato dal condomino che – unilateralmente – si attiva ed esegue lavori su parti condominiali richiedendo poi il rimborso della spesa sostenuta.
Per avere diritto al rimborso della spesa sostenuta, il condomino deve dimostrare l’urgenza, ai sensi dell’Art. 1134 cod. civ., ovvero la necessità di effettuarla senza indugio, e quindi senza potere avvertire l’amministratore o, in sua mancanza, gli altri condomini (Cass. 26 marzo 2001, n. 4364).
L’obbligo della dimostrazione dell’urgenza dei lavori e della spesa, esiste anche nei condominii minimi, cioè in quelle collettività condominiali composte di solo due unità immobiliari (Cass. 7 gennaio 2004, n. 27).
Dobbiamo sempre tenere presente che l’Art. 1134 cod. civ. dispone criteri particolari, in quanto prevede che il condomino possa – senza interpellare l’amministratore e gli altri partecipanti – eseguire lavori ed anticipare spese per cose comuni, ma solo se si tratta di interventi e spese urgenti.
L’urgenza deve essere in funzione della necessità di evitare inconvenienti o danni imminenti, e per ridare o mantenere la piena funzionalità della parte comune su cui si è intervenuti (Cass. 3 settembre 2013, n. 20051).
Locale in cui si stendono i panni.
È generalmente un locale sufficientemente aerato, posto al piano terra o all’ultimo piano, di proprietà comune ed elencato al numero due dell’Art. 1117 cod. civ., fra quelle parti, cioè, che possono subire un cambio di destinazione se viene a cessare la primaria sua utilizzazione.
A norma dell’Art. 1117ter cod. civ., l’assemblea ne può infatti cambiare la destinazione.
Lo stenditoio può essere annesso alla lavanderia e farne parte integrante, oppure essere un locale a se’ stante.
L’importante è che il locale stesso sia arieggiato e con buona illuminazione naturale.
Le uniche altre cose necessarie sono una serie di fili tesi a non eccessiva altezza, distanziati fra loro in modo da permettere un agevole uso.
Se il condominio ha un elevato numero di unità immobiliari e lo stenditoio non è molto ampio, sarà necessario ricorrere ad un uso turnario nella settimana, affinché tutti gli aventi diritto ne possano fare uso, con l’obbligo di raccogliere gli indumenti asciutti onde lasciare disponibili i fili.
Lo stenditoio può anche essere posizionato in un’area prestabilita del cortile, ma in questo caso la parte comune in questione è il cortile stesso, con una parte di esso destinata a stenditoio.
Nel caso che il condominio sia dotato di lastrico solare, anche in questo caso l’assemblea, con apposita deliberazione, può destinare tutto il lastrico o una parte stabilita ad ospitare una distesa di fili.
Non è la superficie, a livello del piano di campagna, che viene scavata per la posa delle fondazioni, ma quella parte del terreno sulla quale viene a poggiare l’intero edificio e, immediatamente, la parte infima dello stesso (Cass. 7 giugno 1993, n. 6357).
A conferma, è stato detto che il suolo su cui sorge l’edificio è quella porzione di terreno dove sono infisse le fondazioni; i condomini sono pertanto comproprietari non della superficie a livello di campagna, bensì dell’area di terreno sita in profondità – sottostante, cioè, la superficie alla base dell’edificio – sulla quale posano le fondazioni (Cass. 28 aprile 2004, n. 8119).
Il suolo è quell’area dove sono infisse le fondazioni e si trova sotto il piano cantinato più basso.
Esso non è quella parte di terreno che viene scavata per la posa delle fondazioni, posta a livello del piano di campagna, ma quella parte sulla quale appoggia l’intero fabbricato (Cass. 7 giugno 1993, n. 6357).
Da sempre la Giurisprudenza intende la superfice occupata e delimitata sia dalle fondazioni che dai muri perimetrali dell’immobile (Cass. 10 settembre 1969, n. 3081).
Il termine edificio va interpretato nel senso che, per esso, si intende l’intero manufatto, dalle fondazioni al tetto, in esso compresi gli scantinati, compresi fra le fondazioni stesse, mentre la espressione “suolo su cui sorge l’edificio” deve intendersi non come superficie a livello del piano di campagna scavata per la posa delle fondazioni, ma come porzione di terreno su cui poggia tutto il fabbricato ed in particolare, la sua parte inferiore, con la conseguenza che i condomini sono comproprietari non della superficie a livello di campagna, bensì dell’area di terreno sulla quale poggiano le fondamenta (Cass. 24 agosto 1998, n. 8346).
Più recentemente la Cassazione ha confermato che il suolo su cui sorge l’edificio non è la superficie a livello del piano di campagna che viene scavata dalle fondamenta, oppure la superficie a base di queste, bensì quella porzione di terreno sulla quale appoggia l’intero fabbricato e – sotto – la parte infissa dello stesso, e che lo spazio sottostante il suolo su cui sorge l’edificio, posto tra i muri maestri, i pilastri o le altre opere che integrano le fondazioni e fino a tale livello, rientra nel concetto di sottosuolo, e che quindi il sottosuolo stesso, anche se non menzionato dall’Art. 1117 cod. civ., deve considerarsi, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, oggetto di proprietà comune, in virtù del combinato disposto dell’Art. 1117 cod. civ. e Art. 840 cod. civ. riguardo alla funzione di sostegno ugualmente svolta da essi (Cass. 28 aprile 2004, n. 8119).
Ne consegue che senza l’autorizzazione di tutti i condomini, ogni lavoro, che non sia di consolidamento, sistemazione o riparazione, è vietato (Cass. 11 novembre 1986, n. 6587).
Infatti, nel condominio non è applicabile la normativa in forza della quale la proprietà del suolo si estende anche al sottosuolo (Cass. 9 marzo 2006, n. 5085).
È stata comunque, ritenuta legittima una modesta escavazione per farvi passare un tratto di fognatura, per una fossa biologica o per un serbatoio per gasolio, che consenta un miglior godimento della proprietà privata con un maggior uso della parte comune – ai sensi dell’Art. 1102 cod. civ. – purché non pregiudichi egual diritto di tutti gli altri condomini (Cass. 17 maggio 1997, n. 4394).
La Giurisprudenza conferma che il suolo di un condominio è l’area su cui gravano le fondazioni del fabbricato.
Nel caso questo sia costruito su un pendio, le superfici situate a piano terra sono necessariamente sfalsate, e quindi è suolo comune non soltanto l’area ove poggia il vano più basso, ma anche quella coperta da ciascun locale posto al piano terra.
Conseguentemente il terrapieno, su cui è costruito un vano al piano terra, è comune e non può essere nelle disponibilità di un solo condomino (Cass. 26 gennaio 2000, n. 855).
La Suprema Corte si è pronunciata anche sul vespaio, cioè sul riempimento in ciottoli spesso posizionato sotto il pavimento del piano terra o interrato.
In merito ha chiarito che il suddetto manufatto non rientra nell’ambito del suolo comune, ma è ben distinto dalle fondazioni ed è nella esclusiva disponibilità dell’unità immobiliare sita al piano terra o interrato (Cass. 7 giugno 1993, n. 6357).
Nel caso di una intercapedine fra il piano di posa delle fondazioni di un condominio - che costituisce il suolo dello stesso – e la prima soletta superiore, se non risulta diversamente dai titoli di acquisto delle singole proprietà, essa è comune in quanto è destinata alla aereazione o coibentazione di tutto il fabbricato, alla stessa stregua del vespaio (Cass. 17 marzo 1999, n. 2395).
Parti comuni di proprietà di due o più fabbricati autonomi.
Il supercondominio è quindi un insieme di più condominii, ciascuno di proprietà di più persone, legati fra loro almeno da una parte comune elencata nell’Art. 1117 cod. civ..
Per la costituzione di un supercondominio, non è necessaria né la volontà dell’originale proprietario né quella dei condomini, ma lo diventa “ipso iure et facto”.
Se i vari fabbricati sono inseriti in una o più ampia situazione condominiale, con una o più parti comuni interessanti tutto il complesso, è necessario applicare le norme condominiali e non quelle sulla comunione (Cass. 14 novembre 2012, n. 19939).
È lapalissiano che – in assenza di parti comuni interessanti i diversi fabbricati in condominio – non si può parlare di supercondominio (Cass. 20 ottobre 1984, n. 5315).
Dopo la Riforma del Codice è necessario suddividere le disposizioni sul supercondominio in due parti ben distinte.
La prima riguarda i supercondominii con un massimo di sessanta partecipanti – in quanto ricadono nelle disposizioni di cui all’Art. 1117bis cod. civ. – e la seconda riguarda invece i supercondominii con più partecipanti, regolati dalle disposizioni dell’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ..
Non è comprensibile il motivo in forza del quale il legislatore abbia ritenuto opportuno fare questa differenziazione, considerando che parla di partecipanti e non di unità immobiliari, per cui si potrebbero verificare casi – ad esempio – di sessanta partecipanti proprietari di cinquecento unità immobiliari situate in dieci fabbricati in supercondominio – Art. 1117bis cod. civ. – e sessantuno unità immobiliari di proprietari diversi siti in due diversi fabbricati, con applicazione inderogabile dell’altro articolo.
Non è neppure immaginabile che il legislatore ignori la differenza fra partecipanti e unità immobiliari.
Il modus operandi nei due casi ipotizzati e previsti dalla legge, è quindi diverso, anche in modo sostanziale.
Quando i fabbricati in supercondominio non superano i sessanta partecipanti, tutte le deliberazioni relative alle parti comuni ai vari immobili, dovranno essere assunte dall’assemblea di tutti i condomini, come se si trattasse di un unico edificio.
Per la gestione di tutte le parti comuni del supercondominio necessiterà una tabella millesimale che raggruppi – a mille – quelle degli altri immobili.
In pratica serviranno delle tabelle millesimali di proprietà per ogni singolo fabbricato, per la gestione delle parti comuni relative ad ognuno, e poi necessiterà una tabella di raggruppamento, che includa le unità immobiliari di tutto il supercondominio (Cass. 14 novembre 2012, n. 19939).
Essa servirà per validità costitutive e deliberative e per la nomina dell’amministratore del complesso, che potrà essere persona diversa rispetto all’amministratore dei singoli fabbricati.
Ogni condominio, con il suo amministratore e la sua assemblea, delibererà tutto quanto necessario e per la gestione delle sue esclusive parti comuni.
Quando sarà necessario deliberare sulle cose di proprietà di tutti i fabbricati in supercondominio, l’amministratore dello stesso dovrà convocare tutti gli aventi diritto, i quali delibereranno come se si fosse in presenza di un unico immobile.
Infatti, la legittimazione degli amministratori di ogni singolo condominio a compiere gli atti conservativi, di cui agli Artt. 1130 e 1131 cod. civ., puo’ intervenire solo nell’ambito degli stessi fabbricati di loro pertinenza, ma non ha facoltà di intervento diretto sulle parti comuni di competenza del supercondominio.
In caso di necessità si dovrà avvertire o sollecitare l’amministratore dello stesso a prendere i provvedimenti necessari (Cass. 26 agosto 2013, n. 19558).
Fino alla Riforma, non era inusuale che si attivassero solo alcuni dei partecipanti dei vari edifici – ad esempio i componenti del Consiglio – ma senza nessun supporto o giustificazione legale.
Ciò, però, anche in passato era contrario a quanto disposto dell’Art. 1136 cod. civ., inderogabile, che impone la specifica convocazione di tutti i partecipanti.
Tutte le ultime sentenze erano allineate su questi principi, senza eccezione (Cass. 8 agosto 1996, n. 7286; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15476; Cass. 3 ottobre 2003, n. 14791).
Questo sempre, ed indipendentemente dal numero di partecipanti o di unità immobiliari interessate al supercondominio.
Come detto, la nuova Riforma ha posto un limite numerico, affermando che fino a sessanta partecipanti si usano le vecchie normative.
Con un numero superiore si dovranno convocare solo i rappresentanti nominati da ogni singolo condominio, sotto la guida dell’amministratore del supercondominio.
L’articolo di legge che lo dispone – Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. – è inderogabile come l’Art. 1136 cod. civ..
Di conseguenza viene, di fatto, annullato l’obbligo di convocare alle assemblee tutti gli aventi diritto, in quanto è espressamente previsto che vengano convocati solo un rappresentante per ogni fabbricato.
Il suddetto rappresentante dovrà essere nominato a norma del quinto comma dell’Art. 1136 cod. civ., e quindi non si può dire che il problema venga affrontato in modo superficiale, però ciò non toglie che ci si trovi davanti ad una situazione anomala: nelle decisioni relative alle parti in comune al supercondominio non si farà più ricorso alle doppie maggioranze – teste e millesimi – ma solo al numero dei rappresentanti ed al loro voto.
Per la ripartizione delle spese occorrenti alla gestione e manutenzione del supercondominio ci si dovrà riferire alle tabelle millesimali di detto supercondominio, che raggrupperà tutto il complesso (Cass. 16 febbraio 1966, n. 1206).
Successivamente si possono utilizzare due diversi criteri, egualmente corretti.
L’amministratore del supercondominio invia i conteggi preventivi e consuntivi a tutti i condomini interessati, i quali verseranno i contributi dovuti sul conto corrente intestato al supercondominio stesso.
In alternativa, l’Amministratore del supercondominio invia la documentazione agli amministratori dei singoli fabbricati, i quali – separatamente o incluse nella contabilità condominiale – richiederanno le quote dovute.
Se fra le parti comuni del supercondominio esisteranno spese riconducibili solo ad una parte dei fabbricati componenti il suddetto, queste spese seguiranno le disposizioni imposte dall’Art. 1123 cod. civ. (Cass. 18 aprile 2005, n. 8066).
Elencazione fino a mille dei valori delle unità immobiliari site in un fabbricato in condominio.
Essa rappresenta il peso che le varie proprietà hanno nell’ambito di un condominio, nonché il rapporto di valore tra i beni esclusivi.
La tabella serve per la ripartizione delle spese condominiali e per assumere le delibere su qualsiasi argomento sottoposto al parere dell’assemblea.
La tabella millesimale per antonomasia è quella generale che raggruppa tutte le unità immobiliari esistenti nel fabbricato, in quanto tutte le altre tabelle, ripartitive, non sempre raggruppano tutte le proprietà.
Oltre alla tabella delle spese generali abbiamo anche le seguenti tabelle:
− Tabella per la manutenzione e sostituzione delle scale e degli ascensori, ma essa non raggruppa tutte le proprietà, si pensi ai negozi, autorimesse, magazzeni, ecc.
Inoltre possono ben esistere fabbricati con più scale e più ascensori, per cui è implicito che essa non possa raggruppare l’intero condominio, ma solo quelle parti ad essi interessate.
− Tabella per la ripartizione delle spese di riscaldamento e condizionamento, anche questa non raggruppa tutte le unità immobiliari, quali le autorimesse, magazzeni, ecc..
− Tabella per la ripartizione delle manutenzioni delle terrazze a livello: la si incontra raramente, ma se del caso, riguarda solo una parte delle proprietà individuali.
Il nuovo Art. 69 disp. att. e trans. cod. civ. prevede – come già in passato – che la tabella millesimale delle spese generali possa essere rettificata o modificata dall’unanimità.
E quando indica “unanimità” intende totalità dei condomini.
La necessità di una delibera totalitaria è sempre stata tassativamente imposta da dottrina e giurisprudenza.
Infatti pareva illogico che una maggioranza, per quanto consistente, potesse imporre ad eventuali contrari le quote ripartitive delle spese o delle maggioranze assembleari.
Ma in data 9 agosto 2010, con sentenza n. 18477, le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che le tabelle millesimali potevano essere approvate con la maggioranza di cui all’Art. 1136 cod. civ., secondo comma.
Inutile ora soffermarsi sulle motivazioni, per certi versi logiche, di una simile sentenza.
La Riforma del codice civile – legge 220/2012 – ha ripristinato il vecchio concetto dell’unanimità dei consensi.
Resta valida la dizione dell’Art. 68 disp. att. e trans. cod. civ. relativamente all’impossibilità per il compilatore delle tabelle di considerare, nei calcoli per la formazione della tabella millesimale, il canone locatizio, i miglioramenti e lo stato manutentivo delle singole unità.
Tutta la vecchia giurisprudenza ha sempre negato all’assemblea la possibilità di deliberare – sia pure con maggioranze qualificate – le quote millesimali per la ripartizione delle spese ma, implicitamente, anche gli stessi valori validi per le delibere assembleari, ribadendo che ciò non rientra nei poteri dell’assemblea, ma deriva dal titolo o dalla legge; per tutte una: Cass. 6 marzo 1970, n. 561.
Si potrebbe obiettare che nella nuova legge si conferma l’Art. 69 disp. att. e trans. cod. civ. e cioè che l’assemblea, a maggioranza, possa modificare o rettificare i valori.
Non è così: in base all’articolo, l’assemblea è chiamata a valutare una situazione particolare, ed in funzione di questa ad integrarla ed inserirla fra valori precedentemente valutati e approvati.
Implicitamente, riconosce validi, fra gli altri, i coefficienti sempre utilizzati per pervenire alla formazione della tabella millesimale (Cass. 1 luglio 2004, n. 12018) e cioè:
altezza del piano rispetto al suolo,
luminosità,
funzionalità,
esposizione,
orientazione.
Applicando questi coefficienti, od anche eventuali altri, alle superfici od ai volumi degli ambienti – tutti – siti nel condominio, e rapportando a mille le superfici adeguate o virtuali, si ottiene la tabella millesimale ricercata.
Chiarito che la suddetta tabella deve essere approvata con la totalità delle adesioni, il nuovo Art. 69 disp. att. e trans. cod. civ. dispone che in caso di errore o di mutate situazioni, la tabella stessa può essere rettificata o modificata – anche nell’interesse di un solo condomino – e può essere approvata anche solo a maggioranza, e precisamente con quella prevista dall’Art. 1136 cod. civ., secondo comma.
In passato la Suprema Corte aveva disposto che le tabelle millesimali potessero essere rivedute o modificate solo se il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano risultava notevolmente alterato (Cass. 19 febbraio 1999, n. 1408).
Questa non è l’unica sentenza, ma tutte insistevano sulla notevole alterazione rispetto ai valori iniziali: mai ha indicato una percentuale, un numero che indicasse dove iniziasse il concetto di notevole.
Ora invece si afferma che la tabella si possa rivedere se il valore proporzionale dell’unità immobiliare si è alterato per più di un quinto.
Altra novità estremamente importante, contenuta nel citato Art. 69 disp. att. e trans. cod. civ. è che, in caso di richiesta di revisione della tabella, il o i richiedenti non dovranno più convenire in giudizio tutti i condomini, ma solo il condominio, e, per esso, l’amministratore.
In passato era giurisprudenza costante, e quindi più volte ribadita – vedi anche Cass. 6 luglio 1984, n. 3967 – che la richiesta di revisione della tabella millesimale doveva essere proposta in contradditorio di tutti i condomini e non contro il condominio, cumulativamente rappresentato dall’amministratore.
A proposito dell’amministratore, è stato sancito che non rientra fra i suoi compiti la modifica delle tabelle millesimali esistenti, ossia la creazione di nuove tabelle, poiché tale facoltà è riservata solo all’assemblea dei condomini (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1520).
La tabella delle spese generali può esistere in forma ridotta se – ad esempio – nel condominio esistono parti comuni che non appartengono a tutti i condomini, ma solo ad una parte di essi.
Il cortile, ad esempio, non come proprietà, ma come uso ed utilizzazione, il giardino, l’eventuale piscina o il campo da tennis ed altre parti ancora.
Questa tabella delle spese generali parziali, altro non è se non l’originale tabella dalla quale sono state detratte le unità immobiliari non interessate ad una determinata parte comune e quindi nuovamente rapportate a mille, con semplice calcolo aritmetico.
Nel caso, ormai frequente, dei supercondominii, si avrà una tabella delle spese di raggruppamento – comprensiva cioè di tutti i fabbricati – e poi si avranno le tabelle delle spese generali di ogni singolo fabbricato, considerate, quindi, parziali, ovviamente anch’esse rapportate a mille per ogni singolo immobile.
Il nuovo Art. 1124 cod. civ. ha finalmente equiparato l’ascensore alle scale, così come già previsto, peraltro, da una datata ed ora confermata sentenza della Cassazione (25 ottobre 1969, n. 3514).
Ma, da allora, la giurisprudenza aveva sempre considerato la complementarietà di scale ed ascensore, e ribadito questo concetto di addebito e di ripartizione (Cass. 25 marzo 2004, n. 5975).
L’approvazione della tabella delle scale e dell’ascensore, specialmente in presenza di più scale ed ascensori, spetta a coloro i quali sono interessati a quella parte comune, così come prevede l’ultimo comma dell’Art. 1123 cod. civ..
Anche la tabella per la ripartizione delle spese di riscaldamento e condizionamento non può, per sua natura, comprendere tutte le unità immobiliari esistenti nel condominio, ma solo quelle che risultano proprietarie dell’impianto.
Chiaramente, non solo quelle collegate all’impianto, ma tutte quelle che ne sono proprietarie, in quanto è sempre l’uso potenziale da considerare, e non l’uso effettivo.
Qualche problema sorgerà dalla eventuale applicazione dell’ultimo comma dell’Art. 1118 cod. civ., relativo al distacco dell’impianto.
In tali casi, è chiaro che la proprietà che si distaccherà sarà tenuta a concorrere al pagamento per le spese di manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
La tabella millesimale delle spese generali rimarrà – pertanto – inalterata.
Ma la tabella per la gestione ed uso dell’impianto di riscaldamento dovrà essere modificata ed i valori rapportati nuovamente a mille, e ciò è lecito.
Già la Cassazione si era pronunciata in proposito, affermando che all’assemblea dei condomini, nell’ambito delle attribuzioni concernenti la gestione degli impianti e dei servizi comuni, compete la possibilità di modificare le tabelle concernenti il servizio di riscaldamento, qualora, in seguito alle modifiche apportate da un condomino all’impianto di riscaldamento all’interno del proprio appartamento, le tabelle non siano più rispondenti alla realtà (Cass. 3 ottobre 1996, n. 8657).
Un discorso a parte merita l’eventuale tabella per la ripartizione delle spese di manutenzione e rifacimento delle terrazze a livello.
Pacifico è l’addebito del terzo, senza ricorso a tabelle di sorta; per la ripartizione dei due terzi – dispone l’Art. 1126 cod. civ. – sono interessati i condomini a cui il lastrico serve.
Giurisprudenza e Dottrina – per decenni – hanno sempre affermato che i condomini con proprietà sotto la perpendicolare del terrazzo, avrebbero dovuto pagare per tutti i loro millesimi, anche se coperti solo in minima parte.
Infatti, scorporare la “minima parte” dalla totalità dell’unità immobiliare sarebbe una eresia tecnica.
Se la parte minima fosse un ripostiglio, quanto vale rispetto al resto?
E se, invece, fosse il salone principale?
Come si vede non è possibile fare dei conteggi millesimali su delle proporzioni, ma necessita – in partenza – fare eventualmente dei conteggi differenziati.
Dare una risposta a questo quesito appare ora di importanza basilare, in quanto una recentissima sentenza – Cass. 23 gennaio 2014, n. 1451; Presidente Dott. Triola – dispone proprio che non tutta la proprietà sottostante dovrà contribuire nella spesa, ma solo per la parte coperta (vedi terrazza a livello).
Non potendo fare proporzioni né di millesimi, né di superfici, è indispensabile fare ricorso a delle tabelle già predisposte.
Predisposte: ma in che modo?
Con il vecchio concetto ripartitivo di tutto il valore millesimale dell’unità immobiliare o il valore millesimale proporzionale?
È impensabile dover disquisire in assemblea su questo dilemma e nella impellenza di una riparazione urgente.
Al tecnico compilatore delle varie tabelle, ed ascoltando i suoi suggerimenti, si dovranno dare le opportune indicazioni.
Ricordiamo sempre che l’Art. 1126 cod. civ. è un articolo derogabile, e l’assemblea sovrana potrà – con la totalità dei voti – deliberare il concetto ripartitivo ed i suoi valori.
Superficie praticabile, ricavata su una parte dell’edificio, adatta al soggiorno e munita di parapetto.
Nessuna differenza fisica e strutturale esiste fra il lastrico solare e la terrazza a livello, ma solo giuridica.
Il lastrico è una parte comune a cui possono accedere tutti i condomini; la terrazza a livello è in uso o in proprietà ad uno o solo alcuni dei condomini.
Entrambe le strutture fungono da copertura del fabbricato o di una parte di esso.
La terrazza a livello è posta allo stesso piano dell’appartamento – livello – vi si accede solo dallo stesso, ed ha lo scopo di aerare ed illuminare l’appartamento – che generalmente ha i muri esterni arretrati rispetto al profilo generale del condominio – consente di soggiornarci ed è suscettibile di un maggiore godimento e di una più ampia utilizzazione, sia del terrazzo che dell’appartamento (Cass. 18 agosto 1990, n. 8394).
La ripartizione delle spese di manutenzione e ricostruzione del lastrico è regolata dall’Art. 1126 cod. civ., che è derogabile, e pertanto la volontà unanime di tutti i condomini la può modificare.
La legge, prevedendo testualmente che la contribuzione per un terzo della spesa a carico del condomino che ne ha “l’uso esclusivo”, anziché a colui che ne “fa un uso esclusivo”, attribuisce all’espressione “uso esclusivo” il significato di facoltà dell’uso, quale ne sia il modo, confermandosi del tenore della stessa norma la volontà del legislatore di prescindere da una effettiva utilizzazione della terrazza a livello (Cass. 12 marzo 1993, n. 2988).
All’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione sono tenuti tutti i condomini interessati, assieme al proprietario od usuario, con la logica conseguenza che, relativamente ai danni causati all’unità immobiliare sottostante, rispondono tutti i condomini (Cass. 20 ottobre 1992,n. 11774).
Ciò se il manto risulterà deteriorato per vetustà e non per cattivo uso, poiché se la causa delle rotture o delle lesioni al manto sono da imputare al proprietario od usuario, a causa di opere di vario tipo – posizionamento di tubi sotto la pavimentazione, realizzazione di pesanti fioriere , radici di piante del giardino pensile, costruzione di vasche, montaggio di manufatti – ogni spesa inerente e conseguente sarà solo di sua competenza (Cass. 4 giugno 2001, n. 7472).
La riparazione di tutti quei manufatti presenti sulla terrazza, ma che non riguardano la protezione e l’impermeabilizzazione del terrazzo – quali il rifacimento della sola pavimentazione, la manutenzione della ringhiera e comunque tutto ciò che serve non alla copertura, ma a soddisfare altra utilità della terrazza – è di spettanza esclusiva del fruitore e non anche degli altri condomini (Cass. 5 novembre 1990, n. 10602; Cass. 19 gennaio 2004, n. 735).
Più recentemente la Suprema Corte ha correttamente confermato questo orientamento, ribadendo che la manutenzione di manufatti annessi alla terrazza a livello – quali barbecue, panchine, piccole fontane – è da addebitare al relativo proprietario od usuario, secondo i consueti canoni della responsabilità civile (Cass. 4 giugno 2001, n. 7472 già menzionata).
Altra sentenza (Cass. 28 aprile 1986, n. 2924) aveva affermato che la terrazza a livello – come il tetto e come il lastrico solare – assolve essenzialmente la funzione di copertura del condominio, di cui forma parte integrante sia sotto il profilo materiale che giuridico, ma nel contempo – per il modo in cui è realizzata – è destinata non tanto a coprire le verticali delle proprietà sottostanti, quanto ed in particolare a dare un affaccio ed ulteriori comodità all’appartamento cui è collegata.
Ma affinché la terrazza a livello possa ritenersi di proprietà od uso esclusivo del proprietario dell’appartamento da cui si accede alla terrazza stessa, in mancanza del titolo, è necessario che essa faccia parte integrante da un punto di vista strutturale e funzionale, in modo che la funzione di copertura dei piani sottostanti si profili solo come sussidiaria (Cass. 22 aprile 1994, n. 3832).
La terrazza a livello, anche se di proprietà esclusiva, è equiparata – per quanto riguarda la sua funzione di copertura del condominio – al lastrico solare, e tale è considerata nel regime della sopraelevazione – Art. 1127 cod. civ. – (Cass. 19 luglio 1999, n. 7678).
Diverse sentenze, e quindi Dottrina e Giurisprudenza, sono concordi nel ritenere che le ringhiere e le balaustre delle terrazze a livello sono da considerare di proprietà e competenza esclusiva del proprietario ed usuario della terrazza stessa.
Ma il rivestimento esterno dei muretti di recinzione o eventuali pilastrini – che concorrono a confermare al condominio una armonia ed unità di stile – sono a carico di tutti i condomini e non soltanto ai proprietari esclusivi delle singole terrazze (Cass. 18 marzo 1989, n. 1361).
La già citata sentenza – Cassazione 4 giugno 2001, n. 7472 – conferma quanto chiaramente afferma l’Art. 1126 cod. civ., ovvero che il pagamento dei due terzi della spesa di manutenzione o ricostruzione della terrazza a livello, compete a coloro ai quali appartengono le porzioni immobiliari comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali funge da copertura, con esclusione dei condomini alle cui unità la terrazza non sia sovrapposta.
È uscita, però, una recentissima sentenza della Suprema Corte (23 gennaio 2014, n. 1451; Presidente il Dott. Triola e quale Pubblico Ministero il Dott. Celeste) che è abbastanza innovativa.
Il condomino interessato è proprietario di una unità immobiliare su due livelli: quello inferiore è parzialmente coperto dal terrazzo su cui prospetta quello superiore.
La sentenza dispone che – correttamente – è stato addebitato un terzo della spesa al livello soprastante, ma, relativamente alla suddivisione dei restanti due terzi, la spesa non deve essere addebitata in base a tutti i millesimi dell’unità immobiliare, bensì in proporzione.
È una sentenza condivisibile, ma non si può fare una suddivisione “in proporzione” – sottinteso in proporzione ai metri quadrati di superficie coperta dal lastrico – ed escludendo – quindi – la superficie soprastante, che, peraltro, ha già contribuito con il suo terzo.
Poiché non è immaginabile che si possa risolvere il problema con una semplice operazione aritmetica, è indispensabile fare una considerazione, a conferma anche di quanto – da decenni – i tecnici vanno affermando.
Senza entrare nel merito della recente sentenza – che potrà essere confermata o disattesa nei prossimi anni – è indispensabile che nei condominii in cui esistono terrazze a livello venga predisposta ed approvata anche una tabella per la ripartizione delle spese ad essa afferenti.
Il dubbio potrebbe emergere se si vorrà considerare corretta la sentenza 1451/2014 o tutte quelle precedenti, poiché le tabelle da sottoporre all’assemblea sarebbero certamente diverse.
Ma, ricordando che l’Art. 1126 cod. civ. è derogabile, l’Assemblea, correttamente informata, delibererebbe in merito con votazione totalitaria e non si avrebbero più dubbi di sorta.
Nel caso di danni arrecati dalla terrazza a livello ai piani sottostanti, la relativa azione va proposta nei confronti del condominio – nella persona dell’amministratore – e non contro il proprietario od usuario della terrazza, il quale potrà essere chiamato in giudizio a titolo personale solo se ostacolerà l’esecuzione dei lavori (Cass. 15 luglio 2002, n. 10233).
Dalla lettura del testo dell’Art. 1126 cod. civ. pare comprendere che il proprietario od usuario della terrazza, a livello dovrà contribuire al pagamento solo del suo terzo di spesa, e se non possiede altra proprietà sotto la proiezione della terrazza non dovrà versare altre somme (Cass. 8 ottobre 2001, n. 12329).
Molto si è discusso in merito alla quota parte di spesa che dovrebbe spettare a tutti i condomini nel caso che la terrazza a livello copra una parte comune “particolare”, quale ad esempio l’ingresso, la portineria, la centrale termica, un corridoio, un andito o la scala.
Molti ritengono che una parte della spesa di manutenzione o riparazione debba essere addebitata anche a tutti i proprietari di quella determinata parte comune coperta dalla terrazza.
Esaminiamo, per un attimo, la situazione:
1) le parti comuni non hanno millesimi, e il Pirelli ha sempre cercato di farlo chiaramente comprendere, conseguentemente, quanta parte della spesa dei due terzi può essere di competenza di tutti i condomini?
2) la terrazza a livello, ovunque sia posizionata copre sempre delle parti comuni, i muri maestri perimetrali o interni, pilatri e travi in cemento armato interni ed esterni, e – scendendo – le fondazioni ed il suolo, conseguentemente – se questa fosse la ratio – l’Art. 1126 cod. civ. non si sarebbe limitato ad affermare che i due terzi della spesa debbono essere ripartiti “…. a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte a cui il lastrico solare serve ….”.
3) appare corretta, ed ancora valida ed attuale, una vecchia sentenza della Cassazione (16 febbraio 1976, n. 497) che afferma: se la ripartizione dei due terzi della spesa dovesse tenere conto dell’utilità indiretta che il condomino, avente l’uso esclusivo della terrazza, trae da questa per la funzione che essa ha di copertura di parti e strutture comuni, quali le fondamenta, i muri maestri, le scale, la portineria ecc., la ratio dell’Art. 1126 cod. civ., specialmente nella parte in cui regola le due distinte ipotesi, verrebbe a cessare, e la differente previsione non avrebbe alcun senso, perché, in ogni caso, quell’utilità indiretta sussisterebbe anche per il condomino, avente l’uso esclusivo della terrazza, pur senza essere proprietario di piani o parti di piani sottostanti a quelle opere, e la prevista applicazione non troverebbe mai esecuzione.
Una ulteriore sentenza, sempre di quel periodo (Cass. 16 luglio 1976, n. 2821) ha affermato che l’obbligo di partecipare alle succitate spese non deriva – per quanto riguarda i due terzi – dall’essere condomino, ma dall’avere una proprietà compresa nella colonna d’aria sottostante alla terrazza oggetto della riparazione.
Copertura a spioventi o piana di un edificio.
Il tetto è quindi quella struttura che ricopre la sommità del fabbricato, proteggendolo dagli agenti atmosferici.
Esso può essere costituito da strutture piane – ed in questo caso si chiama lastrico solare o terrazza a livello – oppure da strutture inclinate, dette falde, che – opportunamente disposte – permettono alla pioggia ed alla neve di confluire verso i canali di gronda.
È fuori dubbio che – in qualsiasi modo sia costruita la struttura – unica è la funzione e non esiste differenza giuridica: in ogni caso si è di fronte ad una parte comune, sempre salvo che il titolo disponga altrimenti.
Le falde del tetto possono essere formate da struttura lignea opportunamente disposta – costituendo così colmi, compluvi e displuvi – o da travi in ferro o cemento armato, collegate con tavelle in laterizio, o da travi in cemento armato ed interposti in laterizio e cemento.
Questi materiali costituiscono l’ossatura o parte portante del tetto.
Detta struttura, indipendentemente dalla sua composizione, è protetta dagli agenti atmosferici e resa impermeabile dal soprastante manto di copertura, che può essere costituita da guaina bituminosa, da lastre di pietra naturale, da tegole o coppi in cemento o laterizio.
Tutto questo insieme di manufatti concorre a formare il tetto vero e proprio e costituiscono opere indispensabili alla conservazione dell’edificio condominiale.
Conseguentemente la ripartizione delle spese di riparazione, rimaneggiamento o rifacimento è a carico di tutti i condomini, è non è possibile distinguere il tetto in zone a seconda delle unità immobiliari che esso ricopre, perché unica è la funzione, unica è la struttura tecnica, identica deve essere la condizione giuridica.
Pertanto, a norma dell’Art. 1123 cod. civ., le succitate spese di manutenzione o rifacimento del tetto gravano su tutti i condomini in proporzione al valore del piano o porzione di piano appartenente a ciascuno, salvo diversa convenzione deliberata da tutti i partecipanti (Cass. 29 aprile 1993, n. 5064).
Si è molto parlato a proposito del tetto se esso possa essere frazionato secondo il principio del condominio parziale.
Per la maggior parte degli autori e per la Giurisprudenza, la funzione del tetto è talmente unitaria da rendere ogni discorso puramente accademico, salvo che non ricorra il caso limite di una autonomia funzionale derivante dalla divisibilità del condominio, in forza degli Art. 61 e 62 disp. att. e trans. cod. civ..
Il carattere di parte comune del tetto non viene meno, anche se il condominio è strutturato in modo che uno o più condomini abbiano la loro unità immobiliare coperta da un tetto diverso, ad esempio, perché l’edificio è a più livelli di altezza per la conformazione architettonica dello stesso.
Una sentenza datata (Cass. 30 gennaio 1985, n. 532) ha disposto che nel caso il tetto, dal titolo, risulti di proprietà di un unico condomino, le spese di manutenzione e riparazione del tetto stesso vanno ripartite fra tutti i condomini, con il criterio di cui all’Art. 1126 cod. civ. – come stabilito per i lastrici solari ad uso esclusivo, in quanto è analoga la funzione-.
Spesso la Giurisprudenza si è espressa sul tetto in funzione dell’Art. 1127 cod. civ. – sopraelevazione – relativamente all’indennizzo dovuto ai condomini, esprimendo però pareri contrastanti.
Considerando che il tetto è una parte comune, nessun condomino può occuparlo stabilmente o trasformarlo da tetto a falde in tetto piano o terrazza calpestabile senza la preventiva autorizzazione degli altri condomini, in quanto è una alterazione della sua destinazione d’uso (Cass. 27 luglio 1984, n. 4449; Cass. 28 marzo 1991, n. 3369).
Ancora più recentemente, è stato detto che la sostituzione del tetto con una diversa copertura – ad esempio a terrazza – pur mantenendo la primaria funzione propria del tetto stesso, costituisce una alterazione della destinazione della cosa comune e non può considerarsi insita nel diritto di sopraelevazione spettante al proprietario dell’ultimo piano (Cass. 28 gennaio 2005, n. 1737).
Spesso fra l’ultimo piano e l’intradosso del tetto esistono spazi morti, senza alcun accesso dall’esterno.
Questi locali, se il contrario non risulta esplicitamente dal titolo, si intendono appartenenti al proprietario dell’ultimo piano (Cass. 16 novembre 1988, n. 6206).
Ciò a condizione che il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere l’unità immobiliare sottostante, tramite la creazione di una camera d’aria (Cass. 8 agosto 1986, n. 4970).
La presunzione di comunione si rende applicabile solo quando il sottotetto risulti oggettivamente destinato – anche solo in via potenziale – all’uso comune o all’esercizio di un uso comune (Cass. 29 ottobre 1992, n. 11771).
Sul tetto possono essere installate antenne televisive centralizzate o singole, pannelli solari o impianti fotovoltaici.
Autorizzando queste installazioni, la legge non impone una servitù, ma si limita all’attribuzione di un diritto a favore dei residenti, diritto che non ha contenuto reale, ma personale, che il titolare può esercitare per il solo fatto di risiedere nel condominio (Cass. 3 agosto 1990, n. 7825).
Necessario rilevare che, ogni e qualsiasi impianto od attrezzatura di proprietà del singolo condomino, non potrà occupare in modo permanente una parte rilevante del tetto, pur invocando l’applicazione dell’Art. 1102 cod. civ., poiché il divieto è insito nell’enunciazione stessa dell’articolo.
In tal modo, infatti, il singolo condomino andrebbe a possedere parte di quel bene comune – il tetto appunto - in maniera esclusiva e stabile, commettendo un abuso nei confronti degli altri comproprietari (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3640).
Da tempo la Corte aveva statuito che l’occupazione in via permanente e stabile di parte del tetto non rientra nella previsione dell’Art. 1122 cod. civ. – concernente le opere attuate nell’unità immobiliare esclusiva – ma si tratta di attività innovatrice vietata dall’Art. 1102 cod. civ., se non autorizzata dagli altri condomini (Cass. 27 luglio 1984, n. 4449).
Esistono, a volte, dei tetti eretti a copertura di autorimesse esterne all’edificio condominiale che – svolgendo in tal modo, nella sua struttura unitaria, una funzione di riparo delle unità sottostanti, ciascuna delle quali costituisce pertinenza della proprietà esclusiva dei singoli condomini – sono da considerare comuni a norma dell’Art. 1117 cod. civ., con la conseguenza che essi costituiscono, così come quelli dell’edificio condominiale, oggetto di proprietà comune (Cass. 5 settembre 1994, n. 7651).
Sistema di tubi che consentono la distribuzione o la raccolta di fluidi.
In un fabbricato esistono vari tipi di tubazioni, classificate in base al servizio svolto:
Tubazioni per la distribuzione dell’acqua potabile;
Tubazioni per la distribuzione dell’acqua calda sanitaria;
Tubazioni per la distribuzione del riscaldamento;
Tubazioni per l’energia elettrica;
Tubazioni per i campanelli, citofono e videocitofono;
Tubazioni per la distribuzione del gas;
Tubazioni per lo scarico delle acque nere;
Tubazioni per lo scarico delle acque bianche;
Tubazioni per le ricezioni televisive;
Tubazioni per il condizionamento dell’aria.
I vari tipi di tubazioni sono elencati al punto tre dell’Art. 1117 cod. civ., e fanno parte, quindi, di quegli impianti che – se esistono – sono condominiali, ma il condominio può esistere anche senza di essi.
Sono tutte comuni fino al punto di diramazione delle stesse ai locali di proprietà individuale.
In proposito, una sentenza abbastanza recente – riferentesi alle tubazioni di scarico, ma per analogia, alle tubazioni in genere – afferma che l’impianto che raccoglie le acque provenienti dagli appartamenti (o in essi le distribuisce) presenta l’attitudine all’uso ed al godimento collettivo, con esclusione delle condutture, compresi i raccordi di collegamento che – diramandosi dalla colonna condominiale – servono una proprietà esclusiva (Cass. 17 gennaio 2001, n. 583).
Modo di acquisire una proprietà o altri diritti reali per effetto del possesso protratto per un certo tempo.
L’Art. 1158 cod. civ. stabilisce che la proprietà dei beni immobili si acquista in virtù del possesso continuato per venti anni.
In un condominio, non sono molte le parti comuni sulle quali possa – per un periodo così lungo nel tempo – protrarsi in modo continuo il possesso, ed in modo esclusivo.
La situazione può verificarsi in applicazione, in un certo senso distorta, dell’Art. 1102 cod. civ..
Il suddetto articolo dispone che ciascun condomino possa servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione.
Nel secondo comma precisa anche che non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti.
Può verificarsi il caso in cui un condomino – nel silenzio o nella indifferenza degli altri condomini – estenda il suo diritto su una parte comune e continui ad utilizzarla o mantenerla per gli anni che sono necessari a far scattare il diritto di usucapione.
I tentativi per acquisire una parte comune nella sfera della proprietà esclusiva di un condomino possono essere molteplici, ma in gran parte essi sono destinati ad estinguersi ben prima del compimento dei venti anni canonici.
Il suolo ed il sottosuolo – ad esempio – sono di proprietà comune ex Art. 1117 cod. civ., ma può capitare che il proprietario di un locale al piano terra o interrato, per aumentare l’altezza della sua unità immobiliare ne sfondi il pavimento, appropriandosi in tal modo di una parte comune.
Nel silenzio degli altri partecipanti può scattare l’usucapione di quella parte comune.
Qualche volta il sottoscala è delimitato da muri e da una porta di accesso.
Normalmente – nel silenzio dei titoli di proprietà – esso è di proprietà condominiale.
Non è raro il caso in cui un condomino utilizzi quel vano per motivi propri, ne cambi la serratura e prolunghi nel tempo l’utilizzo esclusivo.
Ed ancora, un condomino può aprire una finestra – Art. 900 cod. civ. – o anche una luce – Art. 901 cod. civ. – senza averne titolo, ma con il tacito consenso del vicino, che di fatto accetta aperture non dovute.
Anche in questo caso – dopo il trascorrere di venti anni – può scattare il diritto di usucapione.
In tutti i casi in cui possa essere in atto un possibile diritto di usucapione, è indispensabile che esista un comportamento durevole, tale da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa comune, e non solo atti di gestione della cosa stessa consentiti al singolo partecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri (Cass. 23 ottobre 1990, n. 10294).
Successivamente la Suprema Corte è stata più restrittiva, affermando che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso (Cass. 25 novembre 1995, n. 12231).
Colui che è titolare del diritto di usufrutto.
L’Art. 978 cod. civ. e seguenti riconoscono ad un soggetto il diritto di usare una proprietà immobiliare di altra persona e di goderne i frutti.
Il proprietario del suddetto immobile – ovvero il nudo proprietario – non ha la libera disponibilità del bene che, invece, lo è di altro individuo, vita natural durante di costui o, nella migliore delle ipotesi, per un periodo di tempo definito.
Quando nel condominio esistono proprietà gravate di usufrutto, l’amministratore è posto di fronte a due problemi:
1) individuare quale dei due – nudo proprietario od usufruttuario – convocare alle assemblee e chi è legittimato ad esprimere il voto.
2) determinare le modalità di ripartizione delle varie spese, nonché come ottenere il recupero in caso di morosità delle spese condominiali.
L’Art. 67 disp. att. e trans cod. civ. è l’unico articolo sulle norme condominiali che – in modo inderogabile – si esprime sulle problematiche connesse all’usufrutto.
Gli ultimi due commi del suddetto articolo disciplinano le situazioni delle proprietà gravate di usufrutto e stabiliscono che il diritto di voto – e quindi il conseguente addebito delle spese relative – nelle assemblee che trattano l’ordinaria amministrazione ed il godimento delle parti comuni, spetta all’usufruttario.
Per le deliberazioni inerenti le innovazioni, le ricostruzioni e le opere di manutenzione straordinaria delle parti comuni – nonché conseguentemente le relative spese – il diritto di voto spetta al nudo proprietario (Cass. 5 novembre 1990, n. 10611).
La caratteristica principale dell’usufrutto è la durata nel tempo, che può essere solo temporanea, in quanto – diversamente – il concetto di proprietà non risulterebbe di nessuna utilità pratica, se la possibilità di godere del bene fosse annullata per sempre.
La legge prescrive che la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario, e quindi l’usufrutto stesso si estingue con la morte di colui che ne godeva.
Potrebbe, però, esistere l’usufrutto a favore di una persona giuridica – che non subisce la morte fisica – ed il vincolo può durare al massimo trenta anni.
Occorre, poi, precisare che l’usufrutto consiste nel diritto di godere della cosa altrui, con l’obbligo di rispettarne la destinazione economica.
Ecco, quindi, che l’usufruttuario può utilizzarla nel modo che ritiene migliore, e nel caso di una unità immobiliare in condominio, può usarla direttamente o affittarla, ricavando ogni e qualsiasi utile, tranne che alienarla, rispettandone sempre la destinazione economica.
Per quanto riguarda la convocazione alle assemblee, l’amministratore deve convocare sempre chi dei due interessati – nudo proprietario o usufruttuario – è chiamato ad esprimersi ed a votare.
Se l’assemblea è convocata per deliberare solo su lavori e spese straordinarie, è bene invitare solo il nudo proprietario (Cass. 21 novembre 2000, n. 15010).
Se invece l’assemblea dovrà esprimersi sui vari argomenti, è opportuno che l’amministratore inviti entrambi, e questo è previsto anche dal penultimo comma dell’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ..
È da ricordare che, a norma dell’Art. 1006 cod. civ., se il proprietario rifiuta di eseguire opere poste a suo carico, l’usufruttuario può farle eseguire a sue spese, con possibilità di rimborso, seppure ritardato.
Risolto il problema della eventuale doppia convocazione e conseguente votazione assembleare, all’amministratore resta la responsabilità di eseguire la ripartizione delle spese gestionali secondo competenza, e ciò in ottemperanza anche della citata sentenza del 21 novembre 2000, n. 15010, che dispone la ripartizione delle varie spese condominiali, così come elencate negli Art.. 1004 e 1005 cod. civ..
L’ultimo comma dell’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. stabilisce che – in caso di morosità dell’usufruttuario – le somme in sofferenza potranno essere chiese al nudo proprietario.
La norma, però, dice chiaramente che entrambi rispondono solidalmente per il pagamento dei contributi condominiali.
Si ha quindi motivo di ritenere che – in caso di insolvenza del nudo proprietario – si possa chiamare in causa l’usufruttuario stesso.
È una disposizione interessante, ed in controtendenza con il passato, in quanto venne affermato che il nudo proprietario non era tenuto neanche in via sussidiaria o solidale, al pagamento delle spese condominiali (Cass. 14 dicembre 2011, n. 26831).
Il novello Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ., inderogabile, dispone ora diversamente, come già detto.
Documento in cui sono trascritti nomi e valore dei presenti, descritte attività e riportate dichiarazioni.
Ora, come in passato, l’ultimo comma dell’Art. 1136 cod. civ. – a coronamento di tutte le inderogabili disposizioni in esso contenute – dispone che di tutte le riunioni assembleari si debba redigere processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall’amministratore.
Non dice il modo in cui si debba redigere il processo verbale – solo una serie puntuale di appunti; verbale schematizzato; verbale definitivo – ma dispone in modo chiaro che esso debba essere trascritto sul registro dei verbali.
Tale registro è anche richiamato al punto sette dell’Art. 1130 cod. civ. e la sua tenuta è fra i compiti burocratici importanti a cui l’amministratore deve attenersi.
In qualsiasi modo venga redatto nel momento dell’assemblea, il verbale deve poi essere trascritto sul registro, ovvero ricopiato fedelmente.
L’ultimo comma dell’Art. 1136 cod. civ. dispone che delle deliberazioni dell’assemblea si deve redigere processo verbale – ma, considerando la inesistenza di specifiche sanzioni in caso di inosservanza – può far sorgere qualche dubbio sulla necessità o meno di racchiudere le deliberazioni in apposito verbale.
Dubbio che sorgeva fino a giugno 2013, in quanto - se è vero che la adunanza in seconda convocazione non è validamente costituita se non dopo che è stata effettivamente tenuta o almeno tentata quella di prima – è altrettanto vero che, in mancanza di constatazione mediante verbale della mancata riunione in prima convocazione, non era possibile riconoscere legalmente la seconda essendo inesistente l’altra.
Ora ha sanato la situazione l’Art. 1130 cod. civ. che dispone di verbalizzare le assemblee andate deserte, pur senza indicare la tipologia del registro dei verbali.
Fino ai primi anni cinquanta il registro dei verbali doveva essere vidimato e bollato in ogni sua pagina, ma successivamente il Ministero delle Finanze – 15 dicembre 1956, n. 95507 – con una circolare ne ha dispensato i verbali delle assemblee condominiali.
Pertanto, ora è sufficiente un qualsiasi registro sul quale annotare tutte le assemblee condominiali.
Seppure succintamente, dovrà essere redatto il processo verbale che riferisca luogo, data e ora e l’indicazione di prima o di seconda convocazione, le presenze ed i valori millesimali rappresentati, le eventuali deleghe ed il nome dei portatori di delega, la nomina del Presidente e del Segretario dell’assemblea – scelti fra i presenti – l’ordine del giorno, la discussione su ogni argomento, le eventuali osservazioni avanzate da ogni presente, le votazioni ottenute da ogni argomento all’ordine del giorno – con bene elencati gli assenzienti, i dissenzienti e gli astenuti e relative quote millesimali – eventuali osservazioni, proposte e richieste avanzate nel punto “varie ed eventuali”, l’orario di chiusura e la firma del Presidente e del Segretario.
Il verbale dell’assemblea serve per documentare, anche a distanza di tempo, quando e come si sono affrontati e discussi certi argomenti, e quali votazioni essi hanno ottenuto e da chi, nonché dimostrare la validità ottenuta dalle deliberazioni, sia negative che positive.
Il verbale dovrà poi essere inviato a tutti i condomini, con invio certo per dare modo a tutti gli aventi diritto di conoscere le deliberazioni assunte e di poter esprimere, anche a posteriori, eventuali considerazioni, ma in particolare per dare modo agli assenti, astenuti e dissenzienti di impugnare le deliberazioni non gradite.
Verifichiamo nel dettaglio ciò che deve essere a verbale.
1) Luogo, giorno, data e ora della prima convocazione.
Deve essere sempre indicato il luogo in cui si dovrà svolgere l’assemblea.
Se il regolamento condominiale non stabilisce la sede, l’amministratore ha il potere di scegliere quella più opportuna, ma con il duplice limite che essa sia nei confini della città ove sorge il condominio e che il luogo sia idoneo, fisicamente e moralmente, a consentirne l’adunanza e la discussione (Cass. 22 dicembre 1999, n. 14461).
Il giorno e la data debbono essere chiaramente indicati, ed avere il preavviso che prevede l’Art. 66 disp. att. e trans. cod. civ., ovvero – per la prima convocazione – almeno cinque giorni prima liberi, e deve avvenire tramite posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano.
Tutto questo in quanto l’amministratore deve poter dimostrare di avere convocato tutti gli aventi diritto, a norma dell’Art. 1136 cod. civ., penultimo comma.
La data viene fissata da chi convoca l’assemblea e non vi sono giorni speciali poiché tutti i giorni sono idonei allo scopo, escludendo - ovviamente – giorni particolarissimi, quali Natale, Pasqua, Capodanno et similia.
Circa l’ora, questa può essere una qualsiasi, purché non si tratti di un orario la cui scelta sia ispirata ad un evidente spinto defatigatorio, anche se la fissazione dell’assemblea in ora notturna può ritenersi completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi (Cass. 22 gennaio 2000, n. 697).
È però il caso di dire che – considerando che il nuovo Art. 1130 cod. civ., punto sette, prevede che sul registro dei verbali debbano essere annotate anche le eventuali costituzioni dell’assemblea – non si comprendono i motivi per riunire l’assemblea a notte tarda.
Infatti, almeno l’amministratore dovrà essere presente per dichiarare nulla – se del caso – la prima convocazione.
2) Specificare il luogo, la data, l’ora della seconda convocazione.
Non è detto che il luogo in cui si riunirà l’assemblea in seconda convocazione sia uguale a quello della prima: in ogni caso vuole indicato o ripetuto.
La data dovrà essere in un giorno successivo alla prima, ma non oltre dieci giorni dalla stessa.
L’ora, a questo punto, dovrà essere confacente sia per le esigenze dei condomini, sia per la tipologia del fabbricato sia all’ordine del giorno, più o meno corposo.
3) L’ordine del giorno dovrà essere il più chiaro ed analitico possibile, seppur conciso, per permettere a tutti gli aventi diritto di comprendere gli argomenti sui quali si incentrerà la riunione.
4) L’elenco dei condomini presenti di persona e quelli presenti per delega.
A lato di ogni condomino presente di persona dovrà essere annotata la caratura millesimale.
A lato dei condomini che hanno rilasciato delega, dovrà essere indicato il nome del delegato e quindi la caratura millesimale.
Prima della Riforma del Codice del Condominio, la delega poteva anche essere verbale, e nel silenzio del Regolamento, non esistevano limiti all’istituto della delega.
Ora il primo comma dell’Art. 67 disp. att. e trans. cod. civ. fissa il numero massimo di deleghe quando i condomini sono più di venti.
In questa situazione il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale.
Diventa, quindi, indispensabile indicare il nome del delegato e del delegante e controllare l’entità dei millesimi.
5) Elencati i presenti e la loro caratura millesimale, l’Assemblea provvederà alla nomina del Presidente e del Segretario.
La nomina del Presidente e del Segretario dell’assemblea non sono prescritte da alcuna norma a pena di nullità, essendo sufficiente, per la validità delle deliberazioni, le maggioranze richieste dalla legge.
Ne consegue che la mancata nomina di un Presidente o di un Segretario, o l’eventuale irregolarità relativa ad essa non comportano invalidità delle deliberazioni.
In tal senso si è ripetutamente espressa la Suprema Corte (Cass. 27 giugno 1987, n. 5709; Cass. 4615/1980).
Normalmente entrambe le nomine non rappresentano un problema, ma – eventualmente – si procederà a maggioranza, senza particolari formalità (Cass. 27 giugno 1987, n. 5709).
6) Attestazione, fatta dal Presidente, della correttezza della convocazione, dei presenti e delle deleghe presentate.
In merito alle deleghe, nel caso esse superino il numero dovuto, le eventuali deliberazioni, comportando un vizio nel procedimento di formazione delle stesse, saranno passibili di annullabilità ex Art. 1137 cod. civ. (Cass. 12 dicembre 1986, n. 7402).
Conteggiati i condomini presenti e rappresentati ed i millesimi conseguenti, il Presidente dichiarerà o meno la validità dell’assemblea, in funzione – anche – degli argomenti all’ordine del giorno.
A norma dell’Art. 1136 cod. civ. è sempre diverso il quorum costitutivo e quello deliberativo, nel senso che l’assemblea può considerarsi costituita, ma dati gli argomenti all’ordine del giorno, i presenti e i millesimi rappresentati, l’assemblea potrebbe non essere deliberante.
Il Presidente dovrà anche controllare che tutti i condomini siano stati correttamente convocati, onde evitare possibili future contestazioni.
Sulla mancata convocazione di uno o più condomini la Giurisprudenza non è stata sempre univoca, e spesso si è espressa in modo diverso.
La Cassazione – 15 dicembre 1990, n. 11947 – dichiarò l’assemblea non semplicemente annullabile, ma affetta da radicale nullità, e quindi non soggetta a termine di decadenza.
In tempi più recenti la Suprema Corte ha mutato parere, ed ha sancito che la mancata comunicazione della convocazione ad un condomino comporta non già la nullità, ma l’annullabilità della delibera che, se non impugnata nel termine di trenta giorni, è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass. 5 maggio 2004, n. 8493; n. 31/2000; n. 1292/2000).
Questo è, per il momento, l’orientamento prevalente.
7) La discussione sugli argomenti all’ordine del giorno dovrà consentire l’esposizione del problema, le considerazioni e valutazioni espresse da chiunque chieda la parola e quindi della conseguente votazione finale.
Dal verbale dovrà emergere in modo palese il voto degli assenzienti, con i relativi millesimi, il voto dei contrari, con i millesimi di spettanza ed anche – eventualmente – gli astenuti.
Il numero degli assenzienti ed i millesimi rappresentati serviranno per verificare se la deliberazione sull’argomento trattato ha raggiunto il quorum richiesto.
L’elencazione dei dissenzienti e degli astenuti, nonché i loro millesimi servirà per consentire la possibilità – per costoro – di impugnare quelle deliberazioni entro i trenta giorni canonici (Cass. Sez. Un. 7 marzo 2005, n. 4806).
Altra sentenza, seppur precedente, ha sancito che la mancata verbalizzazione del numero dei votanti a favore e contro la deliberazione approvata, nonché dei millesimi rappresentati, invalida la stessa delibera, impedendo il controllo sulle maggioranze richieste dall’Art. 1136 cod. civ., con la conseguenza che a carico del condomino dissenziente non è stabilito alcun onere a pena di decadenza (Cass. 21 gennaio 2000, n. 697 citata).
8) Indicazione dell’ora di chiusura dell’assemblea.
È opportuno indicare l’ora in cui l’assemblea viene dichiarata chiusa dal Presidente.
L’allontanamento di alcuni condomini prima della chiusura è ininfluente, salvo che – dopo la loro uscita – vengano discussi altri argomenti.
In tal caso – se il condomino che si è allontanato non ha rilasciato delega ed anche se ha dichiarato il suo voto prima della discussione - la sua espressione di voto è ininfluente, poiché solo il momento della votazione determina la funzione delle volontà dei singoli condomini (Cass. 13 febbraio 1999, n. 1208).
9) Il verbale dovrà essere controfirmato dal Presidente e dal Segretario, nonché dall’amministratore.
È buona prassi che venga letto ai presenti prima della chiusura dall’assemblea, recependo eventualmente le considerazioni od osservazioni finali.
10) Invio del verbale.
È indispensabile che il verbale venga inviato agli assenti, nello stesso modo in cui è stata inviata la convocazione, onde avere la certezza del ricevimento.
È però consigliabile che il verbale venga inviato a tutti gli aventi diritto, onde evitare future osservazioni anche da parte di chi era presente ed ha partecipato, magari con voto favorevole, alle votazioni.
In questo modo, nulla si potrà fare se le deliberazioni assunte sono affette da radicale nullità, ma almeno si avrà la certezza che – trascorsi i trenta giorni dalla comunicazione – anche quelle annullabili vengano sanate di fatto, se non impugnate.
Vano che serve di entrata ad un edificio.
È la struttura posizionata tra il portone di accesso e le scale: in pratica è il vano di ingresso del condominio, detto anche androne.
Esso è di proprietà di tutti i condomini, indipendentemente dalla ubicazione della loro unità immobiliare, ivi compresi negozi, magazzini, autorimesse od altro, pur se utilizzanti altro accesso per i loro locali.
Ove il titolo o il regolamento non dispongano altrimenti, tutti debbono concorrere alle spese di gestione e manutenzione, in quanto il vestibolo è inserito al primo comma dell’Art. 1117 cod. civ., e cioè fra le parti comuni indispensabili.
Il concorso nella spesa deve però essere in rapporto e proporzione all’utilità che ciascun comproprietario può trarre dall’uso di questa parte comune, sia per accedere ai locali egualmente comuni nonché per accedere al tetto, ed anche per l’obbligo e la responsabilità che tutti i condomini hanno per prevenire e rimuovere ogni possibile situazione di pericolo che possa derivare dalla insufficiente manutenzione del suddetto bene comune (Cass. 6 giugno 1977, n. 2328).
Le spese di ordinaria e straordinaria manutenzione del vestibolo non sono considerate innovazione (Art. 1120 cod. civ.) a condizione che non apportino modifiche sostanziali e strutturali, poiché la sostituzione della pavimentazione, o del sistema di illuminazione, il rivestimento dei muri o la loro tinteggiatura ed un eventuale arredamento o oggetti ornamentali sono da considerare solamente opere di miglioria ed abbellimento e non di innovazione.
Così come per scale e pianerottoli, anche nel vestibolo possono essere posizionate piante ornamentali o passatoie a condizione che non siano di impedimento al libero passaggio (Cass. 6 maggio 1988, n. 3376).
È stata anche considerata legittima, e non costituisce spoglio, l’apertura praticata dal proprietario esclusivo di un locale esterno con accesso diretto sulla strada, per accedere al vestibolo del fabbricato, in quanto diretta ad utilizzare una parte dell’edificio da ritenersi comune, senza pregiudizio per gli altri condomini (Cass. 5 febbraio 1979, n. 761).
Apparecchiatura di controllo visivo della zona preposta.
L’Art. 1122ter cod. civ. ha finalmente posto fine a lunghe discussioni, e liti, in merito alla installazione di apparecchiature visive atte ad accertare qualsiasi movimento nella zona controllata.
Essa consiste in una telecamera a circuito chiuso con video registratore, giornaliero o settimanale, che riprende tutto quello che passa e si verifica nel suo campo d’azione.
Prima della promulgazione della legge, vari Tribunali di merito – non di legittimità – si erano sempre pronunciati contro l’installazione degli impianti di videosorveglianza, in quanto contrari al diritto di riservatezza di cui deve godere ogni partecipante (Tribunale di Salerno 14 dicembre 2010).
Lo stesso orientamento era stato espresso dal Tribunale di Varese – 16 giugno 2011, n. 1273 – precisando il divieto al singolo ma anche all’assemblea maggioritaria, ed affermando che solo la totalità dei condomini – dei residenti, verrebbe da dire – poteva deliberarla, poiché in tal caso si perfezionerebbe un consenso comune.
In tempi ancora più recenti la Suprema Corte, già in epoca molto prossima alla promulgazione del novello Art. 1122ter cod. civ., si è espressa in modo più possibilista.
Ha affermato che non sussistono gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze illecite nella vita privata – Art. 65bis cod. pen. – nel caso in cui un condomino, e per analogia, un gruppo di condomini, effettui riprese delle aree condominiali, trattandosi di luoghi destinati all’uso di un numero indeterminato di persone (Cass. 3 gennaio 2013, n. 71).
È da ritenersi che la Giurisprudenza sia stata restia o, quanto meno dubbiosa, sull’esprimere un parere su una questione quale quella della videosorveglianza, per due motivi:
1) tutela del diritto alla riservatezza;
2) l’installazione dell’impianto esula dalle attribuzioni ex Art. 1135 cod. civ., e quindi l’assemblea non avrebbe dovuto o potuto deliberare su argomenti che non riguardano le parti comuni, ma la sicurezza dei residenti.
Dobbiamo ricordare che esistono principi costituzionalmente garantiti, quali il diritto di proprietà, di libertà personale e di domicilio.
Ora tutto viene disposto dal nuovo Art. 1122ter cod. civ., che con una maggioranza neppur troppo corposa – maggioranza degli intervenuti e metà del valore – può deliberarne l’installazione.
Necessiterà però rispettare le prescrizioni stabilite dal Garante della Privacy.
Viene quindi imposto l’obbligo dell’informazione: i visitatori delle aree devono essere informati che stanno per accedere, o si trovano, in una zona videosorvegliata e della eventuale registrazione, anche mediante un cartello che indichi il responsabile del trattamento, se nominato, o la persona fisica o giuridica che, su mandato dei condomini, gestirà le apparecchiature nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di privacy.
Rete metallica o di materiale plastico a maglie fitte e fili sottili, applicata alle finestre per impedire che le zanzare entrino nella stanza.
Le zanzariere, come del resto tutto quello che riguarda i serramenti interni, nonché le inferriate, possono essere installate senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione o dell’assemblea.
In pratica, escludendo le avvolgibili o gli scuri interni - che fanno parte delle facciate e quindi dell’estetica e del decoro generale del fabbricato -, le inferriate poste all’interno delle avvolgibili, le zanzariere ed i telai interni, possono essere installati liberamente.
Piccolo tappeto ruvido, per lo più di fibra vegetale, posto dinanzi alle porte di ingresso per pulirsi le scarpe.
Gli zerbini possono essere privati o condominiali.
Sono privati quelli posti anteriormente alle porte di accesso alle unità immobiliari di proprietà; sono condominiali quelli posti davanti al portone di accesso, alle porte degli ascensori o
davanti alle scale. È opportuno che siano del tipo non di eccessivo spessore e con gli orli che non si increspino, onde evitare inciampi e cadute. In certi fabbricati esistono incavi nelle pavimentazioni che consentono l’alloggiamento di zerbini a misura ed a spessore, che assolvono il compito per cui sono installati e non creano ostacoli alla deambulazione.